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Autore: effieth    02/12/2012    0 recensioni
Effie, 17, Londra.
«Io sono Effie. Niente di più niente di meno. Solo Effie.
In realtà questo non è nemmeno il mio nome, ma questo non ha importanza. Io per voi sarò solo Effie, niente cognome, niente indirizzo, niente numero. Sarò falsa in tutto e per tutto.
Dopotutto la mia vita è falsa, o meglio, io voglio che sia tale se no non sarei di certo su questo mondo tutt'ora. Io non ho un padre, non ho una madre.
A dire il vero una madre e un padre li l'ho, ma preferisco dire di essere orfana, sarà meglio per tutti.
Ricominciamo da capo.
Io mi chiamo Effie e non ho i genitori.»
Genere: Drammatico, Erotico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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due.

 

 

In casa mia il silenzio ha sempre regnato sovrano.
Da me non sentirai la musica ad alto volume, non sentirai mai il rumore di piatti e pentole che sbattono tra di loro sbadatamente quando, per esempio, prepari la colazione.
Non sentirai mai niente di tutto questo.
Forse potrai udire delle urla di tanto in tanto, la donna che dice di essere mia madre sbraita spesso, sia contro di me sia contro gli oggetti. Dipende da come le gira.
Si, è inutile che lo chiediate, è strana, punto. Non è particolare o altro, è strana e pazza.
Apro la porta di quella che dovrebbe essere la mia abitazione e un'ondata di fumo mi travolge, annebbiandomi la vista e facendomi dare qualche colpo di tosse.
Possibile che quella donna non conosca l'esistenza delle finestre? Va bene, sono due, ma ci sono.
«Che cazzo ci fai qui?» porta la sigaretta alle labbra e aspira il tabacco con uno sguardo amaro diretto a me. Un uomo nudo fa capolino nella cucina-salotto, aprendo il frigo e cominciando a rovistare dentro senza nemmeno degnarmi di uno sguardo. Non sono nemmeno sicura che si sia accorto di me.
«Ti ho chiesto che cazzo ci fai qui, rispondimi quando ti parlo» distolgo lo sguardo dai rotoli di grasso dell'uomo e mi schiarisco la voce.
«Fatti i cazzi tuoi» rispondo, facendo scattare in lei una reazione ormai ordinaria. Si avvicina a me a grandi passi, mi afferra il braccio e ci spegne sopra la sigaretta.
«Posso farti anche di peggio se mi rispondi un'altra volta in questo modo» dice a denti stretti ma io non la sento. Strizzo gli occhi e mi mordo il labbro per noi farmi scappare una lacrima.
Se per qualche motivo mi mostro debole difronte a lei è finita. Con uno strattone mi libero dalla sua presa, afferro tre pacchetti di sigarette mezzi vuoti che erano appoggiati sulla mensola all'entrata, un piccolo marsupio logoro lasciato in terra a marcire ed esco di casa, sbattendo la porta.
Traballa un po', mi giro per controllare che non cada. Una volta è successo e ancora oggi ricordo il dolore che è venuto dopo.
Fortunatamente rimane su, anche se in modo instabile. Apro il piccolo cancellino arrugginito che delinea il confine tra vita e inferno che, tra l'altro, sono all'incirca la stessa cosa.
Metto le mani in tasca, camminando a ciondoloni sullo stretto marciapiede di quel quartiere di merda. Penso al perché io sia finita in quello stato ma non riesco a darmi una risposta, dopotutto, io cosa c'entro? È tutta colpa di quella strega, tutta colpa sua se ora non ho un padre, non ho una vita, non ho nessuno al di fuori di Laind e tanta erba.
Potrei avviare un'attività di vendita di erba in questo quartiere. Diventerei ricca, ricca e senza denti, come minimo. Con tutte le bande che girano qui intorno mi ammazzerebbero di botte se dovessero venire a scoprire che hanno un'altra nemesi.
Svolto l'angolo e mi trovo in un vicolo cieco. Mi giro per tornare indietro quando un uomo compare dal nulla, dirigendosi verso di me.
«Hai una sigaretta?» scuoto la testa, facendo un passo indietro per evitare il contatto con la sua sporca mano ricoperta da un guanto ormai marcio e senza tre pezzi di lana che servivano a coprire il pollice, l'indice e l'anulare.
