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Autore: RadioHysteriaBK    19/11/2012    2 recensioni
"Di nuovo quella strana sensazione. La pelle d'oca e un piccolo brivido freddo in fondo alla schiena. Mi voltai a guardarmi indietro. Sentivo che qualcuno mi stava spiando. Ma da dove? La strada era deserta: nemmeno una macchina. Osservai le finestra per vedere se qualche tendina si muoveva e il mio sguardo si fermò sul numero 483."
Questa è la storia di una ragazza, di nome Ashley che decide di traslocare da sola a Berlino, per prima e senza i suoi genitori. Una storia che si racconterà in modo un pò strano, ovvero: Dalla parte di Lei, e contemporaneamente dalla parte di Lui. Ashley incontrerà nuovi amici e persone che cambieranno per sempre la sua vita... to be continued ;)
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Otherverse, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve a tutte, questa è la prima FF che pubblico. Per chi leggerà e seguirà la mia storia, dico subito che sono abbastanza lenta e quindi non so quanto ci metterò fra un capitolo e l'altro..ma pazienza. Cecherò di impegnarmi e fare del mio meglio! Detto questo, posto il mio primo capitoletto e spero che vi piaccia! 

Grazie dell'attenzione & Enjoy it! ;-
)








1° Capitolo: The first beautiful thing

    [***]         






                                         

Nel buio, la casa al numero 483 si intravedeva appena. Sembrava cadente, e le finestre chiuse da ante ormai deteriorate e assi inchiodate la facevano somigliare a un teschio dalle orbite vuote.

Controllai per la decima volta l’indirizzo.

Non mi aspettavo che la situazione fosse così disastrosa.

Forzai il cancello che mi aprii la strada fino alla porta sul retro, fra la sterpaglia cresciuta sul vialetto. In giardino c’era una betoniera con una carriola appoggiata sopra, uniche tracce di una visita degli operai. La grossa chiave di ferro girò nella toppa, e venni accolta dall’odore della casa. Caspita. Ogni casa ha il suo odore, ma questo aveva carattere sul serio. Sembrava parlare di secoli di legno marcio, di strati di polvere che giaceva indisturbata dai tempi della Magna Charta, di tubature abbandonate. Ora capivo cosa intendesse dire mio padre. Era impossibile che lui e la mamma venissero ad abitare qui prima che la casa fosse completamente ristrutturata. Dio solo sa quanto tempo ci sarebbe voluto!.

Quando mamma mi aveva detto che ci saremmo trasferiti a Berlino ero talmente stupita da rimanere senza parole. Lei aveva interpretato il mio silenzio in modo completamente sbagliato, e si era affrettata a dire che avrei presto trovato dei nuovi amici, e una scuola decente, anche migliore di quella dove andavo, e…e a quel punto l’avevo interrotta. – Senti, mamma. Fermati un attimo.

Ne avevo abbastanza della scuola. Quella che frequentavo, a Londra, era un liceo classico femminile, probabilmente uno degli ultimi del paese e mia madre era sempre stata fissata nel farmi frequentare questo tipo di scuola perbenista, di sole donne! Come se il tempo fosse tornato indietro e ci fossimo catapultati all’età del Medioevo!. Si trattava di una scuola tradizionale in tutto: avevamo perfino una divisa. Era un posto in cui per essere stravaganti bastava farsi un nodo diverso alla cravatta. Ne avevo fin sopra i capelli. Era il momento giusto per annunciarle che avevo intenzione di mollare gli studi, per potermi dedicare, finalmente, alla mia più grande passione: La moda.

-       Allora, quando si trasloca? – avevo detto.  – E puoi scordarti della scuola.

Dire che la mamma reagì male sarebbe minimizzare quello che è successo. Per poco io e mio padre non avevamo chiamato un’ambulanza. Dopo aver litigato per un intero week-end, avevamo raggiunto un compromesso. Mia madre mia aveva trovato una scuola, la West High College, creata apposta per chi vuole studiare cose insolite, che non si insegnano negli altri istituti superiori, come Scienza dell’Alimentazione, Farmacia, Imbalsamazione,… e il mio adoratissimo corso di Moda!. Insomma qualsiasi cosa. Naturalmente mia madre aveva anche controllato che dopo averla frequentata si potessero dare gli esami di maturità.

Cosa potevo farci, lei era così e nulla al mondo avrebbe potuto cambiarla.

Oltretutto era una scuola mista, e non si portava la divisa. Me la immaginavo un po’ come quelle scuole che si vedono nei telefilm americani, con le ragazze che passano le giornate su un bel praticello verde a guardare i ragazzi o viceversa, e avevo detto di sì. Ed ecco perché ero qui da sola, a esplorare una vecchia casa cadente  buia come se fossi una ladra.

