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Autore: La neve di aprile    02/06/2007    5 recensioni
Ricordo la prima volta che ti vidi, Izzy.
È una scena che si è stampata nella mia memoria, un marchio che non vuole saperne di sbiadire.
Pioveva da giorni, non c’era stato un attimo di tregua. Nemmeno il più piccolo spiraglio di sole.
Il cielo continuava a vomitare pioggia sulla città, che scintillava.
Le luci dei lampioni, le vetrine, i grattaceli: si rifletteva tutto nelle strade coperte di pozzanghere.
E adesso che gli anni sono passati, che le cose sono cambiate, mi rendo conto che forse la mia vita, la tua vita, sarebbe stata diversa se le cose avessero preso una piega diversa.
Forse ci saremmo risparmiati tante cose, forse saremmo stati persone diversi.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa.
REVISIONE IN CORSO.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hand in glove'
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HAND IN GLOVE
#4 Compromise (me)





PARLA ROXANNE:

Piove.
Hai sempre amato la pioggia, Izzy.
Ti piaceva stare sotto quegli scrosci d’acqua gelida, mentre il cielo urlava la sua furia ad un mondo che scappava.
Un giorno mi dicesti che lo facevi perché ti piaceva pensare di uscirne pulito, che la pioggia avesse la capacità di attraversare le fibre del tuo corpo e andare a lavare le macchie della tua anima.
Io risi, all’epoca, e ti presi in giro.
Tu ti imbonciasti e dovetti darti un bacio per farti tornare il sorriso.
Eri così bello, quando ti imbronciavi, eri bello quando entravi nel mio piccolo appartamento completamente fradicio, con una delle tue eterne camice addosso, appiccicata come una seconda pelle al tuo corpo.
Arrivavi con la pioggia e te ne andavi con il sole.
Con gli anni, ho imparato ad amare la pioggia, lo sai?
Io, che senza il sole non ero capace di stare, io che avevo le mani fredde anche con trenta gradi all’ombra.
Ho imparato ad amare la pioggia così come ho imparato ad amare ogni cosa di te.
È un’arte difficile, quella del compromesso.
Difficile da imparare, difficile da gestire ma fondamentale nelle piccole cose della vita.
E nessuno meglio di te può saperlo.

 

Nothing lasts
This too here will come to pass
Wanna spend my days away from all the fuss
Wanna spend them with you baby but you're in a rush
 

Macy Gray, Slowly.

 

LOS ANGELES, ottobre 1987

Era notte fonda, quando Izzy aprì gli occhi.
Caldi sbuffi di vento gli accarezzavano il viso, passando attraverso una finestra spalancata davanti a lui. Faceva talmente tanto caldo che si sentiva soffocare.

Rimase disteso, coprendosi gli occhi con un braccio, e quando provò a mettersi seduto fu buttato giù da un enorme peso invisibile che gli si arpionò aulle tempie e le strinse in una stretta micidiale.
Strinse i denti, allungando un braccio oltre il letto per cercare il comodino: ci mise sette secondi a realizzare che non c’era e che non si trovava nella sua camera.
Il letto era piccolo, il materasso non aveva niente a che vedere con quello dove riposava da mesi e quello che intravedeva oltre la finestra era poco più di una minuscola porzione di cielo nero senza stelle imprigionato in una distesa di enormi condomini fatiscenti.
No, decisamente non era in albergo.
Forse era a casa di Erin.
Era davvero così piccola la camera da letto di Axl e Erin? Non riusciva a ricordarlo.

Senza nemmeno fare un altro tentativo di mettersi a sedere, cercò di fare mente locale e farsi tornare in mente come fosse arrivato lì.
I suoi ricordi erano fermi a quel pomeriggio, quando Slash aveva decretato che avevano provato abbastanza e, dopo aver riposto la sua chitarra nella custodia con una cura che rasentava l’amore, aveva affettare una bottiglia di birra.

