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Autore: Sophie Hatter    11/06/2007    6 recensioni
La signora Weasley li chiamava “attacchi di broncio”.
Sirius sembrava sentirsi oltremodo infastidito da quella definizione, ma forse non avrebbe potuto essercene una più calzante: semplicemente, si alzava al mattino presto, quando già si percepivano i rumori di qualcuno che trafficava giù in cucina, si raccoglieva silenziosamente per qualche secondo - giusto il tempo di realizzare dove si trovava, che cosa ci faceva lì e quale preoccupazione l’avesse tormentato per tutta la notte togliendogli il sonno – e, una volta che gli era tutto chiaro, decideva che per il resto della giornata il suo umore non avrebbe potuto fare a meno di essere pessimo.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: Remus/Sirius
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Nights Are Cold - Wolfstar'
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Parte II – Can’t Have You, Can’t Leave You

Parte II – Can’t Have You, Can’t Leave You

 

 

Si vive per anni accanto a un essere umano, senza vederlo. Un giorno ecco che uno alza gli occhi e lo vede. In un attimo non si sa perché, non si sa come, qualcosa si rompe: una diga tra due acque. E due sorti si mescolano, si confondono e precipitano.

(Gabriele D’Annunzio)

 

 

Lo sentii subito, quando si svegliò.

Non era così difficile capirlo.

I suoi muscoli erano entrati di colpo in tensione, e il suo corpo si era irrigidito in un attimo. Provai ad immaginare che cosa gli stesse passando per la testa in quel momento, ma anche senza saperlo con certezza era comunque molto divertente. Di una cosa ero certo, e cioè che non si aspettava di svegliarsi e trovarmi completamente avvinghiato a lui.

Del resto, non era colpa mia. Quando avevo aperto gli occhi mi trovavo già in questa posizione. Dovevo essermi rigirato nel sonno, tutto qui. In effetti, mi ero proprio scordato di fargli presente questo piccolo particolare; da quando ero uscito da Azkaban passavo sempre delle notti piuttosto agitate. Ma in fin dei conti, per me non era certo un problema. Non vedevo perché avrebbe dovuto esserlo per lui, di conseguenza.

Dopotutto, era piacevole. Remus emanava uno strano tepore, quando dormiva. Io invece avevo sempre un freddo cane, e considerata la mia doppia natura l’espressione calzava perfettamente. In più, dato che era soltanto l’inizio di gennaio, era praticamente impossibile che una montagna di coperte riuscisse ad appagare il mio desiderio di calore.

Avevo un bel ricordo di quella volta in cui io e Remus avevamo dormito vicini, da ragazzi. Era stato dopo una delle notti di Luna piena, quando noi quattro scapestrati, invece di tornare dentro il Platano Picchiatore, ci eravamo incoscientemente appisolati fuori, al limitare della foresta. Ma mi ero scordato di questo bizzarro tepore che emanava. La sua pelle scottava, quasi avesse la febbre; eppure, il suo sonno era stato perfettamente tranquillo, tant’è che non si era mosso di un centimetro dalla posizione in cui si era coricato ieri notte. Era ancora lì, girato su un fianco, dandomi le spalle, rannicchiato su se stesso, con un braccio infilato sotto il cuscino.

Io invece avevo annullato la distanza che era stata inizialmente stabilita fra me e lui, mi ero abbarbicato al suo corpo da dietro, avevo passato un braccio intorno ai suoi fianchi e avevo incassato la testa fra la sua spalla sinistra e il suo collo.

E ora sorridevo beffardamente, ad occhi chiusi.

Dopo qualche minuto di silenzio, durante i quali riuscivo a percepire in modo palpabile la sua tensione e la sua indecisione sul da farsi, lo sentii muoversi leggermente tentando di liberarsi con cautela dalla stretta in cui l’avevo rinchiuso, che modestamente avrebbe potuto far concorrenza al Tranello del Diavolo, per quanto era salda. La sua si rivelò ben presto un’impresa disperata, e allora decise di ricorrere ad altri mezzi.

“Sirius?” mi chiamò, a bassa voce, come se temesse di disturbarmi. Io feci finta di niente e rimasi immobile. Lo sentii sospirare, e poi ripetere il mio nome con una leggera punta d’insistenza in più.

“Sirius…”

Il mio sorriso si allargò, in modo del tutto spontaneo. Mi stavo prendendo gioco di lui alle sue spalle, letteralmente. E lui non se ne rendeva neanche conto.

“Sirius, forse sarebbe il caso che tu—”

“AHO!”

Mi ritirai di scatto premendomi le mani sull’occhio, con un guaito di dolore. Accidenti. Il bastardo mi aveva centrato con una gomitata.

“Sirius mi dispiace, non l’ho fatto apposta…”

Una sfilza di imprecazioni misconosciute mi uscì dalle labbra in tutta risposta, mentre mi dondolavo su me stesso in preda ad un dolore folle.

“Beh, devo dire che se non altro Azkaban ti è servita ad ampliare il tuo vocabolario” osservò lui, con un certo ironico scetticismo. Io lo guardai con il mio occhio sano e scoppiai a ridere, fragorosamente.

