MARZIA
…pare che abbia avuto un
affetto solo,quello per una certa Marzia che,
essendo cristiana, non si
capisce come conciliasse la sua fede
austera con quell’amante debosciato…
(I.Montanelli “Storia di
Roma”)
Ormai
i miei occhi vedono poco, ma filare si può anche ad occhi chiusi, e in qualche
modo debbo pagare i miei debiti a coloro che si occupano di me. Carità
cristiana, la chiamano: un dovere per guadagnarsi il paradiso, che non gli
basta a non inchinarsi nemmeno a raccogliere la conocchia quando mi scivola
dalle mani o ad insultarmi se lo spessore del filo è disuguale. Vorrei
potermene andare, ma ho ottant’anni e sono quasi cieca.Me ne andrò, e presto,
questo è sicuro; ma intanto non c’è più posto, nel mondo, per me, se non qui;
né altre vesti diverse da questi stracci, o cibo che non siano gli avanzi della
loro tavola, o parole che non siano i loro insulti. Sono quasi cieca, è vero, e
sento anche poco, ma è come se annusassi l’odore del loro disprezzo.
Non vivrò ancora a lungo, l’ho detto, ma non temo la
morte: la sofferenza mi ha purificata abbastanza, e poi prego. Per gli altri,
non per me che non ho futuro. Prego spesso che Dio conservi a lungo il nostro
giovane Imperatore: Alessandro Severo è ancora un ragazzo, ma è buono e saggio.
Da lui non verrà alcun male a quelli che, come me, credono nel vero Dio. C’è
chi dice che sia cristiano in segreto,e
non so se crederci. Adorare gli antichi
dei non equivale necessariamente ad essere scellerati, men che meno essere
cristiano significa avere l’animo mondo di ogni malvagità. Mi hanno
chiamata per oltre sessant’anni la
puttana del tiranno e, con quel poco di
udito che l’età non mi ha tolto, li sento chiamarmi così ancora adesso: tutti,
anche il diacono Saturnino, che la domenica serve messa con tanta devozione e
che, nel racconto di Luca l’Evangelista, ha sicuramente letto di come Cristo
perdonò a Maddalena i suoi peccati, anche se non può, non vuole o non riesce a
perdonare i miei.
Ho visto la luce negli anni del Cesare Marco Aurelio
Antonino. Mio padre, che si era trasferito ancora ragazzo da Tivoli a Roma, era
un plebeo, ma si era arricchito fabbricando e commerciando corde. Vivevamo
nell’Aventino, in una “domus” che nulla
aveva da invidiare a quelle dei patrizi e dei cavalieri e la mia nutrice, una donna
di Corinto, mi aveva insegnato il greco. Ero una graziosa bambina, e promettevo
di diventare una bella ragazza. A suo tempo, mi sarei accasata con il buon
partito che i miei genitori avrebbero scelto per me, o avrei deciso di
consacrare al Signore la mia verginità, come facevano parecchie fanciulle
cristiane. I miei lo erano entrambi, e non avrebbero ostacolato una scelta del
genere, perché l’uomo non può impunemente modificare quelli che sono i disegni
di Dio.
I tempi di pace e prosperità, i tempi del Cesare
Antonino Pio (un pagano che Dio potrebbe aver accolto tra i suoi eletti, tanto
grande era stata la sua rettitudine) erano ormai lontani. Il suo successore,
designato dall’Imperatore e confermato dal Senato non per legami di sangue ma
per le sue comprovate virtù, era Marco Aurelio: un uomo saggio e istruito, uno
stoico che si proponeva di domare la
volontà mortificando il suo corpo e che sicuramente non credeva in
quell’accozzaglia di favole buone per i bambini e per gli sciocchi che era la
Vecchia Religione. Chi, come me, l’avesse veduto, non avrebbe mai pensato a lui
come al padrone del mondo: rifiutava di ostentare i segni della regalità e,
anche nel fiore degli anni, aveva l’aspetto emaciato di un vecchio. Forse
perché, studioso e uomo di pace, avrebbe preferito non essere schiacciato dal
peso del Potere. Frequentava il Circo unicamente perché costretto dai suoi
doveri di rappresentanza, in realtà disprezzava quegli spettacoli sanguinari
tanto amati dalla plebaglia. Chiudeva gli occhi di fronte all’infedeltà di sua
moglie, di cui tutta Roma era a conoscenza. E amava di un amore disperato i
suoi figli,arroganti e viziati come la loro madre, soprattutto l’unico maschio:
Commodo.
