Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: lalla    05/07/2004    3 recensioni
Marzia Demetriade è un personaggio esistito davvero.Fu l'amante dell'imperatore Commodo e, anche se può sembrare strano, pare fosse cristiana. Non si sa molto di lei, il che, per dirla con Erica Jong nella postfazione del suo romanzo "Il salto di Saffo", è sicuramente una iattura per lo storico, ma anche una benedizione per il narratore...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
MARZIA

MARZIA

…pare che abbia avuto un affetto solo,quello per una certa Marzia che,

essendo cristiana, non si capisce come conciliasse la sua fede

 austera con quell’amante debosciato

(I.Montanelli “Storia di Roma”)

 

Ormai i miei occhi vedono poco, ma filare si può anche ad occhi chiusi, e in qualche modo debbo pagare i miei debiti a coloro che si occupano di me. Carità cristiana, la chiamano: un dovere per guadagnarsi il paradiso, che non gli basta a non inchinarsi nemmeno a raccogliere la conocchia quando mi scivola dalle mani o ad insultarmi se lo spessore del filo è disuguale. Vorrei potermene andare, ma ho ottant’anni e sono quasi cieca.Me ne andrò, e presto, questo è sicuro; ma intanto non c’è più posto, nel mondo, per me, se non qui; né altre vesti diverse da questi stracci, o cibo che non siano gli avanzi della loro tavola, o parole che non siano i loro insulti. Sono quasi cieca, è vero, e sento anche poco, ma è come se annusassi l’odore del loro disprezzo.

Non vivrò ancora a lungo, l’ho detto, ma non temo la morte: la sofferenza mi ha purificata abbastanza, e poi prego. Per gli altri, non per me che non ho futuro. Prego spesso che Dio conservi a lungo il nostro giovane Imperatore: Alessandro Severo è ancora un ragazzo, ma è buono e saggio. Da lui non verrà alcun male a quelli che, come me, credono nel vero Dio. C’è chi dice che sia  cristiano in segreto,e non so se crederci. Adorare  gli antichi dei non equivale necessariamente ad essere scellerati, men che meno essere cristiano significa avere l’animo mondo di ogni malvagità. Mi hanno chiamata  per oltre sessant’anni la puttana del tiranno  e, con quel poco di udito che l’età non mi ha tolto, li sento chiamarmi così ancora adesso: tutti, anche il diacono Saturnino, che la domenica serve messa con tanta devozione e che, nel racconto di Luca l’Evangelista, ha sicuramente letto di come Cristo perdonò a Maddalena i suoi peccati, anche se non può, non vuole o non riesce a perdonare i miei.

 

Ho visto la luce negli anni del Cesare Marco Aurelio Antonino. Mio padre, che si era trasferito ancora ragazzo da Tivoli a Roma, era un plebeo, ma si era arricchito fabbricando e commerciando corde. Vivevamo nell’Aventino, in una “domus”  che nulla aveva da invidiare a quelle dei patrizi e dei cavalieri e la mia nutrice, una donna di Corinto, mi aveva insegnato il greco. Ero una graziosa bambina, e promettevo di diventare una bella ragazza. A suo tempo, mi sarei accasata con il buon partito che i miei genitori avrebbero scelto per me, o avrei deciso di consacrare al Signore la mia verginità, come facevano parecchie fanciulle cristiane. I miei lo erano entrambi, e non avrebbero ostacolato una scelta del genere, perché l’uomo non può impunemente modificare quelli che sono i disegni di Dio.

 

I tempi di pace e prosperità, i tempi del Cesare Antonino Pio (un pagano che Dio potrebbe aver accolto tra i suoi eletti, tanto grande era stata la sua rettitudine) erano ormai lontani. Il suo successore, designato dall’Imperatore e confermato dal Senato non per legami di sangue ma per le sue comprovate virtù, era Marco Aurelio: un uomo saggio e istruito, uno stoico che si proponeva di domare la  volontà mortificando il suo corpo e che sicuramente non credeva in quell’accozzaglia di favole buone per i bambini e per gli sciocchi che era la Vecchia Religione. Chi, come me, l’avesse veduto, non avrebbe mai pensato a lui come al padrone del mondo: rifiutava di ostentare i segni della regalità e, anche nel fiore degli anni, aveva l’aspetto emaciato di un vecchio. Forse perché, studioso e uomo di pace, avrebbe preferito non essere schiacciato dal peso del Potere. Frequentava il Circo unicamente perché costretto dai suoi doveri di rappresentanza, in realtà disprezzava quegli spettacoli sanguinari tanto amati dalla plebaglia. Chiudeva gli occhi di fronte all’infedeltà di sua moglie, di cui tutta Roma era a conoscenza. E amava di un amore disperato i suoi figli,arroganti e viziati come la loro madre, soprattutto l’unico maschio: Commodo.