“Allora non è vero che tu non scadi mai nelle battute di cattivo gusto, eh, Moony?” gli dissi, tra le risa. Lui mi guardò con un mezzo sorriso sfuggitogli da una finta espressione imbronciata, e fu costretto a capitolare di fronte alla mia ilarità.

“Magari potresti illustrarmi il significato di qualcuno dei termini scurrili che hai appena usato, non sono tanto sicuro di saperlo…”

Ci guardammo ridendo, entrambi con i capelli arruffati dal sonno e le palpebre ancora pesanti.

“Vedi? Io l’ho sempre detto, che consumarti sui libri non ti serviva a niente” commentai, mentre una fitta di dolore mi attraversava di nuovo la zona contusa, facendo scemare la mia risata in una smorfia sofferente. Un guaito mi uscì dalle labbra, mentre ci premevo la mano sopra con più forza, nel tentativo di ricacciare lo spasimo all’interno del mio corpo. Accidenti a lui, e al suo grazioso modo di svegliarmi la mattina.

“Sirius, ti ho detto che mi dispiace. Non l’ho fatto apposta. Smettila di fare tutte queste scenate melodrammatiche”. Mi limitai a rispondere con un grugnito, pregando che la piantasse di fare il saccente. Era proprio necessario che si desse da fare per trovare una qualsiasi scusa per rimproverarmi anche quando era lui dalla parte del torto?

“Sì, va bene, ti perdono, però mi hai fatto un occhio nero, dannazione” replicai, inviperito, quando lui tenta di scostarmi la mano dall’orbita.

“Fammi vedere” mi disse. Lo respinsi con un gesto secco.

“Lascia perdere” replicai, ringhiando. Lui reagì con un sorriso bonario.

“Non ti agitare, voglio solo vedere se è vero che ti verrà un occhio nero”.

“Se mi esce fuori il livido mi dai venti Galeoni”.

“E secondo te dove diavolo li vado a pescare, venti Galeoni?” mi chiese lui, scoppiando a ridere di gusto. Già, ero davvero uno spettacolo esilarante. Non avevo mai capito perché ci trovasse tutta questa soddisfazione nel prendermi in giro.

“Non è un problema mio” gli risposi, seccamente.

“Così mi sei decisamente d’aiuto” commentò lui, stringendosi nelle spalle con ovvietà.

“In qualche modo dovrai cercare di farti perdonare, e ti assicuro che non sarà facile”.

Remus scoppiò di nuovo a ridere, divertito, guardandomi con tenerezza, come si fa di solito con i bambini che fanno i capricci. Lui e la sua stramaledetta superiorità da persona equilibrata, alle volte, riuscivano a darmi veramente sui nervi. Però non riuscivo mai a tenergli il broncio a lungo. Rideva così di rado che, quelle poche volte che lo faceva – e che di solito implicavano la mia presenza a sostenere la parte del buffone di turno – non potevo fare a meno di trovarlo adorabile.

“Ho fatto un sogno bizzarro, stanotte, sai” mi disse, soprapensiero. Io lo fissai con curiosità, raddrizzandomi a sedere sul letto.

“Che genere di sogno?” gli chiesi. Lui rimase in silenzio per qualche secondo, in meditazione, probabilmente tentando di richiamare alla memoria i dettagli.

“Non ricordo tutto. C’eri tu. Solo che eri… un po’ più simile a com’eri una ventina d’anni fa” mi disse, incerto. Io gli gettai un’occhiata torva.

“Ehi. Il mio fascino ce l’ho ancora, e se solo mi faceste uscire di qui te lo dimostrerei in un attimo. Certo, mi concentrerei su qualche Babbana, perché non credo che chi conosce la mia identità possa pensare di soffermarsi sul mio aspetto fisico…”

“Smettila, non hai bisogno di uscire di qui” mi zittì, in tono esasperato. Io scossi la testa, poco convinto.

“Oh, sì, certo. Grazie tante. Le tue infondate garanzie mi confortano davvero. Vai avanti”.

“Va bene. Insomma, c’eri tu sdraiato su questo letto, che ti fingevi moribondo. Arrivavo io, e per tirarti su ti proponevo di architettare uno scherzo ai danni di Piton… non ridere, me ne vergogno già di mio… solo che, beh, Piton era adulto, e… ti ricordi quando avevamo scavato quella buca nel parco per farcelo cadere dentro…? Ecco, dovevamo farla più grande, perché lui era inaspettatamente cresciuto… solo che, prima che potessimo mettere in atto lo scherzo…”

Remus si fermò, indugiando. Assunse una strana espressione colpevole, e io subito mi insospettii.

“Che c’è? Guarda che non mi offendo, qualsiasi cosa tu abbia sognato”. Ormai ero fin troppo curioso di scoprire come andava a finire. Lui sembrò esitare ancora un attimo, poi si decise, e riprese a raccontare.

“Beh, arrivavano i membri dell’Ordine a portare via Harry da Hogwarts. Tu davi fuori di matto, e decidevano di riportarti ad Azkaban… mi sono svegliato nel momento in cui stavo tentando di farti da avvocato difensore in Sala Grande. I membri della giuria erano gli esaminatori dei nostri M.A.G.O”.

