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Autore: L_Fy    19/11/2012    30 recensioni
...Se lo disse anche a fior di labbra, sottovoce: "Veronica Alberice Scarlini della Torre, sei uno schianto."
Aveva diciotto splendidi anni, era raffinata, ricca, alla moda, trendy da morire, più fashion di Paris Hilton, più glamour di Anna Wintour, più sensuale di Monica Bellucci. Nessuno del centinaio abbondante di ragazzi della sua scuola poteva non sbavare mentre lei passava senza degnarli di un solo sguardo, nessuna delle 2000 oche della sua scuola poteva non morire d’invidia, nessuno del corpo insegnanti poteva non rimpiangere di non avere avuto un solo grammo del suo allure nella loro triste, patetica esistenza.
Quindi, non poteva essere altrimenti: lui finalmente l’avrebbe guardata.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Paolo Bianchi stava pensando a Veronica. Sentiva di avere la faccia cupa come se stesse pensando a qualcosa di molto difficile e molto brutto, quando invece avrebbe dovuto essere l’esatto contrario: questa cosa Paolo proprio non sapeva spiegarsela. Rivedeva Veronica nel suo letto (alla faccia del letto… sembrava una nave da crociera) (ma che importanza aveva il suo letto?), il viso struccato bello e disarmante, gli occhi enormi, verdissimi… come se avesse avuto paura di lui. Di lui, Paolo Bianchi! Forse aveva paura di quello che provava (lui ce l’aveva di sicuro. Terrore puro. Di lei).
Cioè, insomma, un po’ di paura era legittima, no? Lei era Grimilde. (No, non più).
Ok, lei comunque era quella che si mangiava a colazione chiunque intralciasse il suo cammino (No, non era più così! Era cambiata!) (Ma si può davvero cambiare così tanto?).
Per Paolo fidarsi di lei era uno sforzo continuo, che lo esauriva nelle sue già esigue energie (… e poi, il sapore delle sue labbra…).
Anche solo starle vicino era uno sforzo. Gli metteva agitazione, confusione, disagio. Perché allora le aveva detto quelle cose? (Perché era un vigliacco!)
Non era un vigliacco. L’aveva colto di sorpresa, ecco, forse era così. Era stato quasi patetico, e non era affatto da lui… Perché? (Forse perché si era sentito una merda a provare sollievo nel fatto che lei potesse essersi comportata di nuovo come Grimilde…?)
No! (Sì)
Beh… forse. Ecco, l’aveva detto! (No, pirla, lo hai pensato).
Ma le cose non stavano così! (… e poi, il sapore delle sue labbra…).
Ok, si deve parlare del sapore delle sue labbra?
(Parliamone!) Era buono.
(Acqua, acqua…) Era delizioso.
(Però?) Però niente.
(Coraggio, ragazzo! Esterna la presenza di testicoli!) No!
Paolo si scosse bruscamente e riaprì il libro di filosofia. Era un ragazzo molto intelligente, dotato di pazienza, costanza e con uno spiccato senso del dovere… ma una fantasia quasi nulla. Infatti per quanto si sforzasse non riusciva a immaginarsi di fianco a Veronica Scarlini della Torre. Era un pensiero troppo fuori dalla sua portata.
(… e poi, il sapore delle sue labbra…). Era dolce, ok, basta pensieri cazzoni, doveva studiare!
(Però) Però niente, concentrati sul libro.
(… però le labbra di Veronica non erano dolci come quelle di Serena).
Serena. Ecco che era venuto fuori. Quel pensiero latente che stagnava sotto tutti gli altri, che li alimentava e li contaminava. Serena. Bastava quel nome e Paolo si sentiva strizzare qualche organo interno fino a dolere (E’ il cuore, pirla due volte).
Serena non gli metteva agitazione, confusione e disagio. Con Serena era stato tutto facile e naturale. Quando era con lei, non gli venivano inutili punti interrogativi nella voce per via dell’agitazione. Con lei… era se stesso: senza sforzarsi, senza doversi difendere.
(… e il sapore delle sue labbra?) Era dolcissimo. Struggente. Delicato e intenso allo stesso tempo, unico. Suo.
(Ti manca da morire, eh?) Si. Terribilmente. Profondamente. Dolorosamente.
(... sei ancora innamorato di lei?)
“Adesso basta.”
Paolo lo disse a voce alta.
