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Autore: crushdizzies    26/11/2012    2 recensioni
"Il corpo non è nulla senza l’anima.
È solo un contenitore vuoto, e un contenitore vuoto è inutile.
Il corpo senza l’anima si sgretola, come i castelli di sabbia colpiti dal vento.
Non rimane niente. Solo polvere.
E io, senza Joan, sono solo polvere."
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO QUATTRO SOLO POLVERE
"Jaimie, verresti a vedere un mio allentamento di pallacanestro?", chiede Joan.
Siamo nel giardino del retro di casa mia, i miei non ci sono e mia sorella è in camera sua che studia per un esame che dovrà dare la settimana prossima all’università. Joan è sdraiata sull’erba, la testa appoggiata sul mio grembo.
Io sono seduta, puntellata sui gomiti, la sigaretta in bocca e il fumo che si perde nel cielo azzurro quasi invernale.
"Fai pallacanestro? Non me l’hai mai detto…", le dico stupita.
"Sì. Non ho idea perché non te lo avessi mai detto… forse mi vergognavo!", esclama. Io rido. È diventata tutta rossa.
"Quand’è questo allenamento?", chiedo fingendomi disinteressata.
"Sabato dalle quattro alle sei", dice e ci manca poco che incrocia le dita. Ci tiene davvero.
"Hmmm, è domani… vedrò se riesco a farci un salto", dico. Lei sorride contenta. Io mi piego e la bacio.
Poi butto il mozzicone della sigaretta nell’erba del giardino e mi sdraio a contemplare il cielo solcato da nuvole leggere.
Joan si alza dal mio grembo e si sdraia accanto a me, poggiandomi un braccio sulla pancia e chiude gli occhi, come per dormire.
Io mi volto verso di lei e la bacio di nuovo. È così bella.
"Jaim?", mi chiama Joan per attirare la mia attenzione.
"Dimmi".
"Se tu dovessi morire, qual è l’ultima cosa che faresti?", mi chiede. Arrossisco.
"Joan, che domande fai?", esclamo.
"Rispondi", ordina imperterrita.
"Tu cosa faresti?", le chiedo a mia volta.
"Ma te l’ho chiesto prima io!", ribatte aprendo gli occhi e poggiando la testa sulla mano che tiene sollevata puntellata sul gomito.
"Rispondi", ordino imitandola. Lei ride.
"Ti bacerei", dice sorridendo.
"Anche io Joanie", dico e metto le mani sotto la mia nuca.
Joan posa la sua mano sinistra sul mio sterno e poi, lentamente avvicina il suo volto al mio, finché le nostre labbra non si incontrano in un bacio. Qualcuno dietro di noi si schiarisce la voce e Joan sussulta balzando lontano da me.
Io mi tiro su di scatto e mi volto, per poi sospirare di sollievo. È solo Becky.
"Mi hai spaventata", mormoro.
"Stanno per tornare mamma e papà", avverte mia sorella. Io mi alzo e Joan fa lo stesso.
Usciamo dal cancelletto e montiamo sulla moto che era già pronta per qualsiasi eventualità. Riporto Joan a casa.
Sono stanca di tutta questa segretezza.

Sabato pomeriggio verso le cinque e mezza parto da casa e mi dirigo alla palestra dove Joan fa l’allenamento di basket.
Sono partita apposta a quest’ora, così da arrivare verso la fine dell’allenamento e fare un’entrata da superstar.
Immagino il nodo allo stomaco che deve avere Joan nell’attesa che io arrivi, sperando che la porta della palestra si apra e che io ne entri con il casco in mano e una sigaretta in bocca, come al solito. La immagino sbagliare tutti i canestri.
Ma vedo anche il suo sorriso quando varcherò realmente la porta della palestra, la vedo già corrermi in contro e baciarmi. Sorrido, accendo una sigaretta ed entro nella palestra.
Un rumore di scarpe fischianti sul linoleum arancione mi accoglie.
"Joan, che fai? Non sei qui per dormire, sei qui per segnare!", esclama l’allenatrice che è una donna dai capelli biondi legati in un’alta coda di cavallo. Dapprima nessuno fa caso a me e così riesco a raggiungere le tribune e appoggiare il casco su una panca.
L’allenatrice si gira vero di me, irritata.
"Non sai leggere?", chiede indicando un punto alle mie spalle. Io mi volto verso il cartello “vietato fumare” appeso proprio dietro di me.
Mi vengono in mente circa venti modi diversi per mandarla a ‘fanculo, ma Joan interviene prima che possa anche solo aprire bocca.
"Jaim!", esclama. È in piedi dietro all’allenatrice con il pallone in mano, vestita con un paio di pantaloni larghi e una canottiera.