“Oh. E poi?”

“Basta, mi sono svegliato”. Cercai di incrociare il suo sguardo, ma lui teneva gli occhi fissi su un punto imprecisato del pavimento, e sospirava. Aveva l’aria di sentirsi come se avesse appena detto qualcosa di indelicato nei miei confronti.

“Mi dispiace” mi disse, con quell’espressione contrita. Io mi sentii paradossalmente male per lui.

“Non dire sciocchezze. È solo uno stupido sogno. E poi, potrebbe averti indicato la tua prossima carriera” risposi, cercando di sdrammatizzare; riuscii perlomeno a strappargli un mezzo sorriso, cosa che mi rese felice come un bambino.

“No, ne dubito. Mi sembrava di essere un pessimo avvocato” ammise lui, chinando lo sguardo.

“Scommetto che ti saresti risollevato presto, se la posta in gioco fosse stata davvero farmi finire di nuovo ad Azkaban” affermai con convinzione, battendogli una mano sulla spalla. Mi sembrò di cogliere un leggero rossore sul suo viso, celato da quello sguardo di gratitudine.

“Me lo auguro. Se fosse stato tutto vero, non me lo sarei mai perdonato”.

“Avresti fatto il possibile, e questo mi basta” lo liquidai in tono bonario, sentendomi stranamente compiaciuto da quei momentanei sentimentalismi che ci stavamo scambiando.

“Cioè, non avresti mai inveito contro di me…?”

Mi strinsi nelle spalle, incerto.

“Solo qualche volta. Come in effetti ho fatto”. Remus mi guardò con una strana apprensione.

“Che vuoi dire?”

“Che, beh… nonostante tutto, nonostante fossi in prigione da innocente e James fosse morto per colpa mia… alle volte pensavo che ero contento che alla fine non fossi tu la spia”. Mi guardò ancora con quella faccia, come se fosse stato assalito da un inspiegabile rimorso. Mi posò una mano sulla spalla, con un sospiro.

“Sirius, non è stata colpa tua”. Sbuffai, spazientito.

“Non ricominciamo con questo discorso, okay? Tanto non sei mai riuscito a convincermi della tua opinione”. Lui si rasserenò, sfoggiando un sorrisetto obliquo.

“Chissà perché” mormorò, con l’aria di chi la sa lunga.

“Perché ho ragione io, ecco perché” replicai io, ostentando una fiera aria di superiorità. Lui sorrise, scuotendo la testa.

“E va bene, come vuoi”. Lo scrutai con sospetto, mentre stirava un lembo del lenzuolo con un distratto gesto della mano.

“Ora mi assecondi anche, pur di farmi contento?”

Remus mi rispose con un’espressione lievemente spazientita, inarcando un sopracciglio.

“Spero tu ti renda conto da solo di essere un tantino assurdo, considerato che se ti contraddico non va bene perché la ragione è sempre e comunque dalla tua parte, e se ti assecondo non va bene perché ti sembra che lo faccia solo per farti contento”. Corrugai la fronte, fissandolo con aria perplessa.

“Ma infatti è per questo che lo fai” risposi.

“Dunque non c’è modo per farti smettere di polemizzare” concluse lui, reclinando il capo in un gesto di rassegnazione.

“Hai ragione” confermai, passandomi una mano tra i capelli. Remus esibì un perfido sorriso divertito.

“Grazie a Godric, stavolta non hai nulla da ridire” esultò. Io alzai gli occhi al soffitto, esasperato.

“Ti salvi soltanto perché è mattino presto e le mie capacità ragionative sono ancora parzialmente assopite” capitolai, scuotendo la testa. Per una volta, potevo anche dargliela vinta, se lo faceva sentire così bene. In fondo, vederlo ridere per merito mio mi aveva sempre procurato una strana e calda soddisfazione.

Rimanemmo lì fermi per qualche minuto, in silenzio, come se fosse il momento di chiudere il sipario, alzarci dal letto e andare a sbrigare le rispettive faccende, ma nessuno dei due avesse molta voglia di farlo. Io men che meno.