(Perché sai già la risposta, ma ti caghi sotto ad ammetterla).
Poi chinò il capo sul libro e iniziò a studiare.
*          *          *
Inocencia stava pulendo un tavolo: la visione di quell’attività era piuttosto inquietante, primo perché il tavolo splendeva da quanto era pulito e l’inutilità di quell’accanimento terapeutico era palese, secondo perché la figura rotondeggiante della donna che si agitava aveva una sorta di movimento liquido che inquietava. Veronica rabbrividì, purtroppo non di febbre. Rabbrividì perché era angosciata senza sapere di esserlo: dopotutto l’angoscia non faceva parte del suo esiguo bagaglio di conoscenze a livello di sentimenti.
“Inocencia.” la chiamò, piano.
La domestica le lanciò un breve sguardo e continuò a pulire.
“Si, senorita?”
“Dobbiamo parlare.”
“Tienes fame? La cena està listo pronta.”
“Non mi interessa la cena.”
“C’è il manzo.”
Veronica odiava il manzo: la puerile ripicca di Inocencia sarebbe stata anche divertente se il suo viso non fosse stato così sofferente.
“Inocencia, fermati.”
Inocencia smise di colpo di pulire e rimase con lo strofinaccio giudiziosamente in grembo, in impenetrabile attesa.
“Dica.” la incalzò freddamente.
Veronica aprì la bocca ma non parlò. Sinceramente, non sapeva che dire: certe parole non esistevano nel suo vocabolario.
“Senorita, c’è molto da fare, se non le dispiace. Tengo que limpiar.”
“Non è vero che devi pulire: sono ore che non fai altro, questa casa brilla come un maledetto diamante. Forse è ora che mi ascolti.”
“Io escucho. Ma ella no habla.”
Veronica fece un profondo sospiro e chiuse gli occhi.
“Non so come dire certe cose.”
“Qué cosas?”
“Cose tipo scusa.” buttò finalmente fuori, ma Inocencia non batté ciglio.
Si guardarono negli occhi. Quelli scuri di Inocencia sembravano inflessibili, ma erano così scuri e… dolenti. “Ti vuole tanto bene” mormorò la voce di Gladi dall’aldilà “E’ forse l’unica persona che sempre te ne vorrà”.
“Mi dispiace.” riuscì quindi finalmente a dire Veronica.
“De tener fornicado con el senor Tebaldo? Sotto el mio naso? A quién le importa: sono solo una domestica.”
“No, Inocencia. Non sei solo una domestica, e lo sai. Poi non è di questo che mi voglio scusare.”
“Allora de cosas?”
Difficile da dire. Impossibile quasi. “Ma per te Veronica niente è impossibile, adesso” la incoraggiò di nuovo la rediviva Gladi.
“Non mi dispiace aver fatto sesso con Tebaldo” disse quindi con voce ferma, lentamente “Io…”
“Tu lo ami?” chiese meravigliata Gladi nella sua testa. Veronica sobbalzò.
“No! Cioè… Inocencia, mi dispiace di averti ferito.”
Finalmente la maschera di inflessibile freddezza di Inocencia cominciò a incrinarsi.
“Te dispiace di aver ferito me?”
“Si. Scusa.”
Lasciando Veronica di stucco dalla sorpresa, Inocencia sbatté per terra lo strofinaccio che aveva in mano con tutta la forza che aveva.
“Por todas le maracas de Caracas!” strillò di punto in bianco, furiosa “No te deve dispiacere por mì! Te deve dispiacere por tì! Tu Veronica sei mucho mejor de così! Tu no es una comune chica che se chiude in camera con el primero bribòn che passa! Donde està la tua educaciòn? La tua dignidad? Porque te butti via così? Con un serpiente como el senor Tebaldo? Tu sei fuerte, inteligente… No puedo ver che te sminuisce così!”
“Tebaldo non è una serpe.” rispose automaticamente Veronica con una voce strana.
E Inocencia, che forse era davvero l’unica persona che amava Veronica incondizionatamente e che conosceva di lei tutte le sfumature, capì. Il suo viso assunse una profonda e genuina espressione esterrefatta.
“Beata Virgen Maria de la Mercede del Carmen…” mormorò sottovoce.
“Non fare quella faccia” la interruppe precipitosamente Veronica spaventata “Erano molto meglio le maracas di Caracas.”
“Mi pequena… la mi pobre nina!”