Dai tempi di Nerone, di cui i vecchi raccontavano
cose che sapevano per averle sentite raccontare, bambini, dai loro vecchi, noi
cristiani abbiamo spesso conosciuto la persecuzione. I tiranni ci
perseguitavano per crudeltà, per il gusto di vedere un essere umano morire tra
i tormenti, bruciato, squartato, impalato, crocifisso, dato in pasto alle
bestie…Non erano diversi dai loro sudditi, Nerone o Domiziano. Quella della
religione era una scusa, un pretesto per divertirsi vedendo schizzare sangue
innocente. Ma anche Imperatori di cui si è lodata la saggezza ci hanno reso la vita
difficile. Eravamo considerati dei ribelli portatori di idee pericolose perché
abbiamo sempre sostenuto che a Cesare sono dovuti la fedeltà, il rispetto e i
tributi, ma l’adorazione spetta solo a Dio. Rifiutavamo di chiamare Augusto il
nostro sovrano e di inginocchiarci adoranti di fronte ai suoi simulacri. Questo
atteggiamento è stato pagato con la vita da molti di noi. Marco Aurelio, forse
proprio perché non credeva in niente e percepiva quasi come intollerabile il
peso della corona che gli cingeva la testa, ha tenuto nei nostri confronti un
atteggiamento accettabile: se non ti mettevi in mostra e cercavi di fare al
meglio il tuo dovere, nessuno ti avrebbe dato fastidio. Sarebbe durata? Si
pregava perché durasse, ma senza troppa convinzione. E c’erano anche i fanatici
che lo desideravano, quel martirio tra i tormenti che gli avrebbe scardinato le
porte del Paradiso.
Mio padre continuava a fabbricare e a vendere corde,
mia madre a pregare filando la lana, la mia nutrice di Corinto a insegnarmi il
greco. Il tempo passava. E, sempre più spesso, il vento penetrava ululando
attraverso la porta spalancata del tempio di Giano, perché i barbari del Nord
incalzavano ai confini e bisognava respingerli.
Non sono state quelle guerre continue a rovinare la mia famiglia. Anzi, le macchine belliche abbisognano di corde e la guerra ci avrebbe ulteriormente arricchiti, com’era capitato a tanti. Ma una malattia misteriosa logorava la salute di mio padre: tossiva, sputava sangue, aveva sempre un po’ di febbre e non era più in condizioni di lavorare. Non ci mise molto a morire, e dopo sei mesi appena, mia madre lo seguì nella tomba. Avevo dieci anni soltanto, e mi ritrovavo sola. I miei fratelli e le mie sorelle maggiori, tutti sistemati lontano da Roma, non potevano farsi carico di me. Dei beni di famiglia, non mi erano rimasti che pochi gioielli dozzinali: come tutte le matrone cristiane, mia madre detestava caricarsi d’oro e d’argento. E qualche soldo di dote che mi avrebbe consentito, di lì a un paio d’anni, un dignitoso matrimonio, magari con un vedovo carico d’anni e di figli più grandi di me, che fosse stato disposto a prendersi in casa, per amor di Dio, una bambina rimasta senza niente e nessuno.
Ero stata accolta dai parenti di mia madre e la mia
vita era cambiata dal giorno alla notte. Si stava stipati in sette in un’insula
del Velabro, un posto pieno di puzza e di rumore, e scendere in strada
significava, quando andava bene, imbattersi in cani randagi, mendicanti
cenciosi e vecchie prostitute dalle parrucche gialle, le facce dipinte e le
carni flaccide. Ma mio zio Lucio, un brav’uomo, in fondo, con il suo lavoro di
facchino non poteva permettersi di meglio. I miei pochi soldi e i miei poveri
gioielli vennero dilapidati in alcuni mesi, sicché non avrei potuto sperare più
neppure nel matrimonio di comodo con un vecchio. In fondo, la cosa non mi
dispiacque. Pregavo spesso, forse più per dimenticare lo squallore di
quell’esistenza che per sincera devozione, almeno agli inizi; più tardi,
maturai la decisione di consacrarmi a Dio, pur nella certezza che a mio zio
l’idea di dover mantenere in casa sua vita natural durante una vergine
inacidita non sorridesse più di tanto: lui avrebbe preferito che mi sposassi e
me ne andassi fuori dai piedi, ma era cristiano e sapeva che è peccato
contrastare la volontà del Signore. Almeno, finché dal Nord non giunse la
notizia che il nostro Imperatore che amava la meditazione e la pace, durante
l’ennesima campagna contro i Germani,
era stato stroncato dalle febbri prima di poter designare, come dal Cesare
Nerva in poi avevano fatto coloro che lo avevano preceduto, un successore degno
e capace.