Ormai, in quel periodo schifoso, riuscivo a sopportare solo la vista di Remus. Lui, del resto, non sembrava farsene un problema, se dopo aver sbrigato le faccende per conto dell’Ordine io finivo per richiedere la sua presenza ai piani alti, in genere in camera mia. Non mi interessava indagare sul perché. Remus era quello che di me sapeva ogni cosa, persino quante volte andavo abitualmente in bagno. C’erano stati quei dodici anni di silenzio e distanza tra noi, ma ci sforzavamo di comportarci come se non fossero mai passati, e ci riuscivamo anche piuttosto bene; la cosa migliore era far finta di non aver mai perso la fiducia l’uno nell’altro, di modo che né io né lui dovessimo faticare per riguadagnarcela. Adesso che la verità era nota ad entrambi – anche se io per quei dodici anni ne avevo conservato l’esclusiva assoluta – e che tutti i dubbi erano stati chiariti quella notte alla Stamberga, non c’era motivo di ripartire da zero. Io, a parte le ovvie conseguenze che dodici anni di prigione possono comportare, non ero sostanzialmente cambiato, e lui era rimasto sempre il solito scolaretto impeccabilmente saccente, che non solo non si lasciava intimorire dai miei scatti di malumore, ma riusciva ogni volta ad ostentare quella sua pacata indifferenza mista al costante e sottilmente perfido sarcasmo che non mancava mai di rivolgermi, finendo poi per prendermi con le buone anche nella peggiore delle situazioni, senza mai darmi la soddisfazione di mostrarsi davvero irritato per il mio modo di fare. Riusciva seriamente a darmi sui nervi, ma avevo bisogno solo di lui, per sfogare tutto il mio malumore accumulato. Sapeva già tutto, non mi giudicava per il mio modo di fare e non mi guardava con superiore disprezzo come se fossi soltanto un povero pazzo che soffre di manie di persecuzione, non dovevo spiegargli niente del mio passato e non sfoggiava mai quella filosofia spiccia del genere “Sirius è fatto così, c’è poco da fare”, che pareva essere così cara agli altri membri dell’Ordine. Ormai il mio era una specie di attaccamento morboso di cui non riuscivo a fare a meno, ma finché ad entrambi andava bene così, non c’era bisogno di condurre nessun tipo di indagine psicologica sul sottoscritto.

Era piuttosto strano. Spesso pensavo che, se non fossimo finiti nella stessa Casa, non avrei mai legato con uno come Remus. Non era stato per niente facile da avvicinare, nemmeno per instaurarci un rapporto di odio reciproco: se provavo a provocarlo con qualche battuta offensiva, lui rispondeva con quell’indifferenza distaccata che non regalava proprio nessuna soddisfazione. Mi faceva sempre sentire un idiota, quando si comportava così. Sembrava che niente lo sfiorasse, e che io fossi soltanto un meschino essere umano che si affannava per delle sciocchezze come cercare un pretesto per litigare. Poi però io e James iniziammo a prenderlo in simpatia, perché se ne stava sempre per i fatti suoi e non voleva legare con nessuno. In pratica, lo costringemmo a legare con noi. Non era certo il tipo da elemosinare la compagnia altrui, anche se poi si era trovato subito bene e aveva iniziato a sorridere un po’, cosa che in precedenza nessuno gli aveva mai visto fare.

“A che pensi?” mi domandò, reclinando lievemente il capo verso la spalla destra e osservandomi con affettuosa curiosità. Io mi lasciai sfuggire un mezzo sorriso, mentre mi scostavo i capelli dagli occhi.

“Mi chiedevo come diavolo abbiamo fatto io e te a diventare amici” risposi, osservandolo ridere in quel modo così raramente genuino. Prese a tormentarsi uno dei lembi sfrangiati della veste, lo sguardo timidamente chino sul copriletto e un lieve rossore sulle guance, in un’immagine che lo rendeva così simile a quello schivo ragazzino undicenne che avevo conosciuto tanti anni fa, così tanti che non riuscivo nemmeno a contarli, e che pure mi sembravano trascorsi in un lampo, con il senno di poi, mentre stavo lì a rimirarlo imbambolato in una vecchia stanza polverosa in cui i raggi della fredda alba d’inverno filtravano attraverso le pesanti tende verde scuro.

“È stato strano” disse Remus, con un lieve sorriso. Io annuii, passandomi una mano fra i capelli.

“Ti ricordi quando tuo fratello è arrivato a Hogwarts e ti ha visto in giro con me?”

“Sì, è scoppiato a ridere e ci siamo presi a pugni” ricordai, con una stretta al cuore. Quel giorno, io e Remus avevamo appena finito di bisticciare perché lui voleva convincermi a mettermi subito a studiare Artimanzia, dato che, stando alle sue convinzioni, era una materia difficile e mi sarei dimostrato molto meno irresponsabile se avessi cominciato a seguirla adeguatamente fin dall’inizio, in modo da evitare di ritrovarmi alla fine del semestre con i compiti in classe imminenti senza averci capito un bel nulla.

“Ho pensato un sacco di volte che non sarei più riuscito a reggerti ancora per molto. Senza offesa” gli dissi, correggendo leggermente il tiro nella speranza che non se la prendesse a male. Ma Remus non se la prendeva mai. Si era dimostrato capace di sopportare le mie frecciatine per pomeriggi interi, e non aveva mai accennato al desiderio di infilarsi una corda al collo per tutte le volte che a lezione mi ero seduto di fianco a lui con la chiara intenzione di dargli fastidio.

“Nessuna offesa, lo stesso vale per me” rispose, ed era evidente che ci eravamo capiti all’istante. Ognuno di noi due si era dimostrato insopportabile a suo modo, ed era così bello poterne ridere, ora, anche se il passare del tempo aveva comportato perdite irrimediabili per entrambi.

“Non hai proprio una bella cera,” osservai, facendo scuotere la testa al mio amico licantropo a causa della mia inguaribile mancanza di delicatezza, “vuoi che ti faccia compagnia per la prossima luna piena?”