 

Dai tempi di Nerone, di cui i vecchi raccontavano cose che sapevano per averle sentite raccontare, bambini, dai loro vecchi, noi cristiani abbiamo spesso conosciuto la persecuzione. I tiranni ci perseguitavano per crudeltà, per il gusto di vedere un essere umano morire tra i tormenti, bruciato, squartato, impalato, crocifisso, dato in pasto alle bestie…Non erano diversi dai loro sudditi, Nerone o Domiziano. Quella della religione era una scusa, un pretesto per divertirsi vedendo schizzare sangue innocente. Ma anche Imperatori di cui si è lodata la saggezza ci hanno reso la vita difficile. Eravamo considerati dei ribelli portatori di idee pericolose perché abbiamo sempre sostenuto che a Cesare sono dovuti la fedeltà, il rispetto e i tributi, ma l’adorazione spetta solo a Dio. Rifiutavamo di chiamare Augusto il nostro sovrano e di inginocchiarci adoranti di fronte ai suoi simulacri. Questo atteggiamento è stato pagato con la vita da molti di noi. Marco Aurelio, forse proprio perché non credeva in niente e percepiva quasi come intollerabile il peso della corona che gli cingeva la testa, ha tenuto nei nostri confronti un atteggiamento accettabile: se non ti mettevi in mostra e cercavi di fare al meglio il tuo dovere, nessuno ti avrebbe dato fastidio. Sarebbe durata? Si pregava perché durasse, ma senza troppa convinzione. E c’erano anche i fanatici che lo desideravano, quel martirio tra i tormenti che gli avrebbe scardinato le porte del Paradiso.

Mio padre continuava a fabbricare e a vendere corde, mia madre a pregare filando la lana, la mia nutrice di Corinto a insegnarmi il greco. Il tempo passava. E, sempre più spesso, il vento penetrava ululando attraverso la porta spalancata del tempio di Giano, perché i barbari del Nord incalzavano ai confini e bisognava respingerli.

 

Non  sono state quelle guerre continue a rovinare la mia famiglia. Anzi, le macchine belliche abbisognano di corde e la guerra ci avrebbe  ulteriormente arricchiti, com’era capitato a tanti. Ma una malattia misteriosa logorava la salute di mio padre: tossiva, sputava sangue, aveva sempre un po’ di febbre e non era più in condizioni di lavorare. Non ci mise molto a morire, e dopo sei mesi appena, mia madre lo seguì nella tomba. Avevo dieci anni soltanto, e mi ritrovavo sola. I miei fratelli e le mie sorelle maggiori, tutti sistemati lontano da Roma, non potevano farsi carico di me. Dei beni di famiglia, non mi erano rimasti che pochi gioielli dozzinali: come tutte le matrone cristiane, mia madre detestava caricarsi d’oro e d’argento. E qualche soldo di dote che mi avrebbe consentito, di lì a un paio d’anni, un dignitoso matrimonio, magari con un vedovo carico d’anni e di figli più grandi di me, che fosse stato disposto a prendersi in casa, per amor di Dio, una bambina  rimasta senza niente e nessuno.