Si rigirò sulla schiena, fissando il soffitto bianco sporco della stanzetta che aveva bisogno di molto più di una mano di vernice.
Non riusciva ad andare oltre quel preciso punto in cui aveva passato a Duff lo specchietto con sopra le ultime due strisce di coca rimaste e aveva svuotato in un colpo solo mezza bottiglia di birra.
Poi, il nulla.
Era come cercare di andare a scavare nella nebbia: spostava un cumolo di lato e subito un altro ne prendeva il posto. Oltre ad essere del tutto inutile, era pure sconfortante.

Una macchina sfrecciò veloce, giù in strada, regalandogli un adorabile fitta di dolore alla testa.
Detestava stare male.
Era una cosa più forte di lui, era totalmente e assolutamente allergico al dolore. In questo non era cambiato, da quando era piccolo, non riusciva a sopportare di star male fisicamente.

Ma del resto, si disse mentre di obbligava a mettersi seduto, cosa saremmo senza costanti?
Posò i piedi sul pavimento, tenendosi la testa tra le mani per soffocare parte delle fitte.

Sentiva la voce di Axl blaterare nell’altra stanza, le sue parole arrivavano chiare e distinte come martellate alle sue orecchie, passando attraverso le pareti sottili della stanza.
Socchiuse la porta delicatamente, senza far rumore, e sbirciò nella piccola fessura che aveva creato: la stanza era completamente buia, illuminata solo dalla luce intermittente di una televisione.
Davanti a lui spuntava la testa di Roxanne, apparentemente intenta a seguire le immagini che comparivano sullo schermo, un’intervista che avevano registrato qualche giorno prima.
Immobile, la ragazza era rannicchiata su una vecchia poltrona sfondata, abbracciandosi le ginocchia con le braccia, muovendosi solo per afferrare una bottiglia d’acqua posata su un tavolino lì accanto. Aveva i capelli sciolti, arricciati in morbide onde ancora bagnate alle punte che immaginava profumare di mandorle e albicocca.

“Quindi non sono a casa di Axl.”osservò alla fine, facendola sobbalzare leggermente.
Lei si voltò verso di lui, sorridendo pigramente.

“Ciao.” bisbigliò sotto voce “Ti ho svegliato?”
Izzy scosse la testa, mentre il pavimento scricchiolava appena sotto i suoi passi, e si sedette sul bracciolo della poltrona, circondandole le spalle con un braccio.
Affondò il viso tra i suoi capelli ancora umidi, inspirando a fondo il dolce profumo dello shampoo.

“No, non mi hai svegliato.” le rispose, guardando con lei Axl che spiegava qualcosa, gesticolando furiosamente.
“Come stai?” gli chiese tenendo bassa la voce, quasi avesse paura di disturbare il dialogo che animava lo schermo davanti a loro.
Vedeva i colori illuminarle il volto e le immagini riflettersi nei suoi occhi scuri. Nonostante il sonno, la nausea e il mal di testa, non poteva fare a meno di sorridere.

“Sono stato meglio.” sospirò, passandosi una mano sul volto.
“Vuoi che vado a prenderti un’aspirina?” si offrì gentilmente Roxanne, posandogli un bacio sulla fronte dopo avergli scostato una ciocca di capelli neri.
Senza aspettare risposta si alzò in piedi, mentre lui scivolava giù dal bracciolo, al suo posto, annuendo.

“Sei un angelo, Roxy.” le disse, mentre spariva in una stanza buia che non era ancora in grado di identifica.
In due mesi che si frequentavano, non aveva ancora capito come fosse disposto quel minuscolo appartamento.

“Oh si.” rise lei, la voce soffocata dalle pareti leggere mentre afferrava il telecomando per cambiare canale.
Gli faceva impressione l’idea di vedersi in televisione, non ci era abituato.
“Un vero angelo del focolare.” riprese Roxanne, porgendogli un bicchiere pieno d’acqua e una pastiglietta bianca, che buttò giù con un sorso.
Gli si sedette in braccio, con le gambe abbandonate oltre il bracciolo, dondolando i piedi.