Senza esitare si avvicina ancora di più a me «E allora cosa c'è lì dentro?» indica il marsupio.
«Fazzoletti»
«Non ne sarei così sicuro»
«Che cazzo ne vuoi sapere te? Sei solo un barbone che probabilmente non sa nemmeno leggere» fa un altro passo verso di me.
«Però so picchiare le donne senza alcun timore» nella sua mano destra qualcosa luccica. Abbasso lo sguardo senza mostrarmi nervosa ma i miei muscoli si irrigidiscono all'improvviso alla vista di un coltellino di almeno 7 o 8 centimetri.
Rassegnata alzo le mani e gli lancio il marsupio. Preso alla sprovvista non riesce ad afferrarlo e incredibilmente il suo cervello si accende, facendo suonare un campanello d'allarme. Con fare goffo fa uno scatto verso di me, graffiandomi una spalla.
Indietreggio coprendomi la ferita, fortunatamente superficiale, con la mano sinistra e aggrotto le sopracciglia, facendo una smorfia di disgusto nei confronti di quell'uomo.
«Ti ho dato il marsupio! Che cazzo vuoi adesso?!» esclamo. Lui si guarda attorno per assicurarsi che nessuno abbia assistito alla scena. Si china verso il marsupio, lo afferra saldamente e scappa via, nascondendo sotto la giacca verdastra il coltellino.
Scuoto il capo, sfiorandomi la fronte.
Porca puttana, tutte a me, non è possibile.
Infilo nuovamente le mani in tasca, ringraziandomi per aver conservato una sigaretta in quella sinistra. Proseguo per la mia strada, vagando verso l'ignoto per almeno due ore.
Nel frattempo il cielo mi ha fatto compagnia, piangendo insieme a me, ma io non piansi veramente, io non piango mai, il mio cuore lo fa, lo fa sempre, ma a quanto pare non va tanto d'accordo con i miei occhi.
Senza nemmeno rendermene conto sono arrivata al parco dall'altra parte del quartiere.
Alzo lo sguardo perdendomi nel verde degli alberi, della natura, della vita vera ed incontaminata. Non potete nemmeno immaginare quanto invidio gli alberi. Se ne stanno lì fermi giorno e notte per centinaia di anni, mangiano, bevono, respirano e quando capita dormono. Vedono di tutto nella loro lunga vita, coppie che litigano e fanno pace dandosi lunghi baci proprio ai loro piedi, ragazzi che piangono seduti sulle loro radici e cercano conforto nella loro robusta corteccia.
Prendo la sigaretta e la accendo con l'accendino di scorta che mi porto sempre dietro in tasca. Ho i capelli completamente fradici ma fortunatamente ha smesso di piovere, solo qualche goccia continua a scendere, prendendomi il viso di tanto in tanto.
Do un calcio ad un grosso sasso che era in mezzo al viottolo. Un po' mi dispiace, lui era tranquillo e minaccioso nei confronti della vita dei tanti ciclisti che passavano di lì. Ok, forse della vita no, ma della faccia di sicuro, e io l'ho estirpato dalla sua vera natura, lanciandolo in mezzo al prato.
Improvvisamente qualcosa mi urta con potenza, facendomi traballare su di un piede. La sigaretta mi cade al suolo e un grosso scarpone la calpesta per bene.
Sollevo lo sguardo con gli occhi lucidi.
«Io ti spacco la faccia!» un ragazzo alto e magro mi guarda con le sopracciglia inarcate verso l'alto.
«Scusa, non l'ho fatto apposta»
«Vaffanculo, Dio santo, vaffanculo!» gli urlo in faccia. Dispiaciuto appoggia l'ombrello in terra ed estrae dalla tasca del suo chiodo un pacchetto di sigarette.
«Ecco, prendine una» mi sventola il pacchetto proprio sotto il mio naso. Dai suoi lunghi ricci cadono delle gocce, questo indica che l'ombrello l'aveva aperto solo dopo il diluvio. Distratto e pure stupido.
Con uno scatto improvviso gli sfilo di mano tutto il pacchetto e gli faccio il mio sorriso più ironico. Pacchetto in mano e una nuova sigaretta in bocca cammino velocemente, lasciandomi alle spalle quel ragazzo dal fisico asciutto e in qualche modo dall'animo buono.
Beato lui che un'anima ce l'ha. 
  
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