Al nuovo Cesare l’autorità tornò a venire dal
sangue, com’era accaduto dai tempi di Ottaviano a quelli funesti del crudele
Domiziano. Il costume iniziato dal vecchio Nerva, che tanti buoni frutti aveva
dato, fu cancellato da Marco Aurelio, forse non per sua colpa, avendolo la
morte colto all’improvviso. Commodo era un ragazzo di vent’anni, incolto,
manesco e dal turpiloquio pronto. I soldati lo credevano coraggioso, perché fin
da bambino era solito combattere
nell’arena con i gladiatori e accarezzava a mani nude le tigri e i leoni. Suo
padre, un filosofo prestato malvolentieri agli intrighi della politica, aveva
nonostante ciò sempre affrontato con coraggio le numerose guerre del suo regno
turbolento. Il figlio,invece, appena salito al trono, aveva stipulato con i
Germani una pace vergognosa: la guerra non erano i Giochi ad armi spuntate
perché il Principe non doveva farsi male, e i barbari del Nord non erano fiere
incatenate. Aveva fretta di tornare a Roma, ai suoi duelli con le armi
spuntate, alle sue tigri legate al guinzaglio, al serraglio di donne d’ogni
colore adibite ai suoi diletti. Era diverso in tutto, anche nell’aspetto,
dall’austero ed emaciato Marco Aurelio: alto, biondo, talmente prestante da
essere soprannominato “Ercole Imperiale”; doveva essere vero quello che si era
sempre sussurrato a mezza voce tra i nobili come tra la plebe: sua madre, la
bella e frivola Faustina,non lo aveva concepito con il suo imperiale consorte
ma con un gladiatore sarmata. Erano parecchie le matrone di qualità che,
stanche dei mariti, solevano concedersi piaceri proibiti con quei poveretti
destinati a farsi ammazzare per il sollazzo della plebaglia. Il popolino,
tanto, lo avrebbe osannato e applaudito,
avvezzo com’era ormai a qualsiasi mascherata e rabbonito da elemosine e
giochi; in quanto ai senatori non avrebbero osato alzare la testa, perché con
Tigidio Perenne e le sue guardie pretoriane c’era poco da scherzare. Sembra di essere tornati ai tempi di Nerone.
Si diceva a bassa voce. Che ne sarebbe stato di noi cristiani?
-Sei una bella ragazza, Marzia.
In me non c’era mai stata molta vanità, perciò mi
riusciva difficile credere alle parole di mia zia Plautilla. Come potevo essere
bella, con indosso quella tunica ingiallita a forza di bucati e senza neanche
un gioiello? I miei capelli, ricciuti come quelli di un’africana, erano castano
scuri, quasi neri, come gli occhi, grandi e brillanti sotto un paio di sopracciglia
folte. Le statuarie donne del Nord, di cui favoleggiavano i legionari di
ritorno dalla guerra, avevano introdotto a Roma la moda dei capelli biondi: chi
non li aveva così di natura, li nascondeva sotto complicate parrucche, o
schiariva il loro bruno naturale con l’aiuto di pestilenziali intrugli che
puzzavano quanto un intero caseggiato della Suburra e mandavano in fiamme il
cervello. E siccome le bellezze celtiche e germaniche erano molto più alte di
noi romane, era entrato nell’uso aumentare la propria statura calzando
coturni simili a quelli degli attori.
Io non potevo permettermi niente di tutto questo, né m’importava più di tanto
apparire diversa da com’ero: non mi servivano gioielli e artifizi per essere
amata dal mio Sposo celeste.
-Una bella ragazza come te non merita di consumare
la sua vita nella solitudine, Marzia. Tuo zio ed io ti daremo a un uomo. E non
a uno qualsiasi.
Aprii bocca per dire qualcosa, ma zia Plautilla mi
zittì.