“No, non cambiare canale!” protestò afferrandogli il polso e impedendogli di premere un pulsante qualsiasi “Voglio vederti in tv!”
Lui rise, pentendosi immediatamente di quell’attacco dìilarità: una fitta alla testa gli contrasse la bocca in una smorfia.
“Ma se hai qui l’originale,” continuò dopo qualche attimo, mentre il dolore si attenuava, “che t’importa di quello che c’è sullo schermo?” la strinse a se, in modo da posare la guancia contro la sua spalla.
“Tu sei k.o. caro mio, quindi stai buono e lasciami guardare.” lo freddò rapidamente, passandogli un braccio oltre il collo e affondandogli le dita tra i capelli.
Izzy chiuse gli occhi con la stessa indole pigra di un gatto che si gode qualche carezza, mentre lei fissava il televisore con attenzione, un mezzo sorriso appena accennato sulle labbra.

“Io non sono k.o.” protestò dopo qualche minuto, stranamente a disagio nel guardare un altro se stesso.
Roxanne gli scoccò un’occhiata significativa.
“Beh, non del tutto!” si corresse, mentre l’intervistatore domandava qualcosa riguardo i loro testi a Slash.
Ricordava quel momento: l’acclamato genio della chitarra lo aveva guardato da sotto la sua enorme criniera di riccioli neri e aveva ciondolato la testa, senza spiaccicare parola. Era talmente fatto che era già un miracolo si fosse accorto che la domanda era rivolta a lui.
Sul momento aveva trovato la cosa divertente, complice la birra e le canne che Duff gli aveva passato sistematicamente ogni cinque minuti, ma adesso.. adesso non voleva che lei vedesse quelle scene.
Non voleva che lei vedesse quanto cazzo era ubriaco anche lui, quanto tutti quanti fossero imbottiti di alcol e droga.
Si agitò, inquieto, distogliendo lo sguardo.

“Ehi, stai buono!” protestò ridendo la ragazza “Non occorre dimenarsi così tanto, se stai perdendo l’uso delle gambe per colpa mia basta dirlo e mi sposto.”
Izzy rise a sua volta.
“Non è questo..” sospirò, lasciando cadere la frase che venne raccolta da Roxanne.
Per quanto ogni parola fosse dolorosa come una pugnalata, per lo meno così non guardava lo schermo.

“E allora cosa c’è, mister inquietudine? Perché non vuoi lasciarmi guardare l’intervista? Cos’è, riveli al mondo che sei sposato con una svedese dalle gambe chilometriche e gli occhi blu?” insinuò, senza però riuscire a frenare quell’infondato timore che le riempì gli occhi, caldi come cioccolata al latte.
Il chitarrista si sentì sciogliere il cuore da una improvvisa dolcezza e la strinse più forte, fino a sentire il calore della sua pelle oltre vestiti.

“Non essere sciocca.” la rimbeccò, baciandole la punta del naso “Lo sai perfettamente che mi dai troppo da fare da sola, non ho il tempo per pensare di tradirti con una bambola svedese. Perché svedese, poi!”
Lei aprì la bocca in un sorriso, senza però demordere.
“Non cercare di infinocchiarmi, Jeff Isbell.” ribatté piccata, calcando con la voce sul nome -il vero nome- del ragazzo che fece una smorfia.
Aveva rinchiuso il suo passato, assieme ai suoi ricordi, dietro una porta sigillata.
La chiave, l’aveva seppellita sotto strati di polvere, alcol e solo il cielo sapeva che altro era stato disposto a fare per dimenticare.
“Perché non vuoi che veda quell’intervista?”