Lasciando di nuovo Veronica completamente di stucco, Inocencia corse ad abbracciarla amorevolmente, avvolgendola con pietosa dolcezza.
“Cosa mi è successo, adesso?” gorgogliò Veronica soffocata dal suo petto “Ho una malattia terminale?”
“El senor Tebaldo… dovevo entiendere que la mi chica non se comportava da puta de Babilonia con todos…”
“Guarda che lo capiscolo spagnolo, mi hai dato della puta di Babilonia!”
“…seguro que él es un gran picaro, una canalla…”
“Ma chi?”
“El senor Tebaldo!”
“E ti viene in mente adesso che è una canaglia? Dopo vent’anni che lo conosci?”
“Ma prima de ahora non avevo capito!”
“Capito cosa?” chiese Veronica, disorientata: era così felice che Inocencia dimostrasse di nuovo di volerle bene che aveva un po’ perso per strada i suoi discorsi a pera.
“Que tu lo amas!” declamò la domestica con un sorriso radioso che però si spense subito alla vista del viso di Veronica che andava man mano a riempirsi di orrore.
“Oh mi chica… ma nemmeno tu lo sabe!”
“Qui nessuno sa niente!” berciò Veronica allontanando bruscamente Inocencia da sé “Che non ti venga mai più in mente… non ti azzardare mai più a dire una cosa così… indecente! Capito?”
“Si, senorita.” rispose Inocencia ricomponendosi lestamente.
“E non fare quella faccia!”
“No estoy facendo nada!”
“Si invece! Fai la faccia da gatto, la riconosco. Pensi di saperne più di me, vero? Come quando ero piccola e nascondevi i biscotti sicura che non li avrei mai trovati!”
“Biscotti?” tergiversò Inocencia giudiziosamente, ridendo sotto i baffi “Hoy fatto el manzo per cena.”
“Era una metafora! E poi guarda che a volte li trovavo i tuoi dannati biscotti.”
“A volte” concesse Inocencia con un sorriso leonardesco “Me voy a cambiare la cena: ti faccio el tofu.”
Scivolò via leggera come una piuma lasciando Veronica dubbiosa di soffrire pesantemente degli effetti allucinogeni della recente influenza.
*          *          *
Paolo Bianchi pensò fuggevolmente di possedere un radar interno davvero notevole: nonostante il cicaleccio di sottofondo di Laura e Silvia in salotto, il rumori dei rimbalzi della palla di Dante, il brontolio della nonna che vagava per le stanze rassettando quello che animali e umani guastavano sistematicamente al suo passaggio, fu l’unico della casa a sentire il discreto trillo del campanello.
“Porta!” ululò senza molta speranza di essere ascoltato: i suoi familiari erano completamente sprovvisti di radar, anzi, già sulla presenza di un normale apparato uditivo Paolo riponeva i suoi dubbi. Difatti, nessuno lo considerò: rinunciando ad un secondo tentativo, Paolo si alzò sospirando dalla scrivania su cui stava studiando e ciabattò verso la porta, borbottando tra se e se sull’inettitudine di certa gente e risultando suo malgrado sorprendentemente simile alla nonna.
Aprì la porta con disinvolta rassegnazione, pensando al postino, o alla madre che aveva scordato qualcosa in casa, o alla vicina che aveva finito lo zucchero. Invece, si trovò davanti Tebaldo Santandrea della Torre, in tutta la sua altera ed elegante presenza. Rimase a bocca aperta senza profferire verbo, mentre Tebaldo inarcava un sopracciglio con aria tra il perplesso e il disgustato.
“Buon Dio, Bianchi, recupera quella mascella” lo rimproverò poi altezzoso “Non ho mai visto niente di più molliccio e disarticolato addosso a un maschio della tua età. Uno spettacolo raccapricciante.”
Ma il cervello di Paolo non ne voleva sapere di riprendere le normali funzioni neurovegetative, quindi il giovane rimase immobile, in piedi con la bocca aperta e lo sguardo azzurro dietro le lenti completamente appannato dalla sorpresa.
Le gemelle Bianchi, che forse non avevano un radar per il campanello ma ce l’avevano eccome per le interferenze neurali del fratello, sbucarono curiose da sotto le sue ascelle come due funghi biondi, uno per parte: quando videro chi c’era al di la della soglia, esclamarono a turno: “Merda!” e “Cazzo!” poi lasciarono che le rispettive mascelle si tuffassero per far compagnia a quella di Paolo nelle profondità del centro della Terra.