-Il presbitero ti ha dispensata dai tuoi voti.
Ammesso che avessero valore, dei voti pronunciati a undici anni. Vieni qui,
avvicinati.
Mi abbracciò stretta, mi baciò entrambe le guance.
Poi mi fece spogliare e mi lavò con acqua profumata. Mi rinvestì con la sua
tunica di sposa, mi mise al collo una catena d’argento con un pendente d’ambra
e mi sciolse i capelli. Ma l’immagine che lo specchio rimandò indietro non
m’inorgoglì poi molto, tanto mi apparve ordinaria e sciatta.
-Sappi, figlia mia, che agli occhi di un pagano non
c’è profumo che equivalga quello della virtù, non c’è ornamento più attraente
della modestia d’una vergine cristiana…
A sedici anni, sarei andata sposa. Il presbitero mi
aveva dispensata dal voto di castità. Dalle parole di mia zia, capii di essere
stata destinata ad un pagano.
La lettiga, sostenuta da quattro enormi schiavi nubiani neri come il carbone, venne sul
far della sera a portarmi via. Non mi lasciarono quasi il tempo di salutare gli
zii e i cugini, ma non riuscii a leggere in fondo ai loro occhi quel grande
dolore. Erano contenti di essersi liberati di una bocca da sfamare, e il pagano
che mi aveva chiesta in moglie doveva aver sborsato denaro sonante per potermi
prendere con sé. Un brivido mi percorse il corpo al pensiero di quello che mi
attendeva. Non sapevo niente della vita, ma erano stati anche i sospiri e i
lamenti che sentivo ogni notte oltre la sottile paratia che separava il cubicolo dove dormivo dalla loro stanza a
farmi decidere di restare vergine per sempre. Il presbitero Cornelio, che mi aveva sciolto dai voti,
prima che salissi sulla portantina, mi aveva stretto forte i polsi e detto che
il destino dei cristiani di Roma era nelle mie mani. Era quasi buio, ma avevo
notato ugualmente l’espressione tesa della sua vecchia faccia. Ogni volta che
un nuovo Cesare saliva i gradini del trono, lo spettro della persecuzione
tornava ad affacciarsi nella mente dei seguaci di Cristo. Io stessa, pur
avendone sentito parlare solo dai racconti dei vecchi, ero terrorizzata da una
possibile evenienza del genere: non sono mai stata coraggiosa, temo il giudizio
di Dio, ma temo anche l’angoscia e il
dolore del trapasso. Sarei stata in grado di affrontare il fuoco, la spada o i
denti delle belve? Avevo sentito dire che, per non so quale curiosa
superstizione, i romani non mandavano mai a morte le vergini. Ma anche che le
poverette decapitate, o gettate al fuoco e alle bestie, prima venivano stuprate
dai loro carnefici.
Mi guardai le mani: erano un po’ sciupate, ma belle,
piccole e sottili. In quelle piccole mani pallide e senza anelli avrei dovuto stringere
il destino dei miei correligionari, a dar retta alle parole del presbitero
Cornelio. Come, mi dicevo da me sola. Come? Non ero che una piccola ragazza, e
andavo sposa, a dispetto della mia volontà. Una piccola ragazza povera, avvolta
nella tunica nuziale di sua zia, con i capelli sciolti e l’unico ornamento di
un gioiello dozzinale appeso al collo. Sospettavo che mi avessero comprata e
che gli zii e i cugini non avrebbero impiegato molto a dilapidare quel pugno
d’oro. Doveva essere stato un vecchio, a comprarmi sborsando denaro sonante,
come si fa con una schiava.
No, non era un vecchio. Era sui trent’anni, bruno,
ricciuto, piccolo di statura. Vestiva con ricercata eleganza, e pronunciava le
parole strascicandole. Un greco. Un liberto che aveva fatto fortuna, come
spesso capitava. Si presentò come Ecletto, e mi chiamò sua sposa. Il suo
comportamento nei miei riguardi era
però piuttosto strano: pur gentile, non mi fece oggetto della tenerezza che è
lecito aspettarsi da un fresco sposo. Forse, la zia Plautilla aveva esagerato
in piaggeria definendomi bella, quel greco raffinato doveva essere abituato a
ben altro che a una ragazzetta dall’aspetto comune e dall’abbigliamento
ordinario, e sicuramente s’era pentito d’avermi presa in moglie.