Ero stata accolta dai parenti di mia madre e la mia vita era cambiata dal giorno alla notte. Si stava stipati in sette in un’insula del Velabro, un posto pieno di puzza e di rumore, e scendere in strada significava, quando andava bene, imbattersi in cani randagi, mendicanti cenciosi e vecchie prostitute dalle parrucche gialle, le facce dipinte e le carni flaccide. Ma mio zio Lucio, un brav’uomo, in fondo, con il suo lavoro di facchino non poteva permettersi di meglio. I miei pochi soldi e i miei poveri gioielli vennero dilapidati in alcuni mesi, sicché non avrei potuto sperare più neppure nel matrimonio di comodo con un vecchio. In fondo, la cosa non mi dispiacque. Pregavo spesso, forse più per dimenticare lo squallore di quell’esistenza che per sincera devozione, almeno agli inizi; più tardi, maturai la decisione di consacrarmi a Dio, pur nella certezza che a mio zio l’idea di dover mantenere in casa sua vita natural durante una vergine inacidita non sorridesse più di tanto: lui avrebbe preferito che mi sposassi e me ne andassi fuori dai piedi, ma era cristiano e sapeva che è peccato contrastare la volontà del Signore. Almeno, finché dal Nord non giunse la notizia che il nostro Imperatore che amava la meditazione e la pace, durante l’ennesima campagna  contro i Germani, era stato stroncato dalle febbri prima di poter designare, come dal Cesare Nerva in poi avevano fatto coloro che lo avevano preceduto, un successore degno e capace.

 

Al nuovo Cesare l’autorità tornò a venire dal sangue, com’era accaduto dai tempi di Ottaviano a quelli funesti del crudele Domiziano. Il costume iniziato dal vecchio Nerva, che tanti buoni frutti aveva dato, fu cancellato da Marco Aurelio, forse non per sua colpa, avendolo la morte colto all’improvviso. Commodo era un ragazzo di vent’anni, incolto, manesco e dal turpiloquio pronto. I soldati lo credevano coraggioso, perché fin da bambino era  solito combattere nell’arena con i gladiatori e accarezzava a mani nude le tigri e i leoni. Suo padre, un filosofo prestato malvolentieri agli intrighi della politica, aveva nonostante ciò sempre affrontato con coraggio le numerose guerre del suo regno turbolento. Il figlio,invece, appena salito al trono, aveva stipulato con i Germani una pace vergognosa: la guerra non erano i Giochi ad armi spuntate perché il Principe non doveva farsi male, e i barbari del Nord non erano fiere incatenate. Aveva fretta di tornare a Roma, ai suoi duelli con le armi spuntate, alle sue tigri legate al guinzaglio, al serraglio di donne d’ogni colore adibite ai suoi diletti. Era diverso in tutto, anche nell’aspetto, dall’austero ed emaciato Marco Aurelio: alto, biondo, talmente prestante da essere soprannominato “Ercole Imperiale”; doveva essere vero quello che si era sempre sussurrato a mezza voce tra i nobili come tra la plebe: sua madre, la bella e frivola Faustina,non lo aveva concepito con il suo imperiale consorte ma con un gladiatore sarmata. Erano parecchie le matrone di qualità che, stanche dei mariti, solevano concedersi piaceri proibiti con quei poveretti destinati a farsi ammazzare per il sollazzo della plebaglia. Il popolino, tanto, lo avrebbe osannato e applaudito,  avvezzo com’era ormai a qualsiasi mascherata e rabbonito da elemosine e giochi; in quanto ai senatori non avrebbero osato alzare la testa, perché con Tigidio Perenne e le sue guardie pretoriane c’era poco da scherzare.  Sembra di essere tornati ai tempi di Nerone. Si diceva a bassa voce. Che ne sarebbe stato di noi cristiani?

 

-Sei una bella ragazza, Marzia.

In me non c’era mai stata molta vanità, perciò mi riusciva difficile credere alle parole di mia zia Plautilla. Come potevo essere bella, con indosso quella tunica ingiallita a forza di bucati e senza neanche un gioiello? I miei capelli, ricciuti come quelli di un’africana, erano castano scuri, quasi neri, come gli occhi, grandi e brillanti sotto un paio di sopracciglia folte. Le statuarie donne del Nord, di cui favoleggiavano i legionari di ritorno dalla guerra, avevano introdotto a Roma la moda dei capelli biondi: chi non li aveva così di natura, li nascondeva sotto complicate parrucche, o schiariva il loro bruno naturale con l’aiuto di pestilenziali intrugli che puzzavano quanto un intero caseggiato della Suburra e mandavano in fiamme il cervello. E siccome le bellezze celtiche e germaniche erano molto più alte di noi romane, era entrato nell’uso aumentare la propria statura calzando coturni  simili a quelli degli attori. Io non potevo permettermi niente di tutto questo, né m’importava più di tanto apparire diversa da com’ero: non mi servivano gioielli e artifizi per essere amata dal mio Sposo celeste.

