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Autore: HarryJo    25/11/2012    4 recensioni
Le ragazze non possono fare a meno di pensare a quanto sarebbe bello dimagrire un po’. Anche chi è in forma, ha un fisico perfetto e non dovrebbe godere di certi problemi, si ritrova a dire spesso: “Devo mettermi a dieta, maledizione!”, ignorando quale sia, la vera maledizione.
Perché avere qualche chilo in più può sembrare una disgrazia, qualche volta. È una tortura mangiare quel poco che serve e vedersi ingrassare sempre di più.
Ma nessuno pensa che può esserci un altro male, molto ben più grave.

Ci sono poche cose di cui Arianna è realmente fiera nella sua vita; una di queste è l'avere un fisico perfetto nonostante si abbuffi a tutte le ore.
È motivo di vanto fino a quando un giorno, con orrore, verrà a sapere che, anche se mangiasse senza sosta, continuerà a dimagrire.
Fino a sparire, inesorabilmente.
Che ne dite di ritornare sul vostro mondo? Qualche chilo in più non sembra così male ora, non è vero?
Oppure continuate a leggere. Perché questa è la storia di una diagnosi riservata. Il verme solitario ha paura di questo romanzo, e ne avrà anche la vostra bilancia.
Siete ancora in tempo per tornarvene nel vostro mondo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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∞ Capitolo quarto ∞
 
I TOOK A WALK DOWN A ROAD
IT’S THE ROAD I WAS MEANT TO STAY.
 “Coming home”, Cinderella, Long cold winter, 1988.

 
 
 