-Vivrai con me.
Vissi con lui come una sorella, perché mai si degnò
di esercitare su di me i suoi diritti coniugali, né di sfiorarmi soltanto, con
una carezza o un bacio innocente. In un certo senso, gliene fui grata. Non mi
fece mancare nulla e, con lui, cominciai a conoscere e ad apprezzare il lusso:
bei vestiti, gioielli, profumi, mantelli foderati di pelliccia per combattere
il freddo dell’inverno. Mi insegnò a truccarmi e ad acconciarmi e cominciai a
conoscere e ad apprezzare anche l’immagine che gli specchi di bronzo lucido
rimandavano indietro di me: quella di una donna affascinante e raffinata, alla
quale sarebbe stato difficile resistere per qualsiasi uomo. Ma non per mio
marito.
Ecletto era un personaggio importante: cubicolario
dell’Imperatore in persona. Un giorno l’avrei conosciuto, mi promise, ma quel
pensiero non era per me fonte di gioia e nemmeno di curiosità. L’avevo
incontrato, qualche volta, un bel giovane biondo, grosso e forte, abbigliato
con un lusso pacchiano che mio marito disprezzava, anche se non avrebbe mai
osato dirglielo: si accendeva come una torcia per un nonnulla, e le sue erano
collere pericolose. Aveva una splendida moglie, Crispina, che gli era stata
imposta da suo padre e che lui detestava. E un intero serraglio di concubine
con cui sostituirla. Donne provenienti da ogni angolo della terra, le avevo
viste: sarmate bionde come il grano e nubiane più nere della notte, greche,
egizie, siriache, indiane, forse le più belle. E una creatura strana, come non
ne avevo mai viste: piccola come una bambina, la pelle d’alabastro, i crini
neri di una puledra iberica invece dei capelli e due fessure scintillanti
invece degli occhi. Veniva, me l’aveva detto lei stessa, da un Paese lontano,
che chiamava Chung Kuo e parlando pigolava come un passerotto di nido. Avevano
tutte tra i quattordici e i vent’anni, e rappresentavano un campionario delle
più splendide bellezze dell’Impero e di oltre confine. Ma al Cesare Commodo non
bastavano a scordare Crispina che non amava o Annia Lucilla, che avrebbe voluto
amare, non fosse stata del suo stesso sangue. “Quell’uomo si è infatuato di sua
sorella, come Caligola”. Mi diceva Ecletto, parlando a bassa voce.
Ormai avevo dimenticato chi ero stata e fatto
l’abitudine alla mia nuova vita: ai gioielli, alle tuniche di bisso, alla
polvere d’oro nei capelli, ai lunghi manti foderati con pelli di martora e di
ermellino, al bistro e ai profumi. Ma anche al vizio, che vedevo, sentivo,
respiravo nell’aria e riconoscevo, malgrado nessuno, neppure mio marito, mi
avesse mai toccata e fossi ancora intatta. Ecletto, che pure era un uomo
istruito, mite e gentile, non amava me e non amava le donne perché peccava di
sodomia con i giovinetti; l’Imperatore, come tutti coloro che gli stavano
vicino, era un uomo debosciato e corrotto, dedito ai piaceri perversi della
carne e del sangue, giocatore, bevitore, compagno di bagordi dei peggiori
elementi di tutta quanta la città. I
tempi erano quelli che erano e, anche se non mi fosse stato consigliato da Ecletto,
avrei evitato accuratamente qualsiasi atteggiamento che potesse indurre al
semplice sospetto che ero cristiana. Tigidio Perenne, il prefetto del Pretorio, non amava i miei
correligionari e la possibilità di una nuova persecuzione si respirava nell’aria. L’Imperatore non si occupava di politica,
preso com’era dai suoi giochi atletici e dalle sue gozzoviglie, lasciando
completamente libero il campo a quel mostro. Non dimenticherò mai il giorno in
cui, per la prima volta, assistetti ai ludi nell’Anfiteatro Flavio. Ai
Cristiani era proibito presenziare a
quegli spettacoli: si rischiava la scomunica; ma io dovevo fingere di non
esserlo. Non so come non svenni, quando vidi una decina tra ragazze e
giovinetti cercare di fuggire come potevano, incalzati da un branco di mastini
britannici inferociti dalla fame e dalle percosse. Ribelli cristiani, mi si
disse. Morirono tutti atrocemente: io sarei potuta essere dei loro.