Non riesco a fare a meno di notare l’espressione entusiasta del suo volto.
"Sei venuta!", dice. Butta via la palla e corre verso di me saltando le transenne che dividono il campo dalle tribune con grande agilità.
Joan mi abbraccia e affonda il capo fra la mia testa e la mia spalla.
"Certo che sono venuta…", mormoro. Sento lo sguardo minaccioso dell’allenatrice perforarmi.
"E’ meglio se torni a giocare o la tua allenatrice mi ammazza", dico. Lei sorride.
"Spegni la sigaretta, Jaim ", dice. Io la guardo sofferente ma le ubbidisco.
Butto per terra la sigaretta e la spengo schiacciandola con la scarpa. L’allenatrice ringhia di rabbia e io sorrido divertita.
Anche Joan sorride dolce.
"Cambierai mai, Jaim?", mi chiede. Io la guardo negli occhi.
"Sono già cambiata", le dico accarezzandola. Lei arrossisce e sorride, abbassando lo sguardo.
"Già", mormora Joan. Poi torna a giocare, voltandosi indietro a guardarmi, forse per controllare che non me ne fossi già andata.
Per gli ultimi trenta minuti di allenamento Joan gioca splendidamente, segnando un canestro dopo l’altro.
Poi l’allenatrice soffia nel fischietto con potenza e le giocatrici si arrestano.
"Doccia!", esclama la donna. Scendo dalle tribune e vado verso Joan.
"Joan", la chiama l’allenatrice. Joan si ferma, l’allenatrice le mette una mano sulla spalla.
"Domani vorrei che giocassi come hai giocato nell’ultima mezz’ora. Non hai mai giocato così bene. Sai quanto la partita di domani sia importante per noi e non possiamo permetterci di perdere. Però devi giocare bene per tutta la partita, non solo per metà", si raccomanda l’allenatrice. Joan sorride e mi lancia un’occhiata rapida che non sfugge all’allenatrice.
"E tu", dice l’allenatrice rivolgendosi a me "chiunque tu sia, domani devi essere alla partita perché in un qualche modo la tua presenza ha influito sul modo di giocare di Joan. Non aveva mai giocato così bene", commenta.
Io sorrido e mi avvio verso gli spogliatoi assieme a Joan.
"Sei davvero bravissima", le dico. Lei fa spallucce.
"Solo perché c’eri tu. L’ha detto anche Agnes, l’allenatrice", dice Joan. Io sbuffo.
Come se la mia presenza potesse cambiare qualcosa nel corso di una partita.
Joan apre la porta dello spogliatoio e fa per entrare, poi, quando si accorge che non la seguo si volta verso di me, tenendo la porta aperta.
"Vuoi entrare?", mi chiede. Io arrossisco.
"Ehmmm", mormoro.
"Dai, non ci metterò molto. Devo solo farmi la doccia", esclama.
Ecco, è proprio per questo che non voglio entrare. Arrossisco ancora di più per le fantasie che affollano la mia mente.
Non faccio in tempo a dire niente che Joan mi tira dentro.
Mi siedo su una panchina e la osservo mentre prepara le cose per farsi la doccia.
Poi comincia a spogliarsi e io abbasso lo sguardo imbarazzatissima e mi fisso le mani.
"Che c’è, ti vergogni?", chiede Joan entrando nella doccia e aprendo l’acqua.
Dopo cinque minuti lo scroscio dell’acqua si arresta.
"Mi passeresti l’accappatoio?", chiede e vedo solo con la coda dell’occhio che sta indicando l’attaccapanni di fronte a lei.
Afferro l’accappatoio e glielo passo ma non posso fare a meno di buttare un’occhiata.
Divento immediatamente bordeaux e mi siedo sulla panchina accanto alla doccia.
"Quante storie per un paio di tette…", borbotta Joan divertita.
Si veste rapida, si sposta davanti agli specchi, dove c’è un ripiano munito di phon ed’inizia ad asciugarsi i capelli.
Le altre della squadra si stanno già infilando le giacche, pronte per andare via: non avevo mai visto nessuno metterci così poco tempo a cambiarsi.
Così, ben presto, io e Joan rimaniamo sole.
Mi appoggio al ripiano pieno di phon e la guardo assorta mentre si asciuga i capelli castani dai riflessi rossicci sotto la luce artificiale del neon.
"Cosa guardi?", chiede arrossendo lievemente. Io sorrido e, di scatto, la bacio. Lei sorride a sua volta per la dolcezza della sorpresa.
"Domani verrai?", mi chiede. Io fingo di pensarci.
"Sì", dico infine ridendo quando Joan tira un sospiro di sollievo.