-Una bella ragazza come te non merita di consumare la sua vita nella solitudine, Marzia. Tuo zio ed io ti daremo a un uomo. E non a uno qualsiasi.

Aprii bocca per dire qualcosa, ma zia Plautilla mi zittì.

-Il presbitero ti ha dispensata dai tuoi voti. Ammesso che avessero valore, dei voti pronunciati a undici anni. Vieni qui, avvicinati.

Mi abbracciò stretta, mi baciò entrambe le guance. Poi mi fece spogliare e mi lavò con acqua profumata. Mi rinvestì con la sua tunica di sposa, mi mise al collo una catena d’argento con un pendente d’ambra e mi sciolse i capelli. Ma l’immagine che lo specchio rimandò indietro non m’inorgoglì poi molto, tanto mi apparve ordinaria e sciatta.

-Sappi, figlia mia, che agli occhi di un pagano non c’è profumo che equivalga quello della virtù, non c’è ornamento più attraente della modestia d’una vergine cristiana…

A sedici anni, sarei andata sposa. Il presbitero mi aveva dispensata dal voto di castità. Dalle parole di mia zia, capii di essere stata destinata ad un pagano.

 

La lettiga, sostenuta  da quattro enormi schiavi nubiani neri come il carbone, venne sul far della sera a portarmi via. Non mi lasciarono quasi il tempo di salutare gli zii e i cugini, ma non riuscii a leggere in fondo ai loro occhi quel grande dolore. Erano contenti di essersi liberati di una bocca da sfamare, e il pagano che mi aveva chiesta in moglie doveva aver sborsato denaro sonante per potermi prendere con sé. Un brivido mi percorse il corpo al pensiero di quello che mi attendeva. Non sapevo niente della vita, ma erano stati anche i sospiri e i lamenti che sentivo ogni notte oltre la sottile paratia che separava il  cubicolo dove dormivo dalla loro stanza a farmi decidere di restare vergine per sempre. Il presbitero  Cornelio, che mi aveva sciolto dai voti, prima che salissi sulla portantina, mi aveva stretto forte i polsi e detto che il destino dei cristiani di Roma era nelle mie mani. Era quasi buio, ma avevo notato ugualmente l’espressione tesa della sua vecchia faccia. Ogni volta che un nuovo Cesare saliva i gradini del trono, lo spettro della persecuzione tornava ad affacciarsi nella mente dei seguaci di Cristo. Io stessa, pur avendone sentito parlare solo dai racconti dei vecchi, ero terrorizzata da una possibile evenienza del genere: non sono mai stata coraggiosa, temo il giudizio di Dio, ma temo  anche l’angoscia e il dolore del trapasso. Sarei stata in grado di affrontare il fuoco, la spada o i denti delle belve? Avevo sentito dire che, per non so quale curiosa superstizione, i romani non mandavano mai a morte le vergini. Ma anche che le poverette decapitate, o gettate al fuoco e alle bestie, prima venivano stuprate dai loro carnefici.

Mi guardai le mani: erano un po’ sciupate, ma belle, piccole e sottili. In quelle piccole mani pallide e senza anelli avrei dovuto stringere il destino dei miei correligionari, a dar retta alle parole del presbitero Cornelio. Come, mi dicevo da me sola. Come? Non ero che una piccola ragazza, e andavo sposa, a dispetto della mia volontà. Una piccola ragazza povera, avvolta nella tunica nuziale di sua zia, con i capelli sciolti e l’unico ornamento di un gioiello dozzinale appeso al collo. Sospettavo che mi avessero comprata e che gli zii e i cugini non avrebbero impiegato molto a dilapidare quel pugno d’oro. Doveva essere stato un vecchio, a comprarmi sborsando denaro sonante, come si fa con una schiava.

 

No, non era un vecchio. Era sui trent’anni, bruno, ricciuto, piccolo di statura. Vestiva con ricercata eleganza, e pronunciava le parole strascicandole. Un greco. Un liberto che aveva fatto fortuna, come spesso capitava. Si presentò come Ecletto, e mi chiamò sua sposa. Il suo comportamento  nei miei riguardi era però piuttosto strano: pur gentile, non mi fece oggetto della tenerezza che è lecito aspettarsi da un fresco sposo. Forse, la zia Plautilla aveva esagerato in piaggeria definendomi bella, quel greco raffinato doveva essere abituato a ben altro che a una ragazzetta dall’aspetto comune e dall’abbigliamento ordinario, e sicuramente s’era pentito d’avermi presa in moglie.