Lo vidi alzarsi dal suo triclinio, venirmi incontro
sorridente. Non c’era malvagità, nei suoi occhi azzurri dall’espressione ingenua
e un po’ vacua: non era facile crederlo quel che si diceva. Aveva passato i
vent’anni, mi superava quindi di poco. E a suo padre non assomigliava davvero
in niente: l’abitudine all’esercizio fisico aveva modellato superbamente il suo
corpo robusto. I capelli e la barba biondi, la pelle molto chiara, dovevano
venirgli dal suo vero genitore, il gladiatore sarmata che s’era sollazzato con
l’Imperatrice prima d’impregnare con il suo sangue la sabbia dell’Anfiteatro.
Eppure, Marco Aurelio doveva averlo amato disperatamente…Se amare significa non
correggere a suon di vergate gli errori dei figli. Se amare significa regalare, in punto di morte, un
potere immenso ad un uomo indegno. Se amare significa rifiutare la realtà
…Eppure tutti, anche i miei correligionari, avevano sempre lodato la saggezza
del Cesare Marco Aurelio.
-Le somigli. Sei identica a lei.
Disse solo queste parole, prima di strapparmi la
tunica di dosso e di gettarsi su di me. Mi imposi di pensare ad altro per non
vomitare, mentre l’Imperatore mi stuprava. A chi somigliavo? Non alla moglie
Bruttia Crispina, che aveva i capelli fulvi. Ad Annia Lucilla, che voleva e non
poteva avere. Ad Annia Lucilla, che era piccola e bruna, come me. Ad Annia
Lucilla che, in un momento di rabbia, aveva bandito da Roma. Ad Annia Lucilla,
la sua sorella maggiore.
L’avevo visto piangere, quando mi prendeva. A me,
dopo il dolore della prima volta, la nausea era passata, ma avevo imparato a
fingere il piacere, come le prostitute. Sapevo che, se lo avessi assecondato, lo
avrei avuto completamente in mio potere.
Essere stato il primo lo inorgogliva. Dal resto, se
lo aspettava, che “quel greco finocchio” non si fosse comportato con me come un
marito dovrebbe comportarsi con sua moglie. D’altronde, non fosse stato quello
che era, non avrebbe affidato il delicato incarico di cubicolario ad
Ecletto.”Non metterei una volpe a guardia delle mie galline”.Lo diceva sempre.
Chiamava così le donne adibite ai suoi piaceri, le bellezze d’ogni colore che
riempivano il suo serraglio. Ma io ero diversa. Provava affetto, per me, era
perfino capace di tenerezza. Se glielo avessi chiesto, mi avrebbe regalato il
mondo, ma Ecletto mi aveva suggerito d’accontentarmi di molto meno.
-Tigidio Perenne trama contro di te, domine.
Non fu necessario fornirgli le prove perché Commodo,
come tutti i tiranni, era sospettoso. E il giorno dopo, invece del solito
gioiello d’inestimabile valore, ricevetti in dono la testa del Prefetto del
Pretorio su un piatto d’argento, come Salomè dopo la sua danza provocante
dinnanzi ad Erode. I giovinetti sbranati dai cani nell’Anfiteatro Flavio erano
stati vendicati.
Il capo delle guardie di palazzo venne sostituito
senza esitazioni con un altro tra i compagni di bagordi dell’Imperatore, un
liberto frigio di nome Cleandro, un losco figuro dallo sguardo bieco e dal naso
rotto, a cui Commodo diede in appalto il terrore con cui si sarebbero dovute
reprimere le congiure vere o presunte ai danni della sua sacra persona: in
verità, dai tempi del pazzo Caligola, nessuno tra i tiranni che il sangue o il
caso avevano collocato sul trono era morto nel suo letto, circondato
dall’affetto dei parenti e dal rimpianto dei sudditi: Caligola,
Nerone,Domiziano, tutti quanti erano stati assassinati. Commodo non aveva torto
a sospettare di tutti e di tutto.
-I pericoli alla tua vita non ti vengono dai
Cristiani.
-Che, lo sei anche tu?