“Gesù.” Mormorò fra i denti Tebaldo alzando gli occhi al cielo: un’ombra di sorriso passò dietro le fessure verdognole dei suoi occhi e solo allora Paolo si rese conto di quanto fosse stato serio e cupo fino a quel momento.
“Tebaldo?” strillò allora di punto in bianco facendo sobbalzare i funghi biondi sotto le ascelle, che si ritirarono rapidamente per ricomparire da sopra le sue spalle con gli occhi azzurri sgranati e le bocche a “O” come angeli di porcellana.
“Già, a quanto pare” rispose Tebaldo lentamente, come se temesse qualche scoppio di materia organica se avesse parlato troppo velocemente “In carne, ossa e stringate di Tod’s appena comprate. Lo dico perché vorrei evitare che radiografaste anche quelle, tutto quest’uranio nell’aria non gli si confà di sicuro.”
“Che succede?” ragliò la nonna a quel punto, attratta anche lei probabilmente dall’inquietante silenzio dei nipoti: non trovando posto da sopra le spalle di Paolo, sbucò da sotto l’ascella testé lasciata libera dai funghi con i sospettosi occhiali rotondi spessi un dito.
“E lei chi è?” domandò diffidente mentre da sotto l’altra ascella compariva la testa color sabbia di Dante.
“Aldo!” esclamò poi felice e precedendo le cavalleresche spiegazioni di Tebaldo, sgusciò davanti a Paolo e lo avvolse con un voluminoso e stritolante abbraccio.
Fu il turno di Tebaldo di inalberare una faccia trasecolata e sdegnata, ma il gesto spontaneo di Dante sembrò finalmente sbloccare l’immobilità della restante famiglia Bianchi, i cui componenti si mossero contemporaneamente in direzioni diverse, esplodendo in imbarazzanti frasi sconnesse a voce altissima.
“Tebaldo della Torre è qui!” strillò Laura con la stessa venerazione che avrebbe dedicato alla discesa del Messia su suolo terreno.
“La macchina fotografica!” ruggì invece Silvia, più pragmaticamente. Saggia ragazza: che senso ha vedere il Messia se poi non si può provare alle masse di averlo visto?
“Le faccio una torta di mele.” sentenziò la nonna con piglio deciso, lanciandogli un’occhiata ammonitrice che avrebbe prosciugato in chiunque qualsiasi accenno di protesta.
Tebaldo non avrebbe avuto tempo comunque di protestare perché in pochi secondi Dante l’aveva trascinato in casa e prima ancora di potersi raccapezzare si era trovato in salotto seduto con una palla in mano fra un cane asmatico e maleodorante e una sorridente gemella mentre l’altra li fotografava rimbalzando intorno come un canguro.  
“Adesso basta ragazze” tentò di dire Paolo quando intercettò lo sguardo verde e sempre più incandescente del nobile ospite “Tebaldo, scusale. Io, ehm… vuoi una tazza di te?”
“No, grazie. Ma vorrei recuperare un minimo di spazio vitale, se alla famiglia Bianchi non dispiace.”
Alla famiglia Bianchi dispiaceva: Paolo sprecò i successivi dieci minuti a tentare di trascinare via uno dei rumorosi e ingombranti parenti, ma ci rinunciò quando vide che Tebaldo, con il solito altero sarcasmo, in fondo in fondo se la stava cavando egregiamente da solo.
“Così è qui che la cara e nobile cugina veniva per le ripetizioni” commentò quando finalmente Laura e Silvia rimasero senza batterie nella macchina fotografica e Dante fu distratto dall’opportuno lancio della palla lungo il corridoio “Davvero pittoresco.”
“Già, uhm, ehm” tossicchio Paolo terrorizzato: che gli si dice a un cobra velenoso venuto strisciando in visita a casa tua? “Tu cosa… cioè, ehm… vuoi una tazza di tè?”
“Me l’hai già chiesta e ti ho già detto di no. Tuttavia, tu puoi senz’altro bere un paio di tazze, magari corrette cognac così ti torna un po’ di colore in faccia. O se sempre stato pallido così, Bianchi? Francamente, ti ho osservato sempre troppo poco.”