-Vivrai con me.

Vissi con lui come una sorella, perché mai si degnò di esercitare su di me i suoi diritti coniugali, né di sfiorarmi soltanto, con una carezza o un bacio innocente. In un certo senso, gliene fui grata. Non mi fece mancare nulla e, con lui, cominciai a conoscere e ad apprezzare il lusso: bei vestiti, gioielli, profumi, mantelli foderati di pelliccia per combattere il freddo dell’inverno. Mi insegnò a truccarmi e ad acconciarmi e cominciai a conoscere e ad apprezzare anche l’immagine che gli specchi di bronzo lucido rimandavano indietro di me: quella di una donna affascinante e raffinata, alla quale sarebbe stato difficile resistere per qualsiasi uomo. Ma non per mio marito.

 

Ecletto era un personaggio importante: cubicolario dell’Imperatore in persona. Un giorno l’avrei conosciuto, mi promise, ma quel pensiero non era per me fonte di gioia e nemmeno di curiosità. L’avevo incontrato, qualche volta, un bel giovane biondo, grosso e forte, abbigliato con un lusso pacchiano che mio marito disprezzava, anche se non avrebbe mai osato dirglielo: si accendeva come una torcia per un nonnulla, e le sue erano collere pericolose. Aveva una splendida moglie, Crispina, che gli era stata imposta da suo padre e che lui detestava. E un intero serraglio di concubine con cui sostituirla. Donne provenienti da ogni angolo della terra, le avevo viste: sarmate bionde come il grano e nubiane più nere della notte, greche, egizie, siriache, indiane, forse le più belle. E una creatura strana, come non ne avevo mai viste: piccola come una bambina, la pelle d’alabastro, i crini neri di una puledra iberica invece dei capelli e due fessure scintillanti invece degli occhi. Veniva, me l’aveva detto lei stessa, da un Paese lontano, che chiamava Chung Kuo e parlando pigolava come un passerotto di nido. Avevano tutte tra i quattordici e i vent’anni, e rappresentavano un campionario delle più splendide bellezze dell’Impero e di oltre confine. Ma al Cesare Commodo non bastavano a scordare Crispina che non amava o Annia Lucilla, che avrebbe voluto amare, non fosse stata del suo stesso sangue. “Quell’uomo si è infatuato di sua sorella, come Caligola”. Mi diceva Ecletto, parlando a bassa voce.

 

Ormai avevo dimenticato chi ero stata e fatto l’abitudine alla mia nuova vita: ai gioielli, alle tuniche di bisso, alla polvere d’oro nei capelli, ai lunghi manti foderati con pelli di martora e di ermellino, al bistro e ai profumi. Ma anche al vizio, che vedevo, sentivo, respiravo nell’aria e riconoscevo, malgrado nessuno, neppure mio marito, mi avesse mai toccata e fossi ancora intatta. Ecletto, che pure era un uomo istruito, mite e gentile, non amava me e non amava le donne perché peccava di sodomia con i giovinetti; l’Imperatore, come tutti coloro che gli stavano vicino, era un uomo debosciato e corrotto, dedito ai piaceri perversi della carne e del sangue, giocatore, bevitore, compagno di bagordi dei peggiori elementi di tutta quanta la città.  I tempi erano quelli che erano e, anche se non mi fosse stato consigliato da Ecletto, avrei evitato accuratamente qualsiasi atteggiamento che potesse indurre al semplice sospetto che ero cristiana. Tigidio Perenne, il  prefetto del Pretorio, non amava i miei correligionari e la possibilità di una nuova persecuzione si respirava nell’aria.  L’Imperatore non si occupava di politica, preso com’era dai suoi giochi atletici e dalle sue gozzoviglie, lasciando completamente libero il campo a quel mostro. Non dimenticherò mai il giorno in cui, per la prima volta, assistetti ai ludi nell’Anfiteatro Flavio. Ai Cristiani era proibito presenziare  a quegli spettacoli: si rischiava la scomunica; ma io dovevo fingere di non esserlo. Non so come non svenni, quando vidi una decina tra ragazze e giovinetti cercare di fuggire come potevano, incalzati da un branco di mastini britannici inferociti dalla fame e dalle percosse. Ribelli cristiani, mi si disse. Morirono tutti atrocemente: io sarei potuta essere dei loro.