Sapevo che sarebbe successo tra poco, ed io ero ancora più che capace di trasformarmi in un cane. Era sempre stato piacevole, trascorrere le nottate insieme sotto sembianze animalesche. Lui non era più nella posizione di rimproverarmi, io non ero più nella posizione di provocarlo sadicamente. Gli facevo compagnia e basta, come desideravo fare.

“Non è necessario, lo sai” mi rispose lui, con quella sua tipica aria dimessa e schiva da persona che non vuole aiuto da nessuno. Ma io del suo atteggiamento da povero martire me n’ero sempre cordialmente fregato.

“Potrà non esserlo per te, ma per me lo è, mi dispiace. Padfoot ha bisogno di risvegliarsi, ogni tanto” replicai, appoggiandomi sui gomiti con un sorriso sornione.

“Non ci sarà da divertirsi, ti avverto. Prendo la Pozione Antilupo da due anni, ormai, e…”

“Sì, sì, lo so, ti è di grande aiuto, eccetera. E che importa? Ci rannicchiamo in una stanza in forma animale e schiacciamo insieme un pisolino” gli spiegai, con ovvietà.

“Francamente, Sirius, non capisco davvero perché ti incaponisci con queste sciocchezze”.

Lo fissai diritto negli occhi eludendo con un sorriso il suo sguardo indagatore, poi mi strinsi nelle spalle, facendo vagare lo sguardo all’interno della stanza e sentendomi mancare il fiato nell’avvertire ciò che mi stava per uscire di bocca.

“Francamente, Remus, potrebbe essere perché ho una cotta per te”.

Il silenzio più profondo e greve calò nella stanza dopo questa mia affermazione.

Non avevo mai fatto fatica a non frenare la traduzione dei miei pensieri in parole pronunciate ad alta voce, e l’abitudine non mi tradì nemmeno in quel momento. Ma la faccia che fece Remus mi fece andare molto vicino a pentirmi di non averci pensato su due volte prima di aprir bocca, per la seconda volta in vita mia – la prima restava quella in cui avevo spifferato a Snivellus come accedere al passaggio segreto dentro il Platano Picchiatore. Ma questa era peggio. Mille volte peggio.

“Non guardarmi come se fossi pazzo, Merlino… va bene, può darsi che Azkaban mi abbia fatto andare leggermente fuori di testa, però evita di farmi sentire un idiota, per favore” gli dissi, con un sorriso forzato, cercando di sdrammatizzare la situazione. Non ci riuscii. L’atmosfera rimase terribilmente pesante, e lui mi fissava ancora con gli occhi spalancati, pallido come un cencio.

“Se volevi scioccarmi, ci sei riuscito” mi disse, a mezza voce, dopo diversi secondi di puro silenzio.

“Ah, dici… Okay, lascia stare. Era uno scherzo” capitolai, dopo essermi reso conto che non l’aveva presa troppo bene. Sarebbe stato meglio se me lo fossi tenuto per me, ma ormai il danno era fatto, e potevo soltanto cercare di fregarlo se volevo salvarmi la faccia.

“Davvero?” mi chiese lui, confuso.

“Sì, tanto sei abbastanza ingenuo per credere a tutto ciò che ti dico” risposi, spazientito. Dire che non lo capivo era poco. Dopo avergli detto che era uno scherzo avrebbe dovuto come minimo mostrarsi sollevato, se proprio la cosa lo sconvolgeva a tal punto.

“Smettila di prendermi in giro, Sirius. Non mi sembra il caso” mi disse lui, con aria grave. Io sfoggiai la mia migliore espressione di sprezzante indifferenza, e mi lasciai ricadere di schiena sul materasso.

“Come preferisci” lo accontentai, agitando una mano come per liquidarlo. Mi misi a fissare il soffitto, ben deciso a non incontrare il suo sguardo, in attesa che si convincesse davvero che ero completamente matto o che avevo un pessimo senso dell’umorismo.

Per diversi secondi non si mosse affatto, e sentire il suo sguardo su di me mi fece piombare nel disagio più nero. Intuivo già cosa gli stava passando per la testa. Che Azkaban non mi aveva reso pazzo, mi aveva reso finocchio.

Grandioso. Era esattamente ciò che desideravo che pensasse di me.

“E va bene, te la sei voluta tu” disse, dopo un po’. Sentii il letto cigolare, e la sua mano posarsi sul mio avambraccio.

“Che…?”

Non feci in tempo a dire altro, né ebbi la prontezza necessaria a reagire tempestivamente. Prima che potessi anche solo decidere che cosa fare, Remus si era chinato su di me e aveva cominciato a baciarmi, e io avevo chiuso gli occhi di scatto, per non guardare.

Perché mi sembrava incredibile.

Riuscivo a malapena a realizzare che lo volevo vicino, e ora c’erano le sue labbra sulle mie, in un gesto consapevole e dettato dalla coscienza, un gesto che inizialmente mi lasciò spiazzato. Dopodichè, sentendomi assalire dal terrore che potesse pensare di staccarsi da me, con il respiro mozzato cominciai a reagire.