I miei mi avevano avvertito che la casa era in condizioni pessime. Quando avevano capito in che stato era, mamma e papà avevano deciso di rimanere ancora per qualche mese a Londra. Mia madre aveva perfino tentato di farmi fare un altro trimestre nella mia vecchia scuola. Ma le avevo fatto notare che i programmi e i libri di testo della West High Collage dovevano essere completamente diversi. Rimanere un altro trimestre a Londra mi avrebbe solo reso le cose più difficili.

-       Non c’è il telefono, lo sai, vero?- aveva detto mio padre.
-       Senti, quest’estate ho viaggiato con delle mie vecchie amiche dormendo in tenda o negli ostelli della gioventù, quindi penso di riuscire a sopravvivere in un sobborgo di Berlino. E poi ricordati che ho sempre il cellulare!
-       Ma come farai per mangiare? E per lavarti i vestiti? – mamma è convinta che io sia un po’ troppo magra e che, chi non può cambiarsi tutti i giorni rischia una malattia mortale.
-       Comunque – avevo ribattuto – potrei tenere d’occhio gli operai. Con uno di noi sul posto, perderanno meno tempo.

E così, sia pur con una certa riluttanza, mi avevano lasciato partire sola per Berlino. Berlino!!

Naturalmente c’ero già stata un paio di volte da bambina, per andare allo zoo o a teatro o in qualche museo, e più di recente avevo cominciato a frequentare certi negozietti dei quartieri di Friedrichstrasse e Kurfurstendamm, e a captare l’atmosfera della città. Una città come Berlino ti provoca continue scariche di adrenalina, e quando i lampioni si accendono, la sera… è una città magica.

C’è un detto, dalle nostre parti che dice: “   Quando un uomo è stanco di Londra, è stanco della vita”. Bè, francamente penso che la cosa valga più per Berlino.

Mi tolsi la borsetta dalle spalle ed entrai. Nell’ingresso c’erano mucchi di detriti, provenienti da un bagno. Trovai l’interruttore della luce, ma non successe niente: evidentemente non c’era elettricità, anche se John, il capocantiere, aveva affermato il contrario. Bè, tanto valeva fare un giro di ispezione.

Pianto terra. In origine c’erano due grandi stanze, ma il muro che le divideva era stato abbattuto e lasciato lì come l’opera di uno scultore pazzo. Nell’ingresso, odore di muffa e puzza di cane. Scale: sconnesse e senza moquette. Ops: qui manca un gradino. Porta sul primo piano: un vecchio bagno con una grande vasca macchiata e una doccia anteguerra incrostata di muschi e licheni! – che schifo!- pensai.

Mansarda. Il mio piano… caspita. Due grandi camere col tetto spiovente. Bastava fare attenzione a non battere la testa, e per il resto era fantastico! In confronto al nostro appartamento, questa era una vera e propria reggia. Continuavo ad andare avanti e indietro tra le due stanze. Quella sul retro era leggermente più piccola: ci avrei messo delle mensole per sistemarci la mia collezione di riviste di moda e cd della mia band preferita, che oltretutto è anch’essa tedesca!; poi un piano di lavoro per poter realizzare i miei primi campioni di abiti. Fantastico!.

La camera sul davanti, con una grande finestra ad abbaino, era incredibile. Aprii la finestra e tolsi un’asse un po’ lenta. Se mi sporgevo potevo vedere fuori. E che vista! La Fernsehturm era lì, proprio davanti ai miei occhi.

Non avevo notato che Frensham Avenue fosse in discesa. Dalla finestra, oltre la torre della televisione, vedevo le cime degli alberi, le macchine parcheggiate, insomma il tipico paesaggio di un sobborgo suburbano. Ma oltre le case, dai tetti a punta e spioventi, tipici del luogo, di fronte si intravedeva la sagoma della città, e aguzzando le orecchie si sentiva il debole ronzio della gente in movimento. Un suono che non si affievolisce mai, un suono di migliaia di vite.  Immaginai di amplificarlo per separarne i tracciati, isolare ogni singolo suono e sentire di cosa era fatto: litigi, bambini che piangono, telefoni che squillano, martelli pneumatici, sirene della polizia, rubinetti che perdono…ogni cosa con un ritmo diverso. Era musica; musica mixata dal caso. Vedete, oltre alla moda, la musica è il mio hobby, è un’ossessione.