 

Lo vidi alzarsi dal suo triclinio, venirmi incontro sorridente. Non c’era malvagità, nei suoi occhi azzurri dall’espressione ingenua e un po’ vacua: non era facile crederlo quel che si diceva. Aveva passato i vent’anni, mi superava quindi di poco. E a suo padre non assomigliava davvero in niente: l’abitudine all’esercizio fisico aveva modellato superbamente il suo corpo robusto. I capelli e la barba biondi, la pelle molto chiara, dovevano venirgli dal suo vero genitore, il gladiatore sarmata che s’era sollazzato con l’Imperatrice prima d’impregnare con il suo sangue la sabbia dell’Anfiteatro. Eppure, Marco Aurelio doveva averlo amato disperatamente…Se amare significa non correggere a suon di vergate gli errori dei figli. Se amare  significa regalare, in punto di morte, un potere immenso ad un uomo indegno. Se amare significa rifiutare la realtà …Eppure tutti, anche i miei correligionari, avevano sempre lodato la saggezza del Cesare Marco Aurelio.

-Le somigli. Sei identica a lei.

Disse solo queste parole, prima di strapparmi la tunica di dosso e di gettarsi su di me. Mi imposi di pensare ad altro per non vomitare, mentre l’Imperatore mi stuprava. A chi somigliavo? Non alla moglie Bruttia Crispina, che aveva i capelli fulvi. Ad Annia Lucilla, che voleva e non poteva avere. Ad Annia Lucilla, che era piccola e bruna, come me. Ad Annia Lucilla che, in un momento di rabbia, aveva bandito da Roma. Ad Annia Lucilla, la sua sorella maggiore.

 

L’avevo visto piangere, quando mi prendeva. A me, dopo il dolore della prima volta, la nausea era passata, ma avevo imparato a fingere il piacere, come le prostitute. Sapevo che, se lo avessi assecondato, lo avrei avuto completamente in mio potere.

Essere stato il primo lo inorgogliva. Dal resto, se lo aspettava, che “quel greco finocchio” non si fosse comportato con me come un marito dovrebbe comportarsi con sua moglie. D’altronde, non fosse stato quello che era, non avrebbe affidato il delicato incarico di cubicolario ad Ecletto.”Non metterei una volpe a guardia delle mie galline”.Lo diceva sempre. Chiamava così le donne adibite ai suoi piaceri, le bellezze d’ogni colore che riempivano il suo serraglio. Ma io ero diversa. Provava affetto, per me, era perfino capace di tenerezza. Se glielo avessi chiesto, mi avrebbe regalato il mondo, ma Ecletto mi aveva suggerito d’accontentarmi di molto meno.

-Tigidio Perenne trama contro di te, domine.

Non fu necessario fornirgli le prove perché Commodo, come tutti i tiranni, era sospettoso. E il giorno dopo, invece del solito gioiello d’inestimabile valore, ricevetti in dono la testa del Prefetto del Pretorio su un piatto d’argento, come Salomè dopo la sua danza provocante dinnanzi ad Erode. I giovinetti sbranati dai cani nell’Anfiteatro Flavio erano stati vendicati.

 

Il capo delle guardie di palazzo venne sostituito senza esitazioni con un altro tra i compagni di bagordi dell’Imperatore, un liberto frigio di nome Cleandro, un losco figuro dallo sguardo bieco e dal naso rotto, a cui Commodo diede in appalto il terrore con cui si sarebbero dovute reprimere le congiure vere o presunte ai danni della sua sacra persona: in verità, dai tempi del pazzo Caligola, nessuno tra i tiranni che il sangue o il caso avevano collocato sul trono era morto nel suo letto, circondato dall’affetto dei parenti e dal rimpianto dei sudditi: Caligola, Nerone,Domiziano, tutti quanti erano stati assassinati. Commodo non aveva torto a sospettare di tutti e di tutto.

-I pericoli alla tua vita non ti vengono dai Cristiani.

-Che, lo sei anche tu?