Non fu come pensavo che sarebbe stato. Fu una cosa cieca, irrazionale. Sentivo solo quell’impulso che cresceva dentro di me, l’impulso di rispondere a quel bacio con una forza eguale e contraria, e non facevo altro che assecondarlo. Non ero dolce, o gentile, non badavo alle sue reazioni. Volevo soltanto che durasse il più a lungo possibile, prima che la sua petulante razionalità tornasse a galla e gli imponesse di finirla, per tornare a burlarsi di me dopo che ero cascato in pieno nel suo tranello. Mi aveva fregato, ma capii che non me ne importava. Mi sentivo più che disposto a sopportare l’umiliazione imminente, pur di compiere quel gesto folle che sembrava darmi tanta soddisfazione.

“Lupin! Dove ti sei cacciato?”

Era la voce di Moody, che ci fece sobbalzare violentemente e staccarci seduta stante. Distogliemmo lo sguardo l’uno dall’altro, nel più cocente degli imbarazzi, e io scattai in piedi, di colpo, con il terrore che Malocchio salisse di sopra e scrutasse dietro la porta della mia camera. Mi ero completamente scordato che Remus avesse da fare con l’Ordine, stamani, e anche lui pareva esserselo dimenticato, tanto da potersi permettere di perdere tempo a baciarmi.

“Arrivo, Malocchio!” gridò, con un tremito nella voce. “Scusami, devo andare” mi disse poi, bruscamente, rimettendosi le scarpe con la velocità di un Cercatore che ha appena avvistato il Boccino. Io rimasi a fissargli la schiena, sentendomi svuotare di ogni impulso vitale.

Dopo avermi baciato per provocazione, il suo brillante piano era quello? Andarsene, e piantarmi lì come un povero scemo con l’implicito consiglio di riflettere bene sul mio orientamento sessuale?

No, non poteva funzionare così. Se c’era una cosa di cui ero sempre stato sicuro, era di non essere un maledetto finocchio. Ma in quel momento, le cose erano diverse. Probabilmente l’avevo davvero detto per scherzo, per vedere come avrebbe reagito, probabilmente ero stato io ad aver fregato lui spingendolo fino a trovare il coraggio di osare un gesto del genere. C’era una motivazione sensata, dovevo soltanto trovarla.

“Senti, io… mi dispiace. Non volevo arrivare a questo” dissi, a fatica. Non sapevo perché mi sentissi in dovere di dargli una spiegazione. Ma l’impulso di dare voce a tutto ciò che mi passasse per la testa era sempre stato troppo forte da reprimere, per me. Non avevo la capacità di selezione e di controllo superiore di cui era dotato Remus. Non ero in grado di non dire cose che avrebbero ferito me stesso e gli altri, seppure sapessi a che cosa andavo incontro.

Non ero in grado di pormi un freno.

“Lascia perdere, Sirius. Meglio se non ne parliamo, per ora” sospirò lui, scostandosi una ciocca di capelli dagli occhi, con aria inerme. Lo osservai con dispiacere, come se mi stessi rendendo conto che con lui mi ero appena giocato la mia unica possibilità.

E avevo perso.

Ma aveva ragione. Sarebbe davvero stato meglio fingere che non fosse mai successo. Era una cosa sbagliata, inverosimile, e se l’avessimo raccontato in giro ci avrebbero squadrato da capo a piedi con gli occhi fuori dalle orbite, dopodichè saremmo stati spediti diritti al San Mungo, nel reparto per le malattie mentali. Tutti si sarebbero interrogati sul tipo di maleficio che ci era stato lanciato contro per spingerci al punto di poter pensare che io e lui potessimo provare dei sentimenti l’uno per l’altro, e noi avremmo consumato i nostri ultimi giorni costretti in una camicia di forza, a fissare immobili una parete bianca.

E poi, lui per me non provava niente.

“Ho sentito spesso la tua mancanza, mentre eri in prigione” mi disse, in tono melanconico. Già, in effetti immaginai che non dovesse essere stata una pacchia nemmeno per lui. Era rimasto completamente solo, dopo che Peter aveva tradito Lily e James; e noi eravamo sempre stati gli unici in grado di tenergli compagnia in ogni attimo della sua esistenza.

Anche lui mi era mancato, ma non avevo mai avuto la forza di ammetterlo.

E non ci riuscii nemmeno in quel momento.

“Senti, Sirius, lasciamo perdere. Dimentichiamocene. Non voglio che tu faccia cose sbagliate solo perché senti che stai perdendo Harry”.

Lo fissai, spalancando gli occhi.

“Non essere ridicolo” gli dissi, con una smorfia di disgusto. Non riuscivo a crederci che potesse davvero pensare che io soffrissi di carenze d’affetto.

“Che cosa intendi per non essere ridicolo?”

“Intendo smettila di psicanalizzare, smettila di credermi una creatura così meschina come cerchi di farmi sembrare”.

Mi fissò come se avessi assunto le sembianze di un Vermicolo, prima di sospirare con aria spazientita. Io lo fissai stringendo i pugni con forza.

“Sei sempre stato estremamente bravo a rigirare la frittata a tuo vantaggio” commentò, dandomi freddamente le spalle. Mi sentii di colpo ribollire il sangue nelle vene, e feci il giro del letto a grandi falcate per riuscire ad averlo di fronte e poterlo guardare direttamente in faccia.