Gli lanciò uno sguardo ostile, indagatore: Paolo sentì brividi di terrore corrergli lungo la schiena. Non aveva mai percepito prima Tebaldo come un nemico, il più delle volte aveva subito il suo sublime disinteresse, se non il suo velato e leggero fastidio. Ultimamente, un paio di volte in tutto, si erano scambiati due parole apparentemente innocue. Ma quello sguardo, quei felini occhi verdi… da quando Tebaldo lo guardava così? Perché? Come era diventato suo nemico?
(Veronica).
E che diamine, logico, no?
“Io non le ho fatto niente.” disse in fretta con un tono accorato che risultava quasi falso.
Tebaldo non si scompose di un pollice.
“Dovresti aspettare di bere il tè corretto cognac prima di parlare a vanvera.” gli suggerì magnanimamente.
E poi, pensò Paolo fulmineamente, qualcosa gli aveva fatto, a Veronica: la faccenda della smerdata al canile, pubblicata in mondovisione su Internet… Tebaldo lo sapeva bene, il qualcosona che aveva fatto!
“Cioè, a parte quella volta del canile, ma lì… cioè, a guardarla obbiettivamente ci stava…”
“Capisco. Che sostanza stupefacente hai usato, Bottondoro? Voglio il nome del pusher.”
“P-pusher…? Ma io non mi drogo.”
“Mio caro, nessuno lo fa, certo che no. E’ illegale, vero? E noi siamo personcine ligie al dovere.”
I suoi occhi lo deridevano, sprezzanti. Paolo, invece che offendersi, si sentì ancora più confuso e sperduto.
“Perché sei qui Tebaldo?” domandò cercando di mantenersi calmo per lo meno apparentemente.
Al perfido della Torre tornarono gli occhi sottili e indagatori mentre si accomodava meglio sul pulcioso divano. Nonostante la baraonda al suo arrivo e i numeri da circo di Dante e gemelle, sembrava a suo agio anche lì, maledetto lui: persino Biagio, annusando l’aura regale, aveva ceduto il proprio regno sgusciando via con un guaito.
“Volevo dirti qualcosa prima che lo sapessi da qualcun’altro” sorrise Tebaldo con voce musicale “Sai, quando si tratta di donne certi discorsi è meglio farli diretti. Vis à vis, per intenderci.”
 “Cioè, c-cosa? Donne? Discorsi di donne?”
“Si, donne, Bianchi. Quegli esseri vertebrati ricchi di ormoni che facendo ondeggiare lunghe chiome femminee avvelenano l’aria e i nostri maschi sensori. Hai presente?”
“Ho presente.” rispose Bianchi affannato: Veronica? Era lì per parlare di Veronica?
“Io, Tebaldo,  posso non essere tante cose: ma sono un uomo d’onore, e mi piace giocare pulito. Quindi sono qui per parlarti della tua ragazza.”
Serena. Serena, non Veronica. Di colpo Paolo si ricordò di aver visto Tebaldo e Serena fianco a fianco, a scuola, che parlavano fitto fitto. Ed erano insieme quando lui aveva chiesto scusa a Veronica. Ecco perché il perfido cugino era lì! Serena, la sua Serena… Quel nome iniziò a lampeggiare in testa a Paolo come se fosse marchiato a fuoco.
“Sono tutto orecchi.” disse improvvisamente asciutto e interessato.
“Ammetto che è stata una cosa improvvisa. Nessuno dei due se lo aspettava, giuro. Ma… è successo.”
La faccia di Tebaldo mentre parlava era compunta e giudiziosa, ma i suoi occhi… oh, che spiritello malefico che si agitava dietro a quegli occhi! E Bianchi, il povero Bianchi che non aveva mai provato un’emozione negativa in vita sua, sentì qualcosa di alieno e anomalo montargli dentro il petto, qualcosa generato dalla confusione, dalla paura e da qualcosa di verde e bilioso che non aveva mai provato prima in tutta la sua breve e candida vita.
“Cosa è successo?” domandò con le labbra secche e tese.
Tebaldo gli lasciò cadere addosso uno sguardo fintamente comprensivo e pietoso.
“Beh, mio caro, mi dispiace dirtelo così… capisco che sembrerà un po’ brutale, ma la verità è meglio dirla come si deve. Via il dente via il dolore, non credi?”
“Dimmi quello che mi devi dire!”