Appena finisce di asciugarsi i capelli usciamo dalla palestra e la riaccompagno a casa con la moto.
La bacio dolcemente davanti alla porta di casa e, sollevando gli occhi, mi accorgo che la luce della cucina è accesa e la tenda scostata: qualcuno ci sta spiando dalla casa di Joan.
"Porca puttana!", esclamo. Mi infilo il casco e scappo via.
Arrivata a metà strada tra casa mia e casa di Joan, il senso di colpa mi assale: ho lasciato Joan da sola con suo padre, suo padre che ci stava spiando, suo padre che non osavo nemmeno immaginare che cosa avrebbe potuto fare a Joan, solo perché è innamorata di me, solo per un bacio.
Aspetto anche troppo tempo prima di decidermi a chiamarla, ho sempre troppa paura.
Prendo il telefono, faccio il numero ma chiudo immediatamente la comunicazione.
Mi odio per quello che ho fatto, abbandonare Joan è stato da vigliacchi e la mia coscienza mi mostra la mia codardia, e l’immagine di Joan sola sulla porta.
Ma cosa avrei dovuto fare? Portarla con me? Ci avrebbe messe ancora di più nei casini.

Verso mezzanotte prendo il motorino e vado a casa di Joan.
Parcheggio all’inizio della strada e cammino fino alla sua casa, il cuore che batte impazzito per la paura.
Spero che, nel peggiore dei casi, il reverendo mi scambi per un ragazzo: indosso una giacca di finta pelle nera e i miei capelli neri sono abbastanza corti. Mi metto sotto la finestra della stanza di Joan e comincio a lanciare dei sassi contro il vetro.
Si accende la luce della stanza e io mi tengo pronta a scappare nel caso in cui si fosse affacciato il reverendo. Per fortuna è Joan.
Sorrido ma lei sbuffa e fa per chiudere la finestra.
"No Joan!", urlo. Lei mi lancia un’occhiataccia e mi intima di abbassare la voce.
"Scendi ti prego!", sussurro. Lei scuote la testa facendo segno di no. Arrabbiata, tiro un calcio al muro.
"Joan!", ripeto.
"Vieni tu se è così importante!", mi sfida spalancando la finestra. Io sorrido. Mi sottovaluta.
Aggrappandomi alle mattonelle che sporgono e alla grondaia, riesco a raggiungere la finestra della sua stanza, al secondo piano.
"Che cosa vuoi Jaim?", chiede dopo che sono entrata nella sua stanza. Non è per niente impressionata dalla mia scalata a mani nude.
Mi guardo intorno, non sono mai entrata qua prima: è una camera semplice, solo un letto, un armadio e una scrivania sommersa da libri e cianfrusaglie.
Sul comodino al lato del letto, scorgo una mia foto incorniciata. La prendo in mano e la osservo più da vicino.
"Non ci posso credere…", mormoro "tuo padre non l’ha vista questa?", le chiedo incredula.
Lei arrossisce, mi tira via la cornice dalle mani e la nasconde in uno dei cassetti del comodino.
"Mio padre non entra mai qua senza il mio permesso", dice.
"Che cosa vuoi, Jaim?", ripete. Io abbasso lo sguardo. È arrabbiata con me, sapevo che non sarei dovuta scappare lasciandola così.
"Joan, mi dispiace tanto. Lo so, sono stata una vigliacca. Perdonami", imploro appoggiandomi all’armadio.
Non oso alzare lo sguardo, so che è lì in piedi davanti a me, a braccia conserte, nemmeno so se mi sta ascoltando.
"Perché sei scappata?", mi chiede.
"Ho avuto troppa paura", ammetto.
"Mi hai lasciata lì, da sola. Credi che io non fossi spaventata?", chiede dura Joan, facendo aumentare i miei sensi di colpa.
Mi sento sprofondare e i miei occhi si riempiono di lacrime.
"Joan…", la supplico.
"Mi sento da schifo per quello che ho fatto e…", mi muore la voce in gola, non so più come andare avanti.
Distrutta, mi lascio scivolare lungo l’anta dell’armadio e mi siedo per terra, la testa stretta tra le mani, le lacrime che mi rigano le guancie.
Joan sbuffa e si siede accanto a me, abbracciandomi.
"Sì, dai… ti perdono…", mormora. Io mi abbandono tra le sue braccia e scoppio a piangere sulla sua spalla.
"Mi dispiace tanto Joan", mormoro fra i singhiozzi. Lei mi accarezza i capelli e io pian piano mi calmo.
"Come l’ha presa tuo padre?", le chiedo terrorizzata dalla risposta. Cerco sul suo volto e sul corpo qualche livido ma non trovo nulla.