“Eh, no, Remus. Sei tu che pretendi di sapere che cosa mi passa per la testa!”

“Tu non hai una spiegazione soddisfacente per il tuo comportamento, io sì”.

Lo guardai con rabbia, sentendomi contrarre il volto in una smorfia. Doveva sempre essere tutto così facile da spiegare, secondo lui. Come al solito. Io non avevo il diritto di far valere la mia opinione, non avevo il diritto di lottare per fargli capire che c’era qualcosa di più, che anche se in quel momento lo stavo odiando non volevo che andasse via.

“Che ne so, senti, io… io non sono un pervertito. E non sono nemmeno frustrato. E men che meno soffro di carenze d’affetto. E non provare a pensare che qualcuno mi abbia fatto un maleficio”.

Lo osservai stringersi nelle spalle e alzare le mani in segno di difesa, con ironica rassegnazione.

“Stai facendo tutto da solo” mi disse, e io storsi la bocca in una smorfia.

“Bene. Comunque, togliti dalla testa tutte queste possibili soluzioni. Se proprio ne vuoi un’altra, forse, può darsi che prima io…”

Mi bloccai, osservando la sua espressione malinconicamente rassegnata.

“Sirius, io e te a scuola litigavamo spesso”.

“E questo che cosa vorrebbe…”

“…e abbiamo anche due caratteri completamente opposti. Siamo riusciti ugualmente ad essere ottimi amici, ma se prima ho fatto quello che ho fatto, è perché io credo di… provare qualcosa per te, ma… è sbagliato. E non credo che per te sia lo stesso”.

Distolsi lo sguardo da lui per evitare di incenerirlo, mentre mi sentivo ribollire per la rabbia e l’umiliazione. Era assolutamente ingiusto. Per quale assurdo motivo lui poteva permettersi di nutrire i sentimenti che gli pareva mentre per me doveva necessariamente esserci un’altra spiegazione? Perché giocava con me in quel modo riuscendo perfino a farsi passare per quello che aveva tutta la ragione dalla sua parte?

Ma ne avevo abbastanza, di sentire tutte quelle sciocchezze. Ne avevo abbastanza di osservarlo sputare sentenze in tutta tranquillità, calpestare i miei sentimenti con quella spietata ovvietà, ignorare le mie proteste come se stessi vomitando idiozie.

“Bene. Allora, facciamo a modo tuo. Ignoriamo tutto, torniamo alla normalità. Prima di tutto, ricomincerò a starmene chiuso qui dentro da solo”.

Lui mi guardò con aria corrucciata, dispiaciuta. La durezza del suo sguardo di bronzo non riuscì a celarlo. Sì, lo stavo cacciando; aveva capito benissimo.

Non volevo averlo tra i piedi, se davvero la pensava in quel modo.

“Perfetto”. Si alzò in piedi, e mi sentii percorrere da un brivido quando ci trovammo faccia a faccia per quei pochi secondi, a una distanza che per quanto minima ormai non poteva più essere annullata. Fronteggiai la sua espressione impeccabilmente neutrale con occhi di fuoco, esultai silenziosamente quando chinò lo sguardo in segno di sconfitta, poi lo guardai camminare fino alla porta con il suo passo leggermente rigido e aprire la porta per andarsene, ubbidendo con precisione ai miei ordini.

“Buona giornata, Sirius”.

Gli risposi con una risata beffarda, dato che dell’educazione non me ne importava niente.

Dopo una discussione di quel genere, l’ultima cosa che desideravo era sentirmi salutare ipocritamente. Che se ne andasse sbraitando e sbattendo la porta, una volta tanto… ma no, lui no. Non poteva mai mostrarsi in preda all’ira, o al risentimento. Tutte connotazioni troppo deboli per uno come lui.

E va bene, poteva anche darsi che in quel periodo fossi di malumore soprattutto per via di Harry. E poteva anche darsi che il fatto che Remus fosse la persona che mi capisse meglio di tutti tra quelli che avevo attorno non fosse sufficiente per spiegare quell’impulso che mi aveva spinto a confessare candidamente qualcosa di cui non mi ero nemmeno reso davvero conto, ma ero sincero, maledettamente sincero, e lui non aveva motivo di negarlo con le sue supposizioni da quattro soldi. Senza contare che non capivo assolutamente da dove fosse saltata fuori quella sua dichiarazione dell’ultimo minuto. Non mi ero particolarmente soffermato a riflettere sul suo comportamento, e il fatto che avesse assecondato alcune mie richieste alquanto bizzarre non mi era risultato nemmeno lontanamente sospettoso: ero sempre riuscito a far cedere Remus, di fronte alle mie infantili pretese. Magari in occasioni precedenti avevo dovuto insistere di più per combattere la sua debole reticenza, ma non ci avevo visto nulla di strano nel fatto che avesse deciso di accontentarmi; e ora, se ne saltava fuori con il fatto che lui provava qualcosa per me. Quando nemmeno mi stava a sentire, e mi trattava come un bambino. Quando mi osservava sempre con quella sua aria di ironica e pacata superiorità e criticava puntualmente ogni mia affermazione.