“Certo che sei veramente tremenda!” esclamò esasperato, roteando gli occhi: aspettò che la bassa risata di lei sfumasse nel silenzio, per riprendere a parlare.
Le indicò lo schermo, dove il malcapitato intervistatore probabilmente si malediva in tutte le lingue del mondo per aver fatto una domanda a Slash, che si era lanciato in un elogio del whisky e del bere, del drogarsi e del sesso con le fan.
“Non voglio che tu veda questo” le disse, parlando a qualche centimetro dalla sua orecchia destra, tra i suoi capelli “Non voglio che tu veda come ci riduciamo quando decidiamo di far festa, non voglio che tu veda il nostro squallore, Roxy, perché ne rimarresti disgustata.”

Rimasero entrambi in silenzio, mentre nel televisore il chitarrista dai riccioli corvini lanciava via una sventurata bottiglia di Heineken vuota.
“E se anche fosse?” rispose lei, reclinando il capo fino a posarlo contro la fronte del ragazzo “Pensi che cambierebbe qualcosa?”
“Roxanne, tu non hai idea di quello... di come...” sospirò, cercando di afferrare quelle parole che sfuggivano, come sabbia tra le dita “E’ difficile spiegarlo a qualcuno che non l’ha mai visto, ma ci andiamo giù pesante. Veramente pesante. E anche se sappiamo che non va bene, che è sbagliato, che ci facciamo del male da soli, non riusciamo a farne a meno. Siamo cresciuti in posti talmente squallidi da spingerci a cercare ogni possibili via di fuga: e anche adesso, che di scappare non abbiamo più bisogno, non siamo in grado di smettere. Io non voglio che tu abbia qualcosa a che fare con questo mondo, sei troppo preziosa per correre il rischio di farti scivolare nel nostro vortice.”
“E se ti dicessi che sono più forte di quel che pensi, che ho già visto quello che tu vuoi evitarmi e mi è sembrata una scena all’acqua di rose?” domandò lei tranquilla, seguendo distrattamente le ultimi immagini dell’intervista.
“Faccio fatica a crederti” allentò la stretta su di lei, lasciando che si accoccolasse meglio contro il suo petto “E comunque, non hai mai visto me in quelle condizioni. Ubriaco si, ma completamente distrutto no. Ci sono momenti in cui mi faccio schifo da solo, cosa credi? Quando mi sveglio la mattina e l’aria stessa diventa pesante da respirare, mi sembra di soffocare tanto di merda mi sento.”
Nessuno dei due disse niente per qualche minuto.
Rimasero fermi, su quella poltrona rovinata dal tempo, illuminati dai flash colorati della televisione che andavano e venivano accompagnando un sonoro quasi inesistente.

