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Autore: 9Pepe4    03/12/2012    2 recensioni
[Metamorfosi di Ovidio]
Per un istante, Apollo parve annaspare.
«Non… non volevo porlo su un sentiero tanto difficoltoso, ma avevo giurato, oramai avevo giurato… Perché giurai? Maledetto sia quell’istante! Fu il mio giuramento a decidere il fato di mio figlio: anche se lui, allora, era ancora bello, le guance rosee e intatte, gli occhi pieni di luce, fu morto nel momento in cui gli diedi la mia parola… Io, io, fui io a ucciderlo!»
Diana sbatté le palpebre, sgomenta di fronte a quell’improvvisa e violenta recriminazione.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nelle “Metamorfosi” di Ovidio, viene narrata la morte di Fetonte, figlio di Apollo, ucciso da Giove perché – alla guida del carro paterno ma incapace di controllarlo – rischiava di distruggere ogni cosa.
La reazione di Apollo è così umana che mi ha toccato.
Per di più, più avanti, è raccontata la morte di una donna amata dal dio – sepolta viva dal padre – e viene detto: “Dopo il rogo di Fetonte, si dice che niente di più straziante dovette vedere l’auriga dei cavalli alati”.
Perciò, per quanto atroce sia stato quel dolore, il peggiore resta quello per la morte del figlio… E a quel punto non potevo esimermi da scrivere qualcosa al riguardo.
Ah, il titolo viene da Khorakhané (A forza di essere vento), una canzone di Fabrizio De André.
Buona lettura ^^




Un sollievo di lacrime

«Fratello» disse Diana, posando la mano sulla spalla di Apollo.
Ne scorse il profilo: le labbra erano serrate, gli occhi colmi di una furia incontenibile. E di dolore, sì, c’era anche quello.
«Vuoi dirmi a tua volta di pormi alla guida del mio carro?» domandò aspramente il dio. «Di far cessare queste tenebre insensate?»
Diana tacque; le sue guance avvamparono e le sue sopracciglia ebbero un guizzo bizzoso.
Ella fu sul punto di alzarsi e andarsene, offesa dall’ostilità del proprio gemello… Poi, però, si impose la calma.
«Com’è accaduto, fratello, come?» domandò. «Perché Fetonte guidava il tuo carro?»
Le labbra di lui si contrassero, le sue mani si chiusero a pugno sui suoi ginocchi.
«È giunto…» cominciò a narrare, e dovette fermarsi un istante. «Lui è giunto alla mia dimora, cercando la prova ch’io fossi davvero suo padre, lui davvero mio figlio… E giacché amai davvero sua madre Clìmene, a lui giurai che gli avrei fatto qualsiasi dono m’avesse richiesto».
S’interruppe bruscamente, e digrignò i denti in un moto di dolore e impotenza.
Diana ormai aveva compreso, e fece scorrere la mano lungo il braccio del fratello, sino a raggiungere le sue dita e intrecciarvi le proprie.
Oh, gesto familiare!
Quante volte, bambina, aveva afferrato la mano di colui con cui aveva condiviso il ventre materno, e con quanta prepotenza!
Quasi lo facesse – si sarebbe detto – per ribadire ch’egli era di sua proprietà.
«E lui ti chiese di guidare il carro?» domandò Diana, a voce bassa.
Apollo chiuse un istante gli occhi, sussurrando un «Sì». Poi, «Ah!» esclamò addolorato, riaprendoli, «tentai di dissuaderlo, ma non volle darmi ascolto! Non cambiò richiesta neppure dopo che gli ebbi narrato di tutti i pericoli che si celano lungo il percorso!»
Si girò a guardare la sorella, con occhi brucianti, pieni di una disperazione che Diana non gli aveva mai visto.
Del resto, non l’aveva mai neanche visto ridotto così… Come se persino i suoi bei capelli, che solitamente parevano intessuti degli stessi raggi del sole, avessero perduto la loro luminosità.
Per un istante, Apollo parve annaspare.
«Non… non volevo porlo su un sentiero tanto difficoltoso, ma avevo giurato, oramai avevo giurato… Perché giurai? Maledetto sia quell’istante! Fu il mio giuramento a decidere il fato di mio figlio: anche se lui, allora, era ancora bello, le guance rosee e intatte, gli occhi pieni di luce, fu morto nel momento in cui gli diedi la mia parola… Io, io, fui io a ucciderlo!»
Diana sbatté le palpebre, sgomenta di fronte a quell’improvvisa e violenta recriminazione.
Poi gli strinse la mano, con decisione.
«Fratello, è giusto che tu dia sfogo al tuo dolore» disse, seriamente, «ma se ciò ti porta ad attribuirti colpe che non sono tue, allora devo fermarti».
Apollo distolse lo sguardo, pieno di amarezza e di sofferenza.
«Fratello» insistette Diana, «tu dirigi la tua ira nella direzione sbagliata! Verso te stesso… E verso la terra che rifiuti di illuminare».
In uno scatto iroso, Apollo cercò di sottrarre la mano da quella di Diana, ma ella la trattenne nella propria.
«Puoi odiare Giove nostro padre, forse, poiché suo fu il braccio che scagliò la saetta che uccise tuo figlio – e devi rammentare che lo fece per evitare la distruzione di ogni cosa – ma questa terra… Essa ha nutrito Fetonte, gli è stata casa, l’ha cresciuto bello e forte come dici di ricordarlo… Perciò non punirla, fratello, non le negare il tuo sole».
Apollo chinò il capo, ed aveva il volto tutto contratto dal dolore.
Per un istante, parve sul punto di soffocare, poi si aggrappò alla mano della sorella e un ansito gli scaturì dalle labbra.
«Potessi piangerlo!» gridò. «Potessi almeno sentire le guance bagnate di lacrime versate per lui – oh, lui, il mio Fetonte! Ma gli dèi non possono commuoversi alla maniera dei mortali…»
Diana esitò, percependo il dolore del fratello come se fosse stato il suo, e non desiderando altro che lenirlo…
Cinse Apollo con le proprie braccia, gli baciò il viso.
«Sì, gli dèi non possono versare lacrime» mormorò, mestamente, toccandogli di nuovo la pelle con le labbra. «Ma attendi, fratello, fintantoché i miei baci non avranno scaldato e inumidito le tue guance… Allora ti parrà forse d’aver pianto, e potrai trovare consolazione…»
Apollo s’immobilizzò, sorpreso, e la sorella prese a fare come gli aveva preannunciato: lo baciava ripetutamente, su entrambe le guance.
E quando lui le sentì bagnate, le toccò con la punta delle dita, incredulo.
“Dunque è questo” si chiese, “che gli esseri umani provano dopo aver pianto? Sì, la mia tristezza è ancora un terribile macigno, ma… è mai possibile?… mi par d’esser più leggero…”
Così abbracciò Diana, in un tacito ringraziamento.
Lei osservò