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Autore: Alpheratz    27/11/2012    2 recensioni
Matteo ha 17 anni, 206 ossa, 175 cm di altezza e 45 chili di peso. I suoi sogni di adolescente, sfrattati e massacrati da parte di una morbosa ricerca dell'approvazione altrui. Anoressia che progressivamente sfocia in un vero e proprio sacrificio umano.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Resto sdraiato sul letto e fisso il soffitto.
Papà è stato categorico: non posso uscire di casa. Devo rimanere qui e riposare finché non mi sentirò meglio.
Ma che mi frega, tanto fra una decina di minuti papà uscirà per andare al lavoro. Non sarò più sotto il suo controllo e potrò fare tutto quello che mi pare.
Ho bisogno di fare una passeggiata e di prendere aria: così, dopo essere rimasto per un po’ da solo in camera mia, vado all’ingresso, apro la porta ed esco.
Strafottente.
Cammino per le strade della città, una città vecchia e brutta che pare sia stata prosciugata di tutti i suoi colori. L’asfalto e le strade sono grigie, i palazzi sono grigi, le automobili sono grigie. Sollevo gli occhi e guardo il cielo: grigio anche quello.
Cinquanta sfumature di grigio, come il titolo del libro che sta leggendo Lucia.
Ripensare alla mia amica mi provoca una fitta al cuore. Ho ricordi molto confusi di ieri sera, credo di essere svenuto sul pianerottolo di fronte al suo appartamento. Tutto ciò che mi viene in mente è la sua voce affannata. Per il resto, nient’altro che immagini confuse ed evanescenti.
Le mando un messaggio, anche se so che non risponderà perché a quest’ora è a scuola, dove dovrei essere anch’io.
Con mia grande sorpresa, poco dopo sento un trillo provenire dalla tasca dei jeans.
“Dove sei? Mi manchi”.
Sorrido.
Lucia è come una mamma per me.
Digito una risposta frettolosamente mentre faccio dietrofront e mi riavvio verso casa. Mi sento particolarmente stanco, forse papà aveva ragione a volermi tenere a letto.
Decido di passare attraverso i giardini pubblici, mi siedo qualche minuto su una panchina. Ho fame, non ho fatto colazione, ma devo controllarmi, devo resistere.
Frugandomi nella tasca trovo un vecchio biglietto tutto stropicciato. Fatico a riconoscerlo, ma basta qualche minuto e mi rendo conto che si tratta del biglietto aereo della mia ultima gita scolastica. Che strano, penso: ero convinto di averlo già inserito nel Quaderno.
Il Quaderno è un enorme raccoglitore dove tengo tutti i frammenti di episodi che per me hanno avuto un qualche significato: cartine turistiche di città che mi sono piaciute, biglietti di treni e di concerti, i disegni di Lucia, persino l’involucro del primo e unico preservativo che ho usato. E poi fotografie di mamma: tante, tantissime.
Ogni tanto me le riguardo tutte per imprimere meglio nella mia memoria la sua immagine; ho sempre paura che un giorno o l’altro il suo volto decida di svanire e che io mi ritrovi ancora più solo.
Del Quaderno non ho mai detto nulla a nessuno: è roba da froci, mi sentirei rispondere. Solitamente sono le ragazze ad avere questi attacchi di nostalgia che le spronano a collezionare di tutto, anche gli oggetti più miseri ed insignificanti; i ragazzi invece sono dei duri, i ragazzi guardano al futuro, i ragazzi sono forti e di certo non hanno tempo per star dietro a queste frivolezze. I ragazzi non sono deboli, non si lasciano condizionare dal loro passato.
Non capisco in me cosa sia andato storto.

Di ritorno dal parco incontro Alex, un mio vecchio amico.
Non mi sorprendo affatto di vederlo: sono più le mattine trascorse in sella allo scooter che quelle passate seduto dietro un banco di scuola.
Lui sostiene che si impari molto di più scorrazzando in giro che chiusi dentro ad un edificio-prigione, dove tutto quello che si può fare è rompersi la schiena sui libri per riempirsi il cervello di storie già vissute da altri.
Ci convincono a seguire delle strade già tracciate, ad uniformarci a dei modelli già impostati, ripete sempre Alex. In un certo senso ha ragione, ma io sono troppo vigliacco per comportarmi come lui. Non avrei mai il coraggio di fregarmene degli altri.
