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Autore: Martunza    04/06/2007    1 recensioni
Come ci si sente a non avere niente? Come ci si sente a essere soli? Come ci si sente di notte,quando non si riesce a dormire e non si ha nulla,neanche un ricordo cui aggrapparsi? ...E come ci si sente dopo aver trovato qualcuno? Questa è la storia di due ragazzi soli,che si sono trovati davanti a un vicolo cieco. Che a nessuno di voi capiti mai una cosa simile...
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Andrea:
Il giorno dopo Andrea si svegliò di buon umore. Aveva dormito bene,era da tanto tempo che non gli succedeva.
Scese di sotto e fece un impercettibile sussulto vedendo la figura del padre accasciata sul divano che russava. Andrea si soffermò sulla figura dell’uomo,che persona triste era.
Nonostante questo però,il ragazzo era assolutamente determinato a non farsi prendere dal malumore e dalla malinconia.
Dopo tutto la giornata era cominciata bene.
Decise quindi di andare in cucina e prepararsi la colazione,mentre faceva questo però,tra un gesto e lasciò che la mente andasse…Che i ricordi si impossessassero della sua mente…
Gli era costato molto tempo ammetterlo e convincersene,ma adesso il ragazzo si rendeva perfettamente conto di che razza di padre gli era capitato.
All’inizio di tutto Andrea era veramente convinto che fosse colpa sua.
Rassegnato,si sedette al tavolo con la sua ciotola di cereali,e lasciò che i ricordi l’invadessero.

Una fredda e austera mattinata di fine novembre,il girono preciso non importa.
Andrea e Irene erano fuori,a giocare in giardino. Faceva freddo ma i genitori non avevano opposto resistenza,bastava che non prendessero freddo.
In realtà Andrea di freddo ne sentiva parecchio,ma non disse niente a nessuno,perché si stava divertendo a giocare fuori con Irene,era da tanto che non giocavano così.
Ad un certo punto,videro la madre uscire in giardino,visibilmente sconvolta,anche se cercava di sembrare il più possibile rilassata,davanti a loro. Irene si avvicinò alla madre e chiese se andava tutto bene,con un cenno del capo la madre assentì e disse ai bambini di entrare in casa. Ricordi confusi,immagini distorte. Un’ ospedale,una camera piccola e anonima,che dà l’ansia solo per il semplice fatto che l’unica finestra che c’era era piccola e in alto.
E’ lì che fu ricoverato Andrea per due settimane,scarlattina.
Dopo quelle due settimane d’inferno passate con giorni e notti intere con la febbre a 39° e a vomitare e a fare "tutte quelle cose allegre che si fanno in ospedale"(come aveva detto il padre), era finalmente tornato a casa.
Stava decisamente meglio,ma i medici si erano comunque raccomandati di non prendere freddo,di non uscire di casa e di non fare niente che potesse fargli avere una ricaduta. Quindi,Andrea era rimasto ancora per un po’ a casa,intanto erano quasi arrivate le vacanze natalizie,e ai maestri non importava se il bambino stesse a casa o meno.
La madre di Andrea decise che tanto valeva che anche lei si prendesse delle ferie anticipate e rimanesse a casa col bambino…Almeno questo era quello che credeva Andrea…Non immaginava nemmeno lontanamente che invece…
Una mano sulla spalla,premeva forte. La mano di suo padre. "…Dove sei stato ieri sera?"chiese.
"A lavoro,no?E poi sono tornato,ma tu non c’eri…"rispose timoroso il ragazzo.
Sentì la mano dell’uomo colpirlo forte dietro la nuca.
"Bugiardo!Sono rimasto a casa fino all’1 di notte passata,e di te nessuna traccia!!il tuo turno finisce alle 12!!" ringhiò allora il padre di Andrea,che in realtà sapeva perfettamente che anche correndo il ragazzo non avrebbe mai potuto essere a casa in tempo prima delle 12:30,ma era uguale,ogni pretesto era buono per prendersela con lui.
Andrea respirò forte,tentando di mantenere la calma. In quel momento entrò in cucina Irene,e con uno scatto assolutamente al di fuori della sua massa corporea,l’uomo fece un salto verso il lavandino alle sue spalle,allontanandosi da Andrea.
Irene andò a dare un bacio al padre e si accomodò anche lei sul tavolo di cucina insieme al fratello.
La ragazza non sapeva niente. Non sapeva di come il padre,prima occasionalmente,ma ultimamente sempre più spesso sfogasse la sua rabbia sul ragazzo,non sapeva di tutte le volte che Andrea aveva pregato in silenzio che le urla del vecchio non svegliassero Irene,che si sarebbe trovata davanti una scena che non avrebbe mai neanche osato immaginare.
Se la sorella vedeva lividi,erano quelli fatti dai colleghi di lavoro,per gioco.
Erano quelli che si era fatto andando a scontare un cliente particolarmente piazzato,sempre al pub.
A costo di passare per lo scemo caduto dalle scale,Andrea avrebbe fatto di tutto per far si che Irene non fosse mai venuta a sapere la verità. Mai.
Non osava veramente immaginare cosa sarebbe potuto succedere…
Si riscosse sentendo l’insistente voce di Irene che lo stava chiamando.
"Andrea!!-disse-mi senti??- Andrea annuì leggermente col capo,ancora assorto nei suoi pensieri- Senti,-proseguì la ragazza- papà mi accompagna a fare delle commissioni in centro…Se ti va di venire…".
Lasciò che Andrea ci pensasse un attimo,prima di sbottare a ridere vedendo la sua faccia invasa dal disgusto,quando realizzò che fare "delle compere" significava…Shopping!!
Questa volta scosse molto più energicamente la testa,facendo ridere Irene ancora più forte. "Va bene,va bene ho capito,andiamo da soli allora!-disse,rassegnata –vado a cambiarmi…"
Disse,uscendo dalla cucina. Neanche il tempo di realizzare che era di nuovo solo col padre,che Andrea si ritrovò nuovamente nella situazione di prima,il padre gli premette forte sulla spalla destra,sogghignando:"Divertiti sfigato,io e te ci rivediamo sta sera,abbiamo un discorso in sospeso…". E finalmente uscì dalla cucina.
Il ragazzo fece un respiro profondo,era stato relativamente fortunato,per ora non era successo niente,e se aveva un minimo di fortuna,la rabbia del padre sarebbe scemata nel pomeriggio…Se aveva fortuna…Andrea sperava solo che se anche il padre fosse tornato arrabbiato per qualcosa,che lo mandasse semplicemente a comprare delle birre…
Dopo tutto la giornata era cominciata una schifezza. Finì di fare colazione e uscì in fretta dalla cucina,come se ci fosse qualcosa che ancora lo turbasse o che potesse fargli del male.