T

 ornammo a casa senza dire una parola. Nemmeno la musica era accesa, e quel viaggio fu un continuo tormento interiore, per me. Continuavo a pensare, a pensare, a ripensare e non capivo.
Ero davvero malata? Davvero soffrivo di ipertiroidismo? Avrei dovuto cominciare a prendere un sacco di pastiglie per mangiare tranquillamente e ricominciare ad acquistare peso? E se non me ne fossi mai resa conto, come sarebbe andata a finire? Non potevo crederci. Mi sentivo bene: nonostante la stanchezza che mi prendeva ogni giorno, non mi ero mai preoccupata e non mi era mai nemmeno passato per la mente la possibilità di poter essere affetta da qualche strana disfunzione. E avevo dovuto ricredermi in pochissimo tempo, a causa di un numero sulla bilancia.
Ripercorrevo con la mente ogni ricordo in cui le persone a cui volevo bene mi chiedevano se fossi anoressica: era quello che vedevano? Una ragazza che continuava a dimagrire, inconsapevolmente? Cominciavo a farmi del male con quei pensieri, perciò smisi di preoccuparmene. Tappai le orecchie nella mia testa.
Quando arrivammo a casa, mi richiusi di nuovo in camera, cercando di fare qualche compito per il giorno dopo, ma anche se rileggevo una ventina di volte le frasi del libro non riuscivo a concentrarmi e a capirle. Dopo poco mi stufai e richiusi tutto, lasciando il disordine più completo nella scrivania. Accesi lo stereo, vi inserii un cd di vari artisti che mi aveva registrato Francesco qualche anno prima e mi gettai a letto, cullandomi tra le note di Stairway to heaven. Ogni tanto si bloccava: l’avevo ascoltato così tante volte che in certi punti si era rovinato, ma c’ero talmente legata che non avevo la minima intenzione di smettere di consumarlo. Almeno fino a quando Francesco non me ne avrebbe regalato un altro.
Passai alcune ore, lì, sul letto, semplicemente a pensare e ad ascoltare i brani che ogni tre o quattro minuti si susseguivano in riproduzione casuale. Ogni tanto mi mettevo a canticchiare, proprio per contrastare con la mia stessa voce i pensieri che cercavano di prendere il possesso del mio cervello. Ma non volevo che accadesse: ero ancora convinta di non avere nulla di male. Ero convinta di non essere malata. Quegli esami sarebbero andati bene.
“Arianna,” mi chiamò mia madre, “vieni a preparare la tavola?”
Guardai l’ora: erano arrivate già quasi le otto di sera. Non mi ero accorta che il tempo fosse trascorso così in fretta; con estrema riluttanza mi alzai dal letto.
“Arrivo,” mormorai, un po’ forzando la voce. Prima di uscire dalla stanza, mi guardai per un momento nel riflesso dell’anta di vetro dell’armadio: era solo un’impressione o il mio volto era un po’ sciupato? Lo era sempre stato?
Scossi la testa, togliendo quei brutti pensieri e andai in cucina. Trovai mia madre ai fornelli, che stava tagliando a pezzettini il salmone per farne la pasta. Il mio stomaco cominciò a fare le fusa, mentre annusavo l’aria.
“Com’è andata, tesoro?” mi chiese, appena mi vide.
“A scuola?” chiesi, per abitudine. “Bene. La professoressa di matematica ci ha raccontato per la dodicesima volta della sua fuga a Milano con il suo ragazzo quando era giovane.”
“Ancora non gli avete detto che sono due anni che ve lo racconta?”
“No, figurati,” risposi, spiegando la tovaglia rossa alla bell’e meglio. “Perdiamo ore di lezione così e a noi sta bene.”
“E quella d’inglese? Ancora in foga per i tagli alla scuola?”
“Più che mai,” mi limitai a dire. “A te, il lavoro?”
“Tutto bene, oggi è nata una nuova bambina.”
Mia madre lavorava in ospedale, nel reparto natale. Era molto entusiasta del suo lavoro: nonostante la rendesse sempre un po’ occupata, diceva sempre che era il suo sogno da quando era piccola, aiutare a far nascere i bambini. Diceva che la nascita era uno dei fenomeni più belli della vita.
“Come si chiama?”
“Alessia,” rispose. “È molto carina.”
Non le feci notare che da piccoli sembriamo tutti carini e irriconoscibili. Non le piaceva quando lo dicevo.
“Comunque volevo sapere com’era andata dal medico, in realtà,” mi disse dopo un po’, con la voce leggermente incrinata. “Ti ha detto qualcosa?”
“Che potrei essere affetta da ipertiroidismo,” risposi, fredda. “Dobbiamo fare degli esami per vedere.”
“Oh,” sospirò lei, girandosi a guardarmi. Non sapeva cosa dire. Sembrava quasi che si sentisse in colpa, per non aver capito prima cosa mi stava succedendo, ma io non la ritenevo responsabile di nulla. Non ero arrabbiata con lei, nemmeno perché non mi diceva nulla. Almeno si comportava da madre, almeno era lì con me a farmi da mangiare e mi stava ascoltando.
“Posso venire con te a lavoro domani mattina?” le domandai, esitando per un momento. “Potrei fare subito gli esami che devo fare.”
“Non vuoi andare con tuo padre?” mi chiese, squadrandomi. “Pensavo che foste d’accordo che…”
“Non siamo d’accordo su niente,” la interruppi. “E poi papà va a lavorare tardi, invece se venissi con te potrei fare presto gli esami, prendere l’autobus e riuscire a entrare a scuola solo un’ora dopo.”
“Va bene,” mi rispose. Mi avvicinai e, senza averlo nemmeno premeditato, mi fiondai tra le sue braccia. All’inizio rimase un po’ sorpresa dal mio gesto, poi mi strinse cautamente a sé, stringendo ancora in mano il coltello.
“Grazie,” le dissi, leggermente in imbarazzo. “È meglio che torni a cucinare, sennò la pasta diventa colla.”
Subito si girò presa dal panico. “Vai a chiamare tuo fratello, intanto!”
Come se avesse letto nel pensiero, Mattia era appena entrato e si era già seduto a tavola. “Sono già qui! Devo dirti una cosa, mamma,” disse, serio.
“Cosa c’è? Stai male?”
“No. Ma non voglio più che compriamo questi biscotti.” Mi girai e lo osservai: in mano aveva il pacco di biscotti che mangiava a colazione da quando ne avevo memoria.
“Cosa?” chiese mia madre. “Ma tu li adori!”
“Sì, ma li fa la mamma di Ilaria,” ribatté, quasi come se fosse ovvio. Mia madre lo squadrò senza capire, mentre io mi avvicinai a lui e lo abbracciai. Era il fratello migliore del mondo.
“Allora, che malattia grave hai contratto?” mi domandò.
“Oh, non posso dirtelo,” sussurrai. “È talmente grave che la diagnosi è ancora riservata!” E, dicendoglielo, gli morsi l’orecchio. Lui cercò di mandarmi via, con le sue piccole manine che allontanavano il mio volto.
Allora non sapevo quanto avessi ragione. Allora non sapevo quanto mi sarebbero poi mancate le sue mani nel mio volto, la sua risata contro la mia.
 