- Niente scuola, oggi, eh Matteo? – ridacchia lui non appena mi vede. Indossa un paio di jeans strappati aderenti ed un giubbotto di pelle, gli abiti che si addicono allo stereotipo del ragazzaccio. Gli manca solo la sigaretta in bocca, ma lui non fuma perché dice che il fumo ti rende schiavo e lui non è lo schiavo di nessuno.
Io scuoto la testa e lui incalza: - Paura dell’interrogazione?
La mia risposta è di nuovo negativa. – No, la scuola non c’entra. Sono svenuto ieri sera.
Ricevo un fischio di ammirazione. – Wow. Si, in effetti non hai una bella cera. Sei anche dimagrito un sacco.
Rieccoci. Rieccoci con questa storia. Serro le labbra e tendo i muscoli del collo e delle spalle. Emetto un sibilo, a malapena udibile.
- Dai – continua Alex, scherzoso. – Ci penso io a farti ingrassare come si deve. Una birra, una spaghettata ogni tanto …
- No, grazie – taglio corto io, secco.
- Eppure dovresti pensarci seriamente, Matteo, stai diventando uno scheletro. Sembri quasi anoressico.
No, no, no. Ecco la parola che non avevo alcuna voglia di ascoltare. ANORESSICO. Un’etichetta, una minaccia. Una malattia.
- Non sono anoressico – asserisco subito, forse più per convincere me stesso che Alex. – Sono solo un adolescente che sta imparando a dominarsi. Grasso com’ero e come tuttora sono, non posso sperare di avere alcuna possibilità. I grassi non arrivano da nessuna parte. E io no, io non voglio fare quella fine. Non voglio cadere nel buio. Io voglio essere qualcuno.
Alex mi guarda come se fossi matto. Poi allunga la mano e mi da un’energica pacca sulla spalla.
- Senti, amico mio, non so chi ti abbia messo in testa queste cazzate, ma è meglio che ti sbrighi a tornare sui tuoi passi. Cosa stai cercando di ottenere? L’approvazione di una società del cazzo, pronta a sputarti sopra qualsiasi gesto tu compia? Usa un po’ quel bel cervello che ti ritrovi e rifletti: ne vale la pena?
- SI! – rispondo automaticamente io, ansimando. Si, ne vale la pena. Io ho bisogno di approvazione, io ho bisogno di amore. Altrimenti non sarò mai nessuno. Io sono nessuno. Io sono niente.
- Oh cielo, Matteo, ma ti senti quando parli? – boccheggia allora Alex, sputacchiando. – Stai annientandoti, deficiente che non sei altro, te ne rendi conto? Ti stai … ti stai uccidendo!
Tremo di fronte a queste provocazioni. Mi tappo meccanicamente le orecchie, abbasso la testa. Il discorso di Alex è come una pioggia di fuoco.
- Cosa pensi? Pensi che le ragazze ti verranno dietro, quando sarai magro abbastanza da scomparire? Pensi che tutti vorranno essere tuoi amici dopo aver visto le tue costole? Commerci i loro sorrisi con l’esposizione delle tue vertebre, è questo che vuoi? Sei proprio fuori strada, Matteo. Ti sei bevuto il cervello, completamente. Continua di questo passo, e poi vedi che bel gruppo di ragazzine ti salterà addosso. Non avrai nemmeno la forza di scoparci.
Detto questo, rimonta in sella al suo scooter e se ne va.
La rabbia mi assale, circola nelle mie vene come l’Eroina, mi manda in tilt, mi strozza, si riversa nella mia bocca abbastanza violentemente da spezzarmi tutti i denti. Mi infilo nel primo bar che trovo e ordino cornetti, biscotti, tutto quello che le mie tasche possono permettersi. Divoro il cibo con furia, dilanio la sfoglia con i miei canini omicidi, spezzo, ingurgito, mastico, non riesco a fermarmi.
Poi esco, di corsa. Affondo le mie unghie nello stomaco, desideroso di spalancarlo e di strappare via dal mio corpo tutto quello che ha dentro. Ho le lacrime agli occhi, mi appoggio al muro di un palazzo. Due dita in gola, e vomito tutto.
Una chiazza di schifoso vomito grigio in un mondo grigio nascosto da un cielo grigio. Un cielo grigio che si fa sempre più nero, come il mio umore e come il mio sangue.
 
  
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