Guardai giù, in strada. Ehi! Mica male! Un corpo da dieci e lode. Il tipo di ragazzo che dovrebbe andare in giro in pantaloncini corti e a torso nudo, per legge. Bei capelli, di un biondo platino che tendevano quasi al bianco, si intravedevano appena sotto un capellino da baseball grigio e nero. Bella camminata tranquilla, da sexy-star. Si fermò, girandosi appena. Sì anche il viso era carino, almeno visto da qui. Attraversò la strada e sparì dalla mia vista. Sperai che non fosse solo venuto a trovare qualcuno…

Rientrai e feci un altro giro per il mio dominio. Non sarebbe stato difficile montare le mensole. C’erano un paio di nicchie che sembravano fatte apposta. Bastava procurarsi del legno, ma non avevo gli attrezzi.. li aveva John, però, e me li avrebbe sicuramente prestati, specialmente se gli facevo notare tutto il lavoro che ancora non avevo fatto.

Presi un paio di misure, a occhio. Ci volevano delle assi da un metro e mezzo. Adesso non avevo niente da fare, quindi tanto valeva andare subito a comperarle, in modo da averle già pronte quando John si sarebbe fatto vivo con gli attrezzi. Non vedevo l’ora di avere le mie mensole.

Non avete idea di quanto sia difficile, per un individuo il cui mezzo di trasporto sono due gambe, comprare e portare a casa quattro assi. Perlomeno a Berlino. A Londra avrei trovato la mia bella macchina in garage, pronta a mettersi in moto, ma visto l’improvviso traslocamento, essa non era ancora con me. Camminai per chilometri, finché non trovai un negozio “fai da te”. Il vialetto che lo congiungeva alla strada era lungo almeno mezzo chilometro. Forse non c’erano mai stati pedoni, fra i clienti. Il tizio che mi servì mi chiese se avevo bisogno d’aiuto per portare la roba, e quando provai  a sollevare le assi capii perché. Dovetti fare marcia indietro e accontentarmi di quello che ero in grado di trasportare.

Quando tornai a casa era quasi buio. Frugai nella borsetta, trovai la torcia e la puntai sulle scale. Un debole cerchio di luce arancione illuminò per un istante la vecchia carta da parati strappata, tremolò e si spense. Armeggiai con l’interruttore, ma non ci fu niente da fare. La mia solita fortuna: si erano scaricate le pile, e non avevo pensato a ricomprarle. Cavoli, che guaio.

Era la prima volta che dormivo a Berlino, e la serata prometteva di essere indimenticabile, trovai dei fiammiferi in cucina, e lì accanto (meno male!) un’intera scatola di candele. La scorta di John, pensai. Ne accesi una, proteggendo la fiamma con la mano. Portai le assi di sopra, facendo attenzione al gradino mancante, e le ammucchiai nella stanza sul retro. Se avessi avuto gli attrezzi avrei potuto cominciare subito, e ne avrei montate almeno un paio. Presi la candela e feci un giro della casa. Non si sa mai, magari gli operai ne avevano dimenticato qualcuno in giro. Ma niente. Immagino che fosse troppo rischioso lasciare qualcosa in una casa abbandonata.

Tornai nella stanza che dava sulla strada. Ormai la candela si era quasi consumata e avevo le dita piene di cera, così la piazzai su una sporgenza e ne accesi atre due. Alla loro luce tremolante la stanza era quasi carina. Era ora di sistemarmi, e cominciai a disfare il mio trolley.

Srotolai il sacco a pelo e tirai fuori il fornello da campeggio, l’apriscatole e altre due o tre cose indispensabili pe nutrirsi e lavarsi. So che nessun’altra persona che non mi conoscesse, avrebbe mai pensato a me come una ragazza che si adatta facilmente a queste tipo di circostanze, in quanto sia mia madre che alcune compagne mi avevano sempre fatto notare che sarei potuta andare a far la modella e molti mi vedevano come la solita fighetta per il mio modo di vestire alla moda… ma si sbagliavano perché una cosa che avevo imparato da piccola, quando frequentai un corso di ‘piccole marmotte’, era prima di tutto: un corso di sopravvivenza!.

Comunque, a proposito di lavarsi, dopo il viaggio alla ricerca del legname ero pronta per una bella doccia. L’acqua! Mi ero scordata di controllare se c’era. Scesi in bagno, dove il rubinetto della vasca tossì e sputacchiò, prima di regalarmi un bel getto d’acqua gelida. Girando la manovella, misi in funzione la doccia e ottenni un lieve spruzzo. Sempre meglio che niente. Mi spogliai, mi feci la doccia più fredda di tutta la mia vita e poi… oh no! Avevo dimenticato di portarmi giù l’accappatoio.

Fu proprio in quel momento che un pazzo cominciò a bussare alla porta. Sembrava che volesse abbatterla da un momento all’altro. Chissà da quanto stava bussando: io non l’avevo affatto sentito, con il rumore della doccia e l’acqua che gorgogliava nelle tubature.

-       Ok, ok, calma! Adesso scendo!