Quando Andrea chiuso al sicuro nella sua camera,sentì il silenzio che avvolgeva la casa,tirò un sincero sospiro di sollievo,era andata,per ora.

Silvia:
Silvia si svegliò irrequieta.
Aveva dormito poco e male,e quando si svegliava così voleva dire che anche il resto della giornata non sarebbe stato gran che.
Scendendo in cucina sentì il profumo del caffè invaderle le narici,il che la tranquillizzò un po’. In cucina c’era suo fratello maggiore,Simone,che appena la vide le sorrise e le prese una tazza per versarle un po’ di caffè. Silvia si sedette facendo un piccolo sorriso e un cenno del capo al fratello.
Lui era praticamente l’unico nella sua piccola,sfondata,famiglia a cui lei veramente sentiva di essersi affezionata,cosa difficilissima per lei. E pensare che Silvia e Simone non parlavano mai,o quasi. Forse era proprio per questo che Simone le piaceva,perché non faceva domande,se lei voleva parlare lui era li,sennò potevano anche continuare così,lui avrebbe in ogni caso continuato a versarle il caffè nella tazza vedendola scendere in cucina di malumore.
Silvia si stupì a pensare quanto in realtà il fratello fosse importante per lei,nonostante lei non gli avesse mai confidato nulla di se stessa.
Prese la tazza che il fratello le porgeva e gli offrì in cambio i biscotti.

Fecero colazione così,in silenzio,ognuno consumando il proprio pasto preso dai suoi pensieri.
Eppure non era un silenzio teso come quello che si sentiva la sera a tavola con tutta la famiglia riunita. Silvia odiava le cene in famiglia,in genere si riusciva ad evitarle,in quanto il padre medico aveva degli orari variabili,lavorando in un ospedale pubblico.
Anche la madre di Silvia non era un grosso problema,le rivolgeva la parola solo quando doveva dirle qualcosa di spiacevole.

Non era sempre stato così però.
Silvia non ricordava com’era prima,ma Simone si,e in un paio di occasioni aveva accettato di parlargliene,anche se non era affatto facile per lui farlo.
All’inizio le cose andavano bene,i loro genitori si erano sposati,avevano una casa e un lavoro che soddisfaceva entrambi,dopo di che si sentirono pronti per il grande passo e decisero di avere Simone.
Già Simone…Ma non Silvia. Però non era colpa sua,questo Simone non l’aveva mai pensato.
Le cose in realtà andavano male già da prima,lei era stata solo l’ultimo disperato tentativo dai parte dei genitori di non far si che il loro matrimonio e tutto quello che avevano creato andasse a puttane.
In realtà i suoi genitori erano talmente ipocriti e orgogliosi che si rifiutavano di ammettere di aver fallito,e così ripiegavano su Silvia.
Perché era l’ultima arrivata.
Perché prima di lei stavano tutti meglio.
Perché creava solo problemi.
Perché era scontrosa.
Perché vestiva di nero.