Dire che non riuscivo a crederci era soltanto un pallido eufemismo.

Ma non ero più così sicuro di voler indagare sulla questione.

 

 

Never opened myself this way
Life is ours, we live it our way
All these words I don't just say
And nothing else matters

(Metallica, “Nothing Else Matters”)

 

 

Nota: il titolo è un verso della canzone “Shy” dei Sonata Arctica. Preciso che se Sirius vi è sembrato contraddittorio, in certi punti del capitolo, beh, era proprio quello che doveva risultare. Il fatto è che personalmente sono stata parecchio influenzata dallo studio della “Coscienza di Zeno”, che in quanto a trama non mi ha particolarmente entusiasmato, ma di cui adoro il metodo innovativo di scrittura e di stile. Zeno, parlando delle sue esperienze, spesso mistifica la realtà, mente e si contraddice, ma dato che parla in prima persona non c’è un narratore onnisciente che intervenga nel racconto a dire dove sta la verità: questo compito, Svevo lo lascia al lettore, con la consapevolezza che una verità definitiva non la si potrà mai trovare. È una concezione della scrittura che mi ha profondamente segnata, e sta a poco a poco contagiando tutti i “miei” personaggi. Insomma, è con questo atteggiamento che bisogna leggere quanto racconta Sirius. Remus ha già una maggiore consapevolezza di sé, anche se poi in ultima analisi trova sempre una spiegazione falsata da fornirsi per mettersi l’anima in pace; comunque, si avvertiva l’intuizione che provasse qualcosa per Sirius nel modo in cui reagiva di fronte alle sue azioni o parole, mentre Sirius avverte soltanto qualcosa che preme dentro di lui per uscire allo scoperto, non sa da cosa è causata ma non vuole farsi accusare di soffrire di carenze d’affetto o di essere sotto un maleficio, insomma, non capisce una beata mazza di quello che sta passando, e affronta tutto come se fosse un gioco, un capriccio, perché se si comporta come un bambino spera che nessuno pretenderà delle spiegazioni logiche e razionali da parte sua. Certo, anche Remus fa un errore madornale nel non dare credito alla sincerità di Sirius, rimanendo arroccato sulle sue posizioni; ha delle ragioni per farlo, perché in fondo sarebbe un comportamento “da Sirius”, ma alla fine si giunge ad un attrito tra i due in cui sbagliano entrambi, e la cui conclusione si vedrà nell’epilogo.

Intanto, rispondo a chi mi ha lasciato una recensione^^

 

x sanzina89: sono contenta che tu ti trovi d’accordo con la mia visione di Sirius e Remus, e ti ringrazio per i complimenti. A Remus non pesa proprio sopportare Sirius; si avverte che c’è qualcosa, se ne rende sottilmente conto anche lui, nonostante poi trovi mille scuse stupide per giustificarsi. Proprio da far cadere le braccia. Ma Remus è fatto così, sono entrambi molto particolari. Grazie ancora e a presto, spero!

x LCasssieP: uhm, no, a dire il vero non ho mai pensato di far entrare Harry nella storia, almeno non direttamente. Questo è il mio primo esperimento Sirius/Remus e ho preferito concentrarmi sulle due creature, se devo essere sincera^^ comunque, sì, ci hai visto giusto, nello scorso capitolo si avvertiva che Sirius manifestava qualcosa verso Remus; allo stesso modo, si avvertiva che Remus non è affatto indifferente a tutti questi segnali piuttosto ambigui, ma maschera abbastanza abilmente le sue reazioni. Grazie per il commento!

x sibil: a prescindere dal fatto che amo gli Oasis, il mio nick non deriva da loro, bensì dal personaggio omonimo di “Il Giovane Holden”, o se preferisci, “The Catcher In The Rye”, di J.D. Salinger. Siccome leggo molto volevo prendere il mio nick da un libro, e in quel periodo stavo leggendo questo^^ comunque, grazie davvero per i complimenti: anche per me Remus è un personaggio magnifico, pur con tutti i suoi difetti, così come Sirius. Contenta anche che ti piaccia il tono della fanfic: le storie malinconiche mi sono sempre piaciute, e quando scrivo cerco di ispirarmi a quello che incontra i miei gusti personali^^

x nischino11: non si direbbe che è la prima? Wow ma ti ringrazio! Se c’è una delle mie paure folli, è quella di non saper rendere i personaggi, perciò sentirmelo dire mi rassicura molto, dato che in materia non posso considerarmi un’esperta, almeno per quanto riguarda la parte della scrittrice. Prima di questa fanfic, infatti, le due creaturine erano comparse in una mia shot come protagonisti soltanto una volta, ed era più una cosa a libera interpretazione, in cui potevano anche essere letti come semplici amici; però, affrontarli dal punto di vista di una coppia è decisamente più impegnativo. Certo, se ci fossero errori di grammatica mi suiciderei; dopo cinque anni di liceo classico, dovrei soltanto vergognarmi^^ Insomma, sono contenta che la fanfic ti piaccia, e spero continuerai a seguirla.

   
 
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