Aveva detto così, prima di crollare addormentato,
ubriaco fradicio di Falerno non diluito. Ma, da allora, i miei correligionari
erano stati lasciati in pace. La testa di Tigidio. L’impunità per i Cristiani. Era stato generoso di doni, con
me, l’Imperatore. Gliene avrei chiesti altri, e li avrei ottenuti, perché mi
amava, me lo aveva confidato durante una delle nostre notti. E da un uomo
innamorato è possibile ottenere tutto.
Dubitavo che avrei conosciuto l’amore, quello vero.
Con l’Imperatore fingevo soltanto, ed Ecletto era quello che era, la volpe
castrata a guardia del pollaio di Commodo. Ma tutti mi temevano e mi
rispettavano, e questo mi bastava. Un giorno, mi capitò d’incontrare per caso
il presbitero Cornelio. Mi baciò la mano piangendo, poi fuggì via senza dirmi
niente, come quei Cristiani che, all’Anfiteatro, avevo visto correre in tondo
inseguiti dai cani. Sorrisi tra me e me,abbassando la tendina della lettiga con
la destra carica di anelli: piangeva l’innocenza di Marzia, la vittima sacrificale, la pia giovinetta cristiana
data in pasto al mostro per stornare il pericolo della persecuzione? Piangeva
per il futuro della mia anima, per la mia più che sicura dannazione eterna? O
era in segno di riconoscenza per quel che avevo fatto, che baciava, bagnandola
di lacrime, la mia mano sporca di sangue, di sperma e di fango? Per quel che mi
aveva fatto, avrei potuto ordinare all’uomo più potente della terra, che scodinzolava
ai miei piedi come un cagnolino, di farmi avere, su un piatto d’argento, anche
la testa di quel vecchio ipocrita. Mi accontentai di ridere forte, ma lui ormai
era sgattaiolato via e non doveva avermi sentito.
Già, dubitavo che avrei conosciuto l’amore, e non me
ne importava più di tanto, fino al giorno in cui i miei occhi incrociarono lo sguardo di Quinto Emilio Leto. Era uno sguardo scuro e penetrante, nel quale
leggevo il desiderio, quando si posava su di me. Quell’uomo mi voleva, anche se
era pericoloso volere la concubina dell’Imperatore: per lui e per me. Ho già
detto che non sono mai stata una donna coraggiosa: ma la passione può metterti
in condizioni di fare quello che non vorresti.
Leto era bello, intelligente e ambizioso. Infatuata
com’ero, non mi accorgevo che mi manovrava, esattamente come io riuscivo a
manovrare l’Imperatore. Per lui, ottenni da Commodo la testa dello spregevole
Cleandro e la carica di Prefetto del Pretorio. Per lui, ignara dei rischi che
correvo, iniziai a frequentare coloro che, contro l’Imperatore, avevano preso a
congiurare: il giureconsulto Didio Giuliano, che covava l’ambizione di
sostituirsi a lui sul trono, il valoroso generale Pertinace, il patrizio Flavio
Sulpiciano. Commodo è pazzo, dicevano. Commodo, con le sue indegne mascherate,
è la vergogna di Roma. Finché Commodo siederà sul trono, nessuno,nemmeno i suoi
più accaniti sostenitori, potrà dirsi al sicuro dal pericolo. Era vero: schiavo
del vino e dei suoi vizi, pazzo quanto lo era stato Caligola, l’Imperatore
avrebbe trascinato con sé nella rovina tutta Roma, se qualcuno non lo avesse
fermato. Si diceva che, come Nerone, volesse distruggere l’Urbe con il fuoco
per rifondarla con il nome di Colonia Lucia Antoniana Commodiana. Pretendeva di
identificarsi ora in Ercole, ora in Giove, ora in Marte o in qualche altro nume
pagano, e come i numi pagani giocava con la vita dei poveri mortali. Presiedeva
le assemblee del Senato armato di clava e coperto solo da una pelle di leone o
in armatura da reziario. Imbolsito e ingrossato dal vino e dagli stravizi, non
era più nemmeno un gran bello spettacolo a vedersi, ma sembrava non rendersi
conto di quanto fosse diventato ridicolo. Il suo ultimo capriccio era
l’intenzione di unirsi carnalmente alla
Vergine Vestale: un sacrilegio che ben difficilmente Roma gli avrebbe
perdonato.