Aveva detto così, prima di crollare addormentato, ubriaco fradicio di Falerno non diluito. Ma, da allora, i miei correligionari erano stati lasciati in pace. La testa di Tigidio. L’impunità per  i Cristiani. Era stato generoso di doni, con me, l’Imperatore. Gliene avrei chiesti altri, e li avrei ottenuti, perché mi amava, me lo aveva confidato durante una delle nostre notti. E da un uomo innamorato è possibile ottenere tutto.

 

Dubitavo che avrei conosciuto l’amore, quello vero. Con l’Imperatore fingevo soltanto, ed Ecletto era quello che era, la volpe castrata a guardia del pollaio di Commodo. Ma tutti mi temevano e mi rispettavano, e questo mi bastava. Un giorno, mi capitò d’incontrare per caso il presbitero Cornelio. Mi baciò la mano piangendo, poi fuggì via senza dirmi niente, come quei Cristiani che, all’Anfiteatro, avevo visto correre in tondo inseguiti dai cani. Sorrisi tra me e me,abbassando la tendina della lettiga con la destra carica di anelli: piangeva l’innocenza  di Marzia, la vittima sacrificale, la pia giovinetta cristiana data in pasto al mostro per stornare il pericolo della persecuzione? Piangeva per il futuro della mia anima, per la mia più che sicura dannazione eterna? O era in segno di riconoscenza per quel che avevo fatto, che baciava, bagnandola di lacrime, la mia mano sporca di sangue, di sperma e di fango? Per quel che mi aveva fatto, avrei potuto ordinare all’uomo più potente della terra, che scodinzolava ai miei piedi come un cagnolino, di farmi avere, su un piatto d’argento, anche la testa di quel vecchio ipocrita. Mi accontentai di ridere forte, ma lui ormai era sgattaiolato via e non doveva avermi sentito.

 

Già, dubitavo che avrei conosciuto l’amore, e non me ne importava più di tanto, fino al giorno in cui  i miei occhi incrociarono lo sguardo di  Quinto Emilio Leto. Era uno sguardo scuro e penetrante, nel quale leggevo il desiderio, quando si posava su di me. Quell’uomo mi voleva, anche se era pericoloso volere la concubina dell’Imperatore: per lui e per me. Ho già detto che non sono mai stata una donna coraggiosa: ma la passione può metterti in condizioni di fare quello che non vorresti.

Leto era bello, intelligente e ambizioso. Infatuata com’ero, non mi accorgevo che mi manovrava, esattamente come io riuscivo a manovrare l’Imperatore. Per lui, ottenni da Commodo la testa dello spregevole Cleandro e la carica di Prefetto del Pretorio. Per lui, ignara dei rischi che correvo, iniziai a frequentare coloro che, contro l’Imperatore, avevano preso a congiurare: il giureconsulto Didio Giuliano, che covava l’ambizione di sostituirsi a lui sul trono, il valoroso generale Pertinace, il patrizio Flavio Sulpiciano. Commodo è pazzo, dicevano. Commodo, con le sue indegne mascherate, è la vergogna di Roma. Finché Commodo siederà sul trono, nessuno,nemmeno i suoi più accaniti sostenitori, potrà dirsi al sicuro dal pericolo. Era vero: schiavo del vino e dei suoi vizi, pazzo quanto lo era stato Caligola, l’Imperatore avrebbe trascinato con sé nella rovina tutta Roma, se qualcuno non lo avesse fermato. Si diceva che, come Nerone, volesse distruggere l’Urbe con il fuoco per rifondarla con il nome di Colonia Lucia Antoniana Commodiana. Pretendeva di identificarsi ora in Ercole, ora in Giove, ora in Marte o in qualche altro nume pagano, e come i numi pagani giocava con la vita dei poveri mortali. Presiedeva le assemblee del Senato armato di clava e coperto solo da una pelle di leone o in armatura da reziario. Imbolsito e ingrossato dal vino e dagli stravizi, non era più nemmeno un gran bello spettacolo a vedersi, ma sembrava non rendersi conto di quanto fosse diventato ridicolo. Il suo ultimo capriccio era l’intenzione di unirsi  carnalmente alla Vergine Vestale: un sacrilegio che ben difficilmente Roma gli avrebbe perdonato.