Feci gli esami il giorno dopo: un’infermiera con i capelli ricci e neri raccolti in un’elegante chignon mi aveva legato un tubicino attorno al braccio e aveva cominciato a prelevare fialette di sangue cercando di distrarmi raccontandomi di come suo figlio volesse diventare un astronauta. Io continuavo a guardare nauseata il sangue che usciva con difficoltà dal mio braccio e che andava a riempire le fiale, una dopo l’altra.
Poi ero uscita e, un po’ dolorante, mi ero diretta a scuola, aspettando l’autobus davanti all’ospedale.
Il mio liceo era poco lontano da lì, un grandissimo edificio color rosa in cui venivano studenti di tre indirizzi diversi: scientifico, linguistico e psicopedagogico. Eravamo molti, noi studenti, ma io conoscevo solo alcuni di quelli del mio piano; il resto era una serie di volti per lo più sconosciuti.
Aspettai impazientemente il suono della campanella che dava inizio alla seconda ora, per poter entrare in classe. Avevo saltato l’ora di inglese; poco male, era una delle poche materie in cui potevo dire di non aver problemi di alcun tipo.
Ero lì che attendevo quando, improvvisamente, qualcuno mi diede una pacca sulla spalla. Mi girai, presa alla sprovvista, e mi trovai di fronte un ragazzo moro, alto, con gli occhi azzurri e con un sorriso stampato in faccia.
“Ciao,” mi disse. “Che ci fai fuori?”
“Ciao Francesco,” lo salutai. Le mie gambe quasi non mi reggevano in piedi per vederlo davanti a me, così bello, così intrigante. “Sono andata a fare gli esami del sangue, entro ora,” gli spiegai, mostrandogli il cotone che copriva il punto in cui mi avevano bucata. “Tu invece?”
“Vado al bagno,” disse, indicandomi la strada che stava facendo. “Tutto bene? Hai dovuto fare gli esami per qualcosa di particolare?” Era preoccupato, il suo sopracciglio era leggermente alzato e i lineamenti un po’ corrucciati. Solo il fatto che lui si interessasse tanto a come stavo mi fece sentire estremamente meglio.
Esitai un momento prima di rispondere: non volevo mentirgli, ma allo stesso tempo non avevo intenzione né di farlo preoccupare né di parlare dei problemi fisici che mi stavano colpendo. Avevo paura di leggere qualcosa nel suo volto, avevo paura di vedere una reazione come quella di mio padre; avevo paura che non sarei più riuscita a mangiare accanto a lui senza che lui mi guardasse in modo strano o comunque diverso dal solito.
Non poteva sapere. Almeno non fino a quando non saremmo stati sicuri noi per primi di cosa mi stava accadendo.
“Niente di che, esami di routine,” minimizzai quindi, cercando di fingere un sorriso. Mi squadrò per un momento, ma parve convincersi perché abbozzò un sorriso. Si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia, facendomi avvampare.
“Devo andare,” sussurrò, andandosene verso il bagno mentre la campanella risuonava, “ho verifica. Buona giornata, Ari.”
“Anche a te, Francesco! E buona fortuna,” gli sorrisi, mentre la porta della mia classe si apriva e la professoressa di inglese usciva.
“Buongiorno,” la salutai, composta.
Quasi non mi notò, nella fretta di andarsene. Entrai in aula salutando i miei compagni distrattamente e andando a sedermi in fondo, vicino a Laura, che era così concentrata a ripassare italiano che quasi non si accorse del mio arrivo.
“Non mi ricordo niente! Mi bocceranno!” piagnucolò non appena mi sedetti accanto a lei. Era una brava ragazza, solo che non riusciva a ricordarsi le cose, nonostante ci mettesse tutto l’impegno possibile. Era continuamente in ansia per le interrogazioni, nelle quali non riusciva a esprimersi a dovere e che le rovinavano già la sua discreta media. Nonostante tutto, però, se l’era sempre cavata fino ad allora ed ero convinta che ce l’avrebbe fatta anche quell’anno.
“Dai, Laura,” la spronai, “non è niente di impossibile. Machiavelli?”
Annuì. “Lui e la sua stupida verità effettuale.”
“Non è difficile,” la incoraggiai.
Mi ignorò completamente, continuando a snocciolare informazioni che, ne ero certa, si sarebbe dimenticata da lì a cinque minuti.
Mi stiracchiai e tirai fuori dalla mia cartella i libri di matematica, mentre il professore entrava in classe e diceva di aprire le finestre.
Mentre Laura si dirigeva nei banchi davanti pronta al patibolo, io tolsi il cotone dal gomito, trattenendo un gemito per il dolore dello stacco del cerotto dalla pelle. Sembrava che stessi togliendo la pelle stessa. Non avevo idea di quante volte avrei dovuto ripetere quel gesto dopo allora; non avevo idea che lentamente avrei tolto tutta la mia pelle, assieme alla gioia, alla speranza, alla vita.



{ Spazio HarryJo.
Scusate. Scusate, scusate, scusate; dovete infinitamente scusarmi. Lo so che sono due settimane che non aggiorno, ma posso spiegarvi: all'inizio la mia connessione non funzionava più - problemi col computer - poi ho avuto una serie di problemi con la scuola, perché avevo verifiche e interrogazioni ogni giorno e in questi ultimi due giorni sono stata male - scrivo questo da sotto alle coperte, tossendo ogni due minuti.
Perciò... scusate.
Al momento posso dirvi che credo che aggiornerò il prossimo capitolo sabato, considerando i vari impegni. Se sabato non riesco ad aggiornare, temo che dovrete aspettare dopo il 6 dicembre, perché dal 2 al 6 vado a Roma a trovare Sara, MedusaNoir qui su EFP.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto: a me non piace particolarmente, anche se introduce la figura di Francesco, che sarà molto rilevante ai fini della storia. Inoltre, anche la madre di Arianna come vedrete avrà il suo peso e Mattia... beh, per me è sempre una dolcezza infinita *-*
Bene, a presto, e scusatemi ancora tantissimo per il tempo che vi ho fatto aspettare ç_ç Spero che l'attesa sai valsa la pena!
A presto, ringrazio tutti quelli che mi seguono - siete tanti! - che mi recensiscono - siete degli amori! - che mi hanno inserita tra i preferiti - siete dei tesori! - e tra i ricordati - siete unici!
E dopo questa serie di ringraziamenti, me ne vado a prendere un Oki.
Un cuoricino a tutti voi,

Erica 
 ♥

   
 
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