I suoi occhi mi sorridono sereni.
"Diciamo che ce la siamo cavata bene. Hai i capelli corti e ti ha vista di sfuggita, perciò ha creduto che tu fossi un ragazzo", confessa.
Io le sorrido. Mi ero preoccupata per nulla. Tiro un sospiro di sollievo, mi alzo e mi siedo ai piedi del letto. Joan mi raggiunge.
"Però…", comincia Joan leggermente preoccupata.
"Però cosa?", le chiedo, il cuore di nuovo in subbuglio. Lei mi prende la mano e intreccia le sue dita alle mie.
"Ha visto la tua moto", mormora. Il mio cuore perde un colpo. La mia moto è semplicemente unica.
Di quella marca, quel modello, quel colore, ce ne sono poche, anzi, pochissime.
"Cos’ha detto della mia moto?", chiedo spaventata.
"Mi ha detto: “ma quella moto è rarissima, non ce ne sono molte in giro”. E poi ha aggiunto: “non ne ha una anche la tua amica Jaimie?”", racconta Joan imitando la voce del padre.
"E tu cosa hai risposto?".
"Gli ho detto che ce l’avete uguale e lui sembra averla bevuta", dice. Io sospiro.
"Speriamo ", mormoro. Mi sdraio sul letto senza però lasciare la sua mano. Joan si sdraia accanto a me e mi abbraccia.
Rimaniamo così per un po’, poi mi tiro su e la bacio.
"Credevo che fossi scappata perché…", dice Joan ma non finisce la frase. Io sorrido.
"Perché pensavi che fossi scappata? ", chiedo incuriosita.
"Temevo che non mi amassi più ", risponde dopo un secondo di silenzio. Io rido.
"Non avevo visto mio padre! ", esclama arrossendo.
"Non credo che potrei smettere di amarti da un secondo all’altro ", mormoro dolcemente.
Mi metto sopra di lei appoggiando le mani accanto alla sua testa.
Poi, lentamente avvicino le mie labbra alle sue, finché non si incontrano in un bacio.
Lei si solleva leggermente e mi bacia, affondando le mani nei miei capelli.
Mi bacia ancora e ancora, il mio cuore che palpita impazzito, le sue mani che bollono sulla mia pelle.
Apro gli occhi e resto a guardarla per un po’ poi riprendo a baciarla.
Joan ha già il fiatone e le sue mani corrono rapide prima alla mia giacca, poi alla mia maglietta e me le sfilano. Rido.
"Che vuoi fare? ", le chiedo agitata. Lei sorride e mi bacia. Poi, all’improvviso, si blocca trattenendo il fiato.
"Che c’è? ", chiedo impaurita.
Lei si solleva di scatto e io scendo dal letto.
"Mio padre ", sussurra tendendo l’orecchio in ascolto. Si sente un cigolio proveniente dalle scale.
"Te ne devi andare ", mormora Joan e mi spinge verso la finestra.
Mi aggrappo ai mattoni come posso e, non appena sono abbastanza vicina al suolo, mi lascio andare sull’erba e mi nascondo dietro ad un cespuglio. Per fortuna Joan non ha cani.
Sento la porta della sua camera aprirsi e suo padre entrare.
"Ancora sveglia? ", chiede il reverendo.
"Sì…", mormora Joan ma il reverendo la interrompe bruscamente prima che possa inventarsi qualsiasi tipo di scusa.
"Questa roba? ", chiede burbero l’uomo.
Lo so per certo, sta tenendo in mano la mia giacca e la mia maglia.
Un alito di vento mi fa rabbrividire: sono in giardino con in dosso solo il reggiseno.
"La stavo rimettendo a posto ", mente Joan, la voce che trema leggermente.
Il reverendo Green cammina per la stanza lentamente come se fosse alla ricerca di qualcosa. Si ferma davanti alla finestra aperta.
"Non vorrai ammalarti ", dice afferrandone le ante. I
l suo sguardo vaga per il cortile e mi sembra quasi che si soffermi sul cespuglio dietro al quale sono nascosta.
Trattengo il fiato terrorizzata.
Poi, quando la finestra viene chiusa e la tenda tirata, esco da dietro il cespuglio, scavalco il cancelletto e corro lungo la strada deserta verso la moto, gelando per il freddo.
Questa volta c’è mancato davvero poco e, di nuovo, sono scappata dal pericolo, lasciando Joan sola con suo padre, una delle cose che mi terrorizza più al mondo.
Verrà mai un giorno in cui potremo essere chi siamo, amare chi vogliamo, senza sentirci giudicati e costantemente in pericolo?



















  
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