Acchiappai la candela sgocciolante, uscii dal bagno e mi avviai verso il piano di sotto, decisa a fermare quel pazzo scatenato. Aargh!.... avevo dimenticato il gradino mancante. Ok, ero decisamente un po’ sbadata.

-       Cosa accidenti vuole? – gridai, senza aprire la porta.
-       Ho visto la luce. Senta, non può piazzarsi così…
-       Come?
-       Non può semplicemente entrare così in una casa…
-       Senti, amico, ho tutto il diritto di stare qui. – Uno spiffero gelido filtrava da sotto la porta, congelandomi nel punto peggiore: i piedi!.
-       Non vorrei dover chiamare la polizia…

Di colpo capii. Quel vecchio ficcanaso era convinto che io fossi una barbona o un chissà chi, arrivata a rovinare la vita del loro tranquillo quartiere. C’era perfino il rischio che le loro proprietà si svalutassero. Avevo già capito che tipo era. Il tipo che venderebbe tutte le case popolari solo a gente benestante e rispettabile, per poi affermare scandalizzato che le strade sono piene di barboni senzatetto. E in quel momento misi il piede su un chiodo o qualcosa del genere. Che dolore! Ero furibonda. Ero lì, nuda come un verme e congelata, e saltavo su e giù come una cretina per riscaldarmi, correndo il rischio di pestare di nuovo quella dannata cosa. Ne avevo abbastanza.

-       Senti, vecchio ficcanaso, perché non te ne vai a quel paese?

Dall’altra parte della porta venne un suono soffocato. Poi lo sconosciuto si schiarì la voce.

-       Bè, se è così che la pensi, non venire a dirmi che non ti avevo avvertito….

Stavo tremando dal freddo, e avrei dato qualunque cosa perché se ne andasse.

-       Sì, ho capito. Ora togliti dai piedi.

Feci i gradini quattro a quattro, ritrovai la stanza a tentoni, mi asciugai ed esaminai il piede. Non era grave e con un disinfettante e un cerotto sarebbe passato presto. In caso contrario, se fossi morta di setticemia e di polmonite doppia sarebbe stata tutta colpa di quel rompiscatole. Non avevo la minima voglia di accendere il fornello a gas, poiché conoscendo la mia fortuna avrebbe potuto esplodere la casa, così mangiai un panino che mia madre mi aveva preparato prima della partenza, e una mela. Lizzy, mia madre, mi aveva dato anche un paio di lattine di coca-cola e redbull (grazie tante), così ne aprii una e mi misi alla finestra, in un punto in cui riuscivo a vedere qualcosa fra le assi. Domani le avrei tolte tutte per far entrare un po’ di luce e ripulire la stanza.

Strinsi gli occhi per vedere la sagoma della città contro il cielo arancione e violaceo. Pe un attimo ebbi la tentazione di infilarmi la giacca e uscire, per sperimentare la vita notturna della metropoli. Un giretto nel centro, un’occhiata a qualche discoteca. Dovevo pur cominciare a guardarmi intorno.

Dall’altra parte, l’indomani dovevo andare a scuola. Il primo giorno di scuola. Sarei stata “quella nuova”, e volevo fare una buona impressione. O, almeno, un’impressione non troppo cattiva. Mi sistemai comodamente sul pavimento, con una spalla contro la finestra. Stare da sola in un posto come questo mi dava un senso di incredibile paura ma anche di libertà. Quando era piccola mi divertivo ad immaginare che tutti gli adulti del mondo di colpo non ci fossero più. Non per via di una tragedia o roba del genere; semplicemente, non c’erano. Magari perché qualche alieno simpatico li aveva portati a fare un giro della galassia. Comunque, in questo mondo senza adulti potevo fare tutto quello che mi pareva: guidare le macchine, stare tutto il giorno al luna park, liberare gli animali dallo zoo, prendere tutto quello che volevo dai negozi di giocattoli… era bellissimo.

E lì, seduta nella casa vuota, provavo qualcosa di simile a quella remota sensazione. Chissà com’era vivere da soli. I miei genitori sono tipi a posto; limitati  e fuori moda in modo patetico, certo, ad eccezione di me, ma il fatto di non averli qui a fare da barriera antiproiettile fra me e il mondo… bè, era liberatorio. Avevo quasi finito laredbull ed ero sul punto di andare a dormire, quando le tende alla finestra della mansarda di fronte si mossero. Era il ragazzo che avevo visto quel pomeriggio. Stava aprendo la finestra. Un fan dall’aria pura? Oh, no, aveva già richiuso le tende. Ti prego, fammi dare un’altra occhiata.

 Ma le tende rimasero chiuse.

 

♦ And when I loose my self I think of you...

  
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