Nemmeno io, la
donna alla quale continuava a dirsi legato da profondo affetto, mi sarei
potuta dire al sicuro, finché quel pazzo avesse continuato a camminare sopra la
terra. E men che meno l’uomo che amavo disperatamente. Mi giunsero all’orecchio
diverse voci secondo cui ero in pericolo:Commodo non si fidava più di nessuno,
neppure di me. Dovevo agire, e in fretta. Ecletto mi suggerì l’arma del veleno:
subdola, silenziosa ed efficace. Alcuni veleni procurano rapidamente una morte
che qualunque medico non avrebbe dubbi a classificare come naturale. A Roma è
facile procurarsi qualsiasi cosa, compreso quello di cui avevo bisogno: una
pozione inodore, incolore e insapore, e soprattutto mortifera, che gli avrei
propinato, il giorno stesso, con una coppa di aspro vino Falerno, al suo
ritorno dalla scuola dei gladiatori al Celio. Sarebbe stata una megera della
Tessaglia, una “venefica” famosa per le sue male arti, a fornirmela, dietro
lauto compenso, e,soprattutto, senza imbarazzarmi con domande indiscrete.
Commodo strabuzzò gli occhi e si portò le mani alla
gola. Aveva la faccia sudata e congestionata, ma con il Falerno aveva vomitato
anche il veleno. Non è facile morire a trent’anni, ma, se fosse sopravvissuto,
per me sarebbe stata la fine. E anche per l’uomo che amavo e per i miei amici. E anche per parecchi Cristiani
dell’Impero. Urlai con tutto il fiato che avevo finché non vidi accorrere
Narcisso. Non volli guardarlo mentre lo uccideva, e mi premetti le mani
sulle orecchie per non sentirlo dire
che strangolare Commodo era stato più facile che tirare il collo a una gallina.
Guardai il terrore di Roma, Commodo il pazzo a cui sarebbe stata negata la
sepoltura e la cui memoria sarebbe stata dannata:grande, grosso e inoffensivo
come un bianco bue sgozzato sull’altare del sacrificio. Voltai la testa
dall’altra parte, e piansi.
Alla morte di Commodo, che non aveva lasciato eredi
diretti, seguirono alcuni mesi di tumulti e di anarchia che precipitarono Roma
nel caos, finché il comandante delle legioni di Pannonia, Lucio Settimio
Severo, con la complicità dei militari non prese il potere, deciso a tenerselo
ben stretto. Settimio Severo era un Libio scuro di pelle, che parlava il latino
con accento fenicio e i cui antenati dovevano aver combattuto contro Roma sotto
il comando di Annibale: com’è strana, la vita. Era un duro, e promise che avrebbe riportato l’ordine
nell’Impero a costo di dover usare il pugno di ferro. Mi conobbe, e mi
disprezzò con tutte le sue forze per quello che ero: donna, cristiana,
meretrice ed assassina. Ma non fosse stato per me, che gli avevo spianato la
strada verso il trono con la lussuria e il veneficio, non sarebbe arrivato
dov’era arrivato, e questo lo ammise finché visse: mi gratificò di una piccola
rendita e di una casetta modesta fuori Roma e, malgrado abbia perseguitato
spietatamente i miei correligionari, non permise mai a nessuno di torcermi un
capello. Quando morì, lasciò il trono al figlio Lucio Settimio Bassiano Caracalla che, alla stessa stregua di
Commodo, era bello, malvagio e crudele ma abbastanza intelligente da non
lasciarsi dominare dai suoi vizi. Chissà, se fossi ancora quella che sono
stata, potrei provare a sedurlo, e anche Caracalla scodinzolerebbe ai miei piedi come un cagnolino…Ma quei tempi non
erano più i miei. Ero diventata povera. E avevo le rughe, i denti guasti e i capelli grigi. Lo sfascio dell’Impero
dovevo limitarmi a contemplarlo da spettatrice cinica e disincantata. Non
gridai allo scandalo quando conobbi il successore di Caracalla, un ragazzino
biondo ed effeminato, che si faceva
chiamare Elagabalo, se ne andava in giro acconciato e truccato come una puttana
da trivio e, quel che è peggio, come tale si comportava. Ero abituata a certi
spettacoli, nessuna mascherata mi scandalizzava più, né scandalizzava i miei
concittadini.
Sono stata testimone dell’inizio della fine: non so
di quanto Alessandro Severo potrà ritardarla: anche se i giorni degli Imperi
sono i nostri anni, so per certo che non tarderà.
FINE