Anche se in realtà non voleva saperlo… non voleva avere quel nodo di roba puzzolente e dolorosa ficcato in gola, quella smania di alzarsi e urlare e prendere una sedia e spaccarla in testa a quell’azzimato e infido serpente che gli strisciava intorno e che stava per dirgli qualcosa su Serena, la SUA Serena… qualcosa che avrebbe fatto riemergere un primitivo prurito alle mani, alla gola, al cuore, qualcosa che lo avrebbe alla fine spezzato, lo sapeva.
“Beh, allora te lo dico” continuò Tebaldo con quel sorriso da schiaffi dipinto sulla faccia “Mi sono sbattuto la tua fidanzata.”
Bianchi sfarfallò le ciglia una volta appena. Bel colpo, pensò una remota parte del suo cervello: il perfido cugino era proprio un fuoriclasse nel ferire la gente. Doveva essersela studiata proprio bene quella manciata di parole affinché gli finisse addosso come una rosata di pallini da caccia, acuti e dolorosi proiettili di cattiveria sparati con tanta noncurante delicatezza. In quel breve battito di ciglia, Paolo vide con fotografica chiarezza le mani aristocratiche e lunghe di Tebaldo spiccare come neri uccellacci sulla pelle bianca e indifesa di Serena. Vide la sua testa rovesciata indietro mentre Tebaldo le baciava la gola; vide il suo viso e sentì i suoi sospiri mentre Tebaldo si prendeva qualcosa che non gli apparteneva, qualcosa che era SUO… vide persino la faccia felina della serpe, il suo sorrisetto storto e malvagio. “Mi sono sbattuto la tua fidanzata”. Oh, sì, proprio un colpo da maestro.
“Mi dispiace.” aggiunse Tebaldo con educata pietà.
Paolo si schiarì la voce: in realtà non riusciva a respirare tanto si sentiva le braccia e il petto pesanti.
“Scusa, puoi ripetere?”
La sua voce veniva da lontanissimo, proprio da un’altro pianeta.
“Si, sono stato un po’ brusco, perdonami… Ho detto che sono stato insieme alla tua fidanzata. Ho passato con lei tutta la notte, ore e ore di ottimo e soddisfacente sesso. Scusa se te lo dico così brutalmente, ma non voglio che ci siano fraintendimenti, fra noi. Non voglio che ti arrovelli nel chiederti cosa c’è o non c’è stato. Te lo dico chiaro e tondo: c’è stato tutto, e più volte. Molte, apprezzatissime volte.”
La visione flash back di Serena e Tebaldo divenne dentro la testa di Paolo una stampa a colori di insostenibile chiarezza. Lei che ansimava, che chiamava il nome di Tebaldo con voce rotta e lasciva. Lei che lo stringeva, che lo accarezzava. Lui che sogghignava baciandola, avvolgendola in spire sempre più strette, sempre più rosse… Rosse?
Si, spire di un bel rosso vivo, perché stava proprio vedendo rosso, una cortina pesante che gli appannava la vista e i sensi, intorpiditi come da una improvvisa anestesia.
“Capisco che tu adesso sia un po’ annichilito, ma so che col tempo apprezzerai il fatto che io sia venuto a dirtelo. Apprezzerai anche la mia schiettezza… dopotutto è meglio così, credimi. Tanto mi avresti odiato comunque, così ti lascio modo di farlo in maniera totale e pulita.”
A Paolo venne quasi da ridere: oh, che meravigliosa faccia tosta… e che incredibile prurito che gli era venuto alle mani! Se le guardò, sorpreso di trovarle pulite quando gli sembrava di avere mille formiche rosse che gli mordevano i polpastrelli.
“Si, caro Bambi, vedrai che un giorno apprezzerai.”
“Fammi capire” chiede Paolo di nuovo con quella lontanissima voce aliena “Mi vieni a dire che ti sei fatto la mia ragazza… e secondo te mi stai facendo un favore?”
“Beh, ovvio che sì.”
Tebaldo avrebbe dovuto sospettare che Paolo era sul punto di esplodere: ma forse non gli importava, o forse era proprio quello che voleva. In ogni caso, il suo successivo sorrisetto sardonico fu proprio la classica goccia che fece traboccare il classico vaso.
Senza nemmeno sapere bene la dinamica, Paolo sentì il suo braccio vivere di vita propria e il suo pugno destro stringersi convulsamente mentre colpiva la mascella di Tebaldo, facendola scattare all’indietro.