“Izzy, io ti ho già visto così,” mormorò alla fine Roxanne, parlando a bassa voce.
Sentì il ragazzo irrigidirsi impercettibilmente, ma decise di proseguire.
“Ti ho visto molto peggio di così,” inspirò a fondo, racchiudendo la sua mano tra le dita con delicatezza.
“Questa sera, quando sono tornata a casa dal lavoro, ti ho trovato mezzo svenuto in corridoio. Puoi immaginare la paura che ho avuto, a vederti accasciato contro la parete, talmente immobile da sembrare freddo. Ho cercato di svegliarti, di farti rinvenire, ma niente: hai aperto gli occhi e basta, fissando il vuoto.” s’interruppe, dominando un lieve tremore della voce “Per una nata e cresciuta nella periferia di Los Angeles una scena del genere non è nuova, credimi, non sai quante volte ho visto ragazzi e ragazze nelle tue condizioni, uno più fatto dell’altro, distesi nei vicoli o sui gradini delle chiese. Sono cose con cui convivo da anni, mio fratello è un tossico e l’ho visto rovinarsi con le sue stesse mani sotto gli occhi dei miei genitori, senza che nessuno potesse fare niente per aiutarlo. Sapevo anche che tutti voi avete problemi con alcol e droga, lo ho sempre saputo e una parte di me si rendeva conto che presto o tardi una cosa del genere sarebbe capitata, ma vederti lì mi ha sconvolta più di quanto potessi immaginare.” un singhiozzo le salì alla gola, mentre la vista si offuscava di lacrima che ci avrebbero impiegato poco a rotolare lungo le sue guance.
Ma sapeva che se si fosse fermata non sarebbe mai riuscita a finire.
“Tu non ricordi come sei arrivato qui, vero? Scommetto che quando ti sei svegliato non hai nemmeno capito dove eri.” riprese lentamente.
“Ti ci ho portato io su quel letto così come ti ho portato dentro casa, mezza morta di paura e con te che mi vomitavi anche l’anima addosso, Dio! ti ho tenuto la testa, ho pianto mentre quasi ti soffocavi, ti ho ripulito e ti ho infilato a letto dicendomi che andava tutto bene, che saresti stato bene, che no, non ti sarebbe successo niente. Eri pallido, Izzy, così pallido che avevo paura di respirare per portarti via l’aria, tu non puoi capire quanta paura ho avuto porca puttana!” esclamò, senza riuscire a cancellare una nota stridula che lo fece trattenere il respiro “Quindi ti prego, non farmi discorsi del cazzo dicendomi che non vuoi che io veda come ti riduca quando sei con i tuoi amici perché già lo so. Hai avuto la premura di mostrarmelo tu stesso. Risparmiati le belle parole, non so che farmene, e non dirmi mai più che non vuoi che io sappia questo perché equivale a dirmi che non vuoi che io faccia parte del tuo mondo e non lo posso sopportare, Izzy, non posso sopportare l’idea di lasciarti andare adesso, sto male solo al pensiero e-e...” s’interruppe, scossa da un altro singhiozzo.
Le lacrime ormai traboccavano dai suoi occhi, avevano iniziato a scendere in un qualche punto indefinito tra le parole «non ti sarebbe successo niente» e «non vuoi che io veda» e non riusciva a capacitarsene.
Aveva passato due ore buone, fissando lo schermo spento della televisione dopo essersi fatta una doccia a ripromettersi che non avrebbe pianto, che non lo avrebbe fatto perché non c’era motivo.
Inspirò, per riprendere a parlare, ma Izzy le premette le punte delle dita sulle labbra, intimandole di non aggiungere altro.

“Roxanne, io non voglio che tu rimanga fuori dal mio mondo, anzi! Vorrei passare con te ogni singolo istante del giorno e della notte, anche solo per guardarti mentre dormi. Non sai quanto vorrei che tu venissi con me in studio, che ci ascoltassi suonare e registrare, ma non è possibile. I Guns’n’Roses sono buoni solo a far musica, per il resto sono dei relitti umani che si sono uniti e rimangono assieme per paura del mondo. Parlarne è un conto, viverlo è un’altro, non puoi negarlo..”
La vide lottare contro l’istinto di ribattere e alla fine arrendersi, con un sospiro.
Sembrò perdere ogni forza, abbandonandosi contro di lui come se le avessero privato il corpo delle ossa e affondando il viso nella maglietta che indossava, bagnandola con lacrime silenziose e mormorando qualche parole che si perse tra le maglie di cotone.

“Come dici?” le chiese accarezzandole i capelli.
Le onde scure si tesero, mentre sollevava il volto rigato da calde perle salate, mordendosi rabbiosamente le labbra che poi schiuse appena, per rubare un po’ di aria un più.

“...” boccheggiò, come un pesce, senza riuscire ad articolare quel groviglio informe che si sentiva dentro, quel nodo che le stringeva la gola e le impediva di parlare.
Si sentiva sottosopra, confusa e sperduta, persa nella sua casa, naufraga in un mare di emozioni che si agitava, la trascinava sotto la superficie e non le dava tempo di respirare. Riusciva solo a fissare gli occhi scuri di Izzy, neri come le notti più scure, quelle notti in cui non c’erano nè stelle nè luna e lei era sola con se stessa, messa davanti ai suoi pensieri e alle sue parole.

Chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, lui continuava a guardarla con una dolcezza che non aveva mai conosciuto prima.
“Izzy,” lo chiamò piano, mentre la realtà assumeva la consistenza impalpabile di un sogno, “devo dirti una cosa.”
Lui rimase in silenzio, affondando le dita tra i suoi capelli lentamente. Inspirò a fondo, facendosi coraggio.
“Izzy io penso...” riprese, incespicando nelle parole “...io penso che...” non si era mai sentita così stupida, piccola e insicura in vita sua: non era la prima volta che lo diceva, ma probabilmente era la prima volta che sentiva era vero, che ne era sicura al punto da non avere dubbi.
E allora perché diavolo esitava? Aveva le parole ferme sulla punta di lingua, ma non riusciva a sputarle fuori.

“...non mi lasciare.” capitolò alla fine, mentre il sapore amaro della delusione le riempiva la bocca: non era quello che voleva dire.
Ma di più non sarebbe riuscita a fare, non quella sera. Si sentì stringere più forte, mentre le labbra di lui si posavano sulla sua tempia.

“Non lo farei per niente al mondo.” le assicurò sottovoce.
“Me lo prometti?”
“Te lo prometto.”
Roxanne mugolò qualcosa, chiudendo gli occhi e stringendogli una mano con la stessa dolce foga di un bambino che abbraccia un orsacchiotto la notte, per farsi coraggio nel buio della sua cameretta, prima di abbandonarsi al confortante oblio del sonno e lasciare Izzy sperduto nel mare dei suoi pensieri, senza nemmeno lontanamente intuire cosa quella promessa avrebbe comportato poi un giorno.

 

Un timido raggio di sole fece capolino in lontananza, superando un enorme cumolo di nubi colorate di rosa dalla calda luce dell’alba e granelli di polvere volteggiarono leggeri nella lama di luce che si conficcava nel pavimento con la stessa fredda precisione di una lama, acquistando via via intensità minuto dopo minuto: ben presto, quella sottile striscia di luce aveva abbracciato tutta la stanza.
Il mattino la colse di sorpresa, abbandonata su quella vecchia poltrona sotto una coperta scolorita dagli anni.
Roxanne aprì gli occhi, sbadigliando, e si guardò attorno con un mezzo sorriso, cercando la figura fin troppo sottile di Izzy.
Come diavolo facesse quel ragazzo a essere così magro, considerata l’abnorme quantità di cibo che ingurgitava quotidianamente, era un mistero destinato a rimanere inspiegato.

Allungò le gambe davanti a se, stiracchiandosi pigramente.
Quanto aveva dormito, non lo sapeva, ma a giudicare dalla luce tenue che abbracciava la stanza, dovevano essere passate si e no un paio di ore da quando aveva chiuso gli occhi tra gli braccia del chitarrista e si era addormentata.

“Caffè” biascicò, alzandosi in piedi e barcollando verso la cucina, trascinandosi dietro la coperta.
Aveva un impellente bisogno di caffè per affrontare la giornata.

Una volta acceso il fuoco sotto la moka, si lasciò cadere sull’unica sedia sgamgherata della stanza, abbracciandosi le ginocchia con le braccia: dopo aver sbadigliato vistosamente ed essersi stropicciata gli occhi, cercò di capire dove diavolo si fosse cacciato Izzy.
Non sentiva l’acqua scrosciare nella doccia né tantomeno la sua voce roca canticchiare qualcosa, quindi non stava facendo la doccia e non era in bagno.
Che stesse dormendo in camera, era inconcepibile: in quei due mesi che si erano frequentati, era capitato più di una volta che uno dei due arrivasse tardi al punto da trovare l’altro addormentato e Izzy, ogni maledetta volta, si era addormentato al suo fianco.
Che si trovasse nel letto, sul divano o anche sotto la doccia – perché era successo un paio di volt e- , lui si era sempre accocolato vicino a lei e al mattino lo aveva trovato li: non si era mai lamentato per il mal di schiena, il torcicollo o il raffreddore.
Era un vero angelo, sospirò versandosi il caffè in una tazza azzurra e zompettando nel minuscolo corridoio che portava alla sua stanza.
No, non era lì. Già lo sapeva, ma per scrupolo...

Buttò giù un sorso, la calda bevanda amara scivolò veloce lungo la gola lasciandosi dietro uno strascico che sapeva d’oriente e acqua sporca.
Fece una smorfia, era davvero disgustoso.
Si sporse dalla finestra della sua stanza, sbirciando sulla scala anti-incendio che si arrampicava lungo la parete, una bizzarra edera di ferro arrugginito.
Con una fitta al cuore, realizzò che non era nemmeno lì: sporse le gambe oltre il cornicione, posando i piedi nudi sul sottile e freddo reticolo di lamine che dava vita a una sorta di minuscolo terrazzino davanti alla stanza.
Agguantò le sigarette abbandonate su uno scatolone adibito a tavolino e se ne accese una, sedendosi sulla sdraio sistemata in un angolo, accanto ad una pianta dalle foglie talmente secche che sembravano sul punto di polverizzarsi al minimo tocco: come tutti gli abitanti del palazzo e della città, anche lei se ne era allegramente infischiata delle norme di sicurezza e aveva trasformato l’unica via di fuga in un prolungamente dell’appartamento dove prendere un po’ d’aria nelle notti più torride.

Soffiò fuori una lunga boccata di fumo, mentre il telefono iniziava a squillare.
Lo lasciò suonare, ignorando gli squilli fastidiosamente insistenti che si stopparono quando si inserì la segreteria telefonica.

“Ciao sono Roxanne,” iniziò a recitare, sulla falsariga della sua voce registrata, agitando la sigaretta in aria, “ e in questo momento non sono in casa, e se ci sono non ti voglio sentire, quindi dopo il beep lascia un messaggio: se ho voglia ti richiamo, sennò no. Beeeep!”
Seguì un attimo di silenzio, che la riempì di aspettative e attese, prima che la voce del suo capo le ringhiasse che c’era bisogno di lei al locale anche in mattinata perché Charlie si era di nuovo sentita male.
Sospirò, curvando le spalle e posandosi contro lo schienale della vecchia sdraio, sentendosi come svuotata.
Avrebbe voluto fare colazione con Izzy, assaporandosi il suo sorriso sbilenco e il suo caffè imbevibile, ridendo di tutto e di niente, chiacchierando come una coppietta di sposini.

“...solo che non siamo due sposini” commentò amaramente, la bocca piena di fumo e una delusione che sfumava in tristezza.
Con un sorriso cinico, constatò che in parte era stata accontentata: il caffè era imbevibile, anche se lo aveva preparato lei.



 

PARLA ROXANNE:

Forse tu non lo ricordi, Izzy, ma avevi un modo tutto tuo di guardare al futuro, quando eri con me.
Mi dicevi di voler passare ogni singolo istante della tua vita assieme a me e poi, alla prima occasione, scappavi via, senza dire una parola.
Come se ti accorgessi di lottare contro qualcosa che non potevi sconfiggere.
Sapevi che presto o tardi avresti dovuto scegliere tra me e la tua musica.
Credo che tu lo abbia sempre saputo, dal primo momento in cui ci siamo incontrati.
Il tuo destino era nella musica, il mio no.
Stare assieme era un sogno, un bellissimo sogno, una favola ad occhi aperti che forse ci avrebbe salvati da molte altre cose.
Ma pretendere che un sogno si trasformi in realtà, un sogno del genere, era troppo.
La corda si spezza, se viene tirata troppo.
E visto che tu la tiravi senza sosta, fui io a dover cedere e lasciarti fare.
Compromesso, Izzy, compromesso.
Il trucco sta nel capire che certe volte non c’è altro da fare se non scendere a patti.
Un male minore per un bene superiore.
Che poi questo male minore fosse incredibilmente doloroso, alla fine, era relativo.
L’importante, era stare con te.
Ad ogni costo.

   
 
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