 

Nemmeno io, la  donna alla quale continuava a dirsi legato da profondo affetto, mi sarei potuta dire al sicuro, finché quel pazzo avesse continuato a camminare sopra la terra. E men che meno l’uomo che amavo disperatamente. Mi giunsero all’orecchio diverse voci secondo cui ero in pericolo:Commodo non si fidava più di nessuno, neppure di me. Dovevo agire, e in fretta. Ecletto mi suggerì l’arma del veleno: subdola, silenziosa ed efficace. Alcuni veleni procurano rapidamente una morte che qualunque medico non avrebbe dubbi a classificare come naturale. A Roma è facile procurarsi qualsiasi cosa, compreso quello di cui avevo bisogno: una pozione inodore, incolore e insapore, e soprattutto mortifera, che gli avrei propinato, il giorno stesso, con una coppa di aspro vino Falerno, al suo ritorno dalla scuola dei gladiatori al Celio. Sarebbe stata una megera della Tessaglia, una “venefica” famosa per le sue male arti, a fornirmela, dietro lauto compenso, e,soprattutto, senza imbarazzarmi con domande indiscrete.

 

Commodo strabuzzò gli occhi e si portò le mani alla gola. Aveva la faccia sudata e congestionata, ma con il Falerno aveva vomitato anche il veleno. Non è facile morire a trent’anni, ma, se fosse sopravvissuto, per me sarebbe stata la fine. E anche per l’uomo  che amavo e per i miei amici. E anche per parecchi Cristiani dell’Impero. Urlai con tutto il fiato che avevo finché non vidi accorrere Narcisso. Non volli guardarlo mentre lo uccideva, e mi premetti le mani sulle  orecchie per non sentirlo dire che strangolare Commodo era stato più facile che tirare il collo a una gallina. Guardai il terrore di Roma, Commodo il pazzo a cui sarebbe stata negata la sepoltura e la cui memoria sarebbe stata dannata:grande, grosso e inoffensivo come un bianco bue sgozzato sull’altare del sacrificio. Voltai la testa dall’altra parte, e piansi.

 

Alla morte di Commodo, che non aveva lasciato eredi diretti, seguirono alcuni mesi di tumulti e di anarchia che precipitarono Roma nel caos, finché il comandante delle legioni di Pannonia, Lucio Settimio Severo, con la complicità dei militari non prese il potere, deciso a tenerselo ben stretto. Settimio Severo era un Libio scuro di pelle, che parlava il latino con accento fenicio e i cui antenati dovevano aver combattuto contro Roma sotto il comando di Annibale: com’è strana, la vita. Era un duro, e  promise che avrebbe riportato l’ordine nell’Impero a costo di dover usare il pugno di ferro. Mi conobbe, e mi disprezzò con tutte le sue forze per quello che ero: donna, cristiana, meretrice ed assassina. Ma non fosse stato per me, che gli avevo spianato la strada verso il trono con la lussuria e il veneficio, non sarebbe arrivato dov’era arrivato, e questo lo ammise finché visse: mi gratificò di una piccola rendita e di una casetta modesta fuori Roma e, malgrado abbia perseguitato spietatamente i miei correligionari, non permise mai a nessuno di torcermi un capello. Quando morì, lasciò il trono al figlio  Lucio Settimio Bassiano Caracalla che, alla stessa stregua di Commodo, era bello, malvagio e crudele ma abbastanza intelligente da non lasciarsi dominare dai suoi vizi. Chissà, se fossi ancora quella che sono stata, potrei provare a sedurlo, e anche Caracalla  scodinzolerebbe ai miei piedi come un cagnolino…Ma quei tempi non erano più i miei. Ero diventata povera. E avevo le rughe, i denti guasti  e i capelli grigi. Lo sfascio dell’Impero dovevo limitarmi a contemplarlo da spettatrice cinica e disincantata. Non gridai allo scandalo quando conobbi il successore di Caracalla, un ragazzino biondo ed effeminato,  che si faceva chiamare Elagabalo, se ne andava in giro acconciato e truccato come una puttana da trivio e, quel che è peggio, come tale si comportava. Ero abituata a certi spettacoli, nessuna mascherata mi scandalizzava più, né scandalizzava i miei concittadini.

Sono stata testimone dell’inizio della fine: non so di quanto Alessandro Severo potrà ritardarla: anche se i giorni degli Imperi sono i nostri anni, so per certo che non tarderà.

FINE

 

 

 

 

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: lalla