Non molto all’indietro, a dire la verità: Tebaldo non crollò già dal divano e nemmeno si sfracellò contro il muro. Rimase semplicemente lì con la testa girata come se si stesse momentaneamente disinteressando alla conversazione. In compenso, Paolo sentì le dita della mano improvvisamente insensibili, poi di colpo piene di aghi infuocati che gli infilzavano la carne.
“Ahia!” mormorò piano. Poi la mano iniziò a dolergli sempre di più, sempre più forte.
“Ah… che male!” strillò allora schizzando in piedi e tenendosi il polso destro con la sinistra.
Al suono della sua voce, la famiglia arrivò compatta tutto in un colpo: la nonna con in mano una ciotola da cucina in cui stava mescolando l’impasto per la torta, Laura e Silvia con in mano fogli stampati pieni di fotografie, Dante con la fida palla fra le mani e il cane con la lingua penzoloni.
“Che c’è?”
“Che succede?”
 Paolo sarebbe anche stato imbarazzato se la mano non gli avesse fatto così tanto male: il dolore spazzò via qualsiasi altra cosa, compresa la dignità.
“Mi sono fatto male!” agonizzò con gli occhi improvvisamente pieni di lacrime “Forse… forse mi sono rotto qualcosa!”
“Ma dai!”
“Ma come hai fatto!”
“Prendo la cassetta dei medicinali!”
“Presto, fate bollire l’acqua!”
Tebado, in mezzo a quella confusa cacofonia di tragico e sconclusionato soccorso, si limitò ad accarezzarsi il mento, come se controllasse il livello di crescita della barba.
“Ti sei fatto male davvero, Bianchi?” chiese poi con voce educata mentre Silvia e Laura rumoreggiavano come sirene dei pompieri intorno al braccio del fratello.
“Si” rispose Bianchi mordendosi il labbro “Non riesco a muovere il polso…”
“Ma che razza di imbecille… fammi vedere…”
“No!”
“Fammi vedere, ti ho detto.”
Toccandolo solo con due dita delicate, Tebaldo controllò il braccio di Paolo, che si era piegato in un angolo innaturale e stava iniziando a gonfiarsi pericolosamente.
“Porco cazzo, Bianchi… ti sei rotto un polso!”
“Oddio!” strillò la nonna alzando le braccia al cielo e mollando la ciotola per terra “Mio nipote! Sta male, presto, chiamate l’ambulanza!”
“Paolo!” ulularono in coro le gemelle, bianche in viso come se fossero sul punto di svenire “Paolo ti prego, resta con noi! Non svenire!”
“Palla!” sentenziò Dante riprendendo a giocare contro il muro, già stufo di quella situazione angosciante che non era per niente divertente.
Tebaldo, dopo alcuni secondi di imbarazzante confusione, decise di prendere in mano le redini di quella surreale situazione: si alzò in piedi deciso trascinando Paolo con se tenendolo per la spalla.
“State calme, donne!” ruggì con una voce sorprendentemente decisa e autorevole “Porto io Paolo al pronto soccorso: voi state qui, telefonate ai vostri genitori e avvisateli, mettete a sedere la nonna da qualche parte, rendete inoffensivo vostro fratello con quella dannata palla e pulite questo macello… il cane lo sta già portando in giro per tutta la casa.”
Così distratte, le donne iniziarono a ronzare come api volenterose mentre Tebaldo, sorreggendo Paolo che cominciava a tremare dallo shock, guadagnò l’uscita facendo lo slalom tra il gatto, il cane, l’impasto della torta e cocci di ciotola rotta.
“Da non crederci” bofonchiò irato quando finalmente salì in macchina “Altro che film dell’orrore… qui siamo in piena satira surrealistica! Vengo qui in pace, mi dai un cazzotto e ti rompi un polso… e adesso mi tocca pure portarti all’ospedale! Lasciatelo dire, sei proprio una mezza sega, Bianchi. Cosa ci trovi in te Veronica non lo capirò mai. Ma ti avverto, non me ne frega un cazzo se hai le ossa di maledetta porcellana e lei non vuole romperti, va bene? Io voglio Veronica. La voglio e basta e se è necessario ti romperò in mille pezzi come una cazzo di teiera Ming, se questo servirà allo scopo. Hai capito? Bianchi? Ci sei?”
Ma Bianchi non c’era: era svenuto sul sedile, il braccio offeso inerte in grembo e gli occhiali tutti sghembi sul volto pallido e sofferente.
  
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