Silvia era cresciuta ignorando cosa fosse l’amore dei genitori,eppure non ne aveva mai sentito la mancanza. Neanche da piccola. Era cresciuta in quel ambiente da sempre freddo e ostile,ma non per la sua venuta.
"Le cose andavano male da prima,fidati" queste erano state le parole di Simone,parole che Silvia si ripeteva automaticamente quando i suoi iniziavano a rinfacciarle qualcosa.
Le cose avevano seguito semplicemente il loro ordine naturale:la promozione all’ospedale del padre,che comportava più soldi ma anche il fatto che a casa non ci fosse mai,la madre sempre più stressata per dover sostenere da sola il peso di due figli che crescono e trovarsi totalmente impreparata davanti a tutto questo,le rare volte che il padre era a casa soltanto urla su urla,un marito assente forse anche perché non vuole accettare la situazione…E crescere così.
Per non parlare poi di quella famosa notte che aveva fatto traboccare il vaso.
Era stato in seguito a quella che Silvia aveva capito di essersi definitivamente giocata l’ultima possibilità di rimettere le cose a posto.
Da lì fu tutto molto più facile in un certo senso,perché nessuno sentiva più il bisogno di fingere di star bene… Andare a casa di Flavia e doversi soffermare a pensare a come stanno i tuoi,su richiesta di genitori apprensivi,e cercare di sopportare l’imbarazzante silenzio che si crea dato che non ti ricordi neanche di che colore ha gli occhi tuo padre.
Una madre incapace di sostenere il suo ruolo e assolutamente terrorizzata da tutto ciò che la circonda, che vede pericoli ovunque.
Per non parlare poi di come inizia a guardare la figlia vestirsi di nero,truccarsi gli occhi e mettere anfibi e calze a rete accostate con minigonne esagerate e corpetti attillati.

Ma a Silvia di tutto questo non importa.
Lei ha la sua musica,la sua comitiva,un fratello che le prepara il caffè e soprattutto,lei ha la sua pittura. Già la pittura.
L’amava,dal più profondo di se stessa e del suo animo,lei l’amava.
Amava sentire l’odore degli acquarelli appena tirati fuori.
Amava passarsi sulle dita i pezzettini di colore rimasti dopo aver temperato le matite.
Amava vedere la luce del sole passare attraverso le tende leggere della sua camera ed andare a creare dei bellissimi effetti chiaroscurali sulle tele.
Amava sfogare le sue emozioni nei suoi quadri,buttare colori a casaccio l’uno sull’altro,provare nuove combinazioni sempre diverse,sempre più pazze,sempre più belle e affascinanti perché improponibili. L’affascinavano…
E per un po’ di tempo Silvia si era anche nutrita dell’illusione che i suoi quadri potessero riavvicinarla alla madre,che ogni tanto entrava in camera sua silenziosamente,si sedeva in bilico sul letto,come se avesse paura di sporcare o,in un certo senso,di viverle quelle cose.
Bastava che Silvia mettesse uno dei vecchi cd scoperti per caso sulla libreria,dei cd di musica classica,che metteva quando iniziava a dipingere,li metteva ad un volume abbastanza alto di modo che anche con la porta di camera della madre chiusa,avrebbe potuto comunque sentire il richiamo della musica,che l’avrebbe guidata in camera della figlia.

Lei si sedeva,e semplicemente osservava,per ore e ore,in silenzio.
E Silvia non parlava,lei stava lì a darle le spalle e a dipingere i suoi quadri,concentrata solo sulla sua arte. Quando aveva finito si girava verso al madre per vedere cosa pensasse.
Ma lei non diceva mai niente,semplicemente tanto silenziosamente com’era arrivata si alzava e tornava in soggiorno o in camera sua,a fare qualcosa che nessuno avrebbe potuto mai sapere.
Così per ore,giorni,settimane,mesi…Anni…Una vita. A parlare con i suoi fantasmi,che prendevano vita solo nei suoi occhi grigi e vuoti.

Un giorno Silvia aveva deciso di fare un "esperimento": si era messa come sempre a dipingere ma quando entrò la madre nella stanza,con fare deciso ma anche cauto,spostò il cavalletto,di modo che la madre potesse vederle il volto mentre dipingeva,erano l’una di fronte all’atra.
Dopo chissà quanto tempo. Silvia iniziò come sempre a dipingere,ma non disse alla madre che stava dipingendo lei. Un suo ritratto,per quello che poteva sapere Silvia,il primo che la madre si fosse mai fatta fare,anche se a sua insaputa,chissà come sarebbe venuto.
La madre rimase ferma come sempre,impassibile allo sguardo della figlia fisso su di lei.
Aspettò che spegnesse la musica,segno che avevano finito,e se ne andò come sempre.

Il giorno dopo però Veronica non tornò più nella stanza di Silvia. Lei mise la musica ma la madre non venne. Non tornò più. Da quel giorno Silvia iniziò a dipingere con la porta chiusa e senza più musica,solo per se stessa. Il ritratto della madre giaceva abbandonato a metà in un angolo della camera,polveroso e senza vita. A Silvia ogni tanto capitava di riguardarlo,pensando che forse era riuscita a ritrarre la madre molto più fedelmente di quanto non le era sembrato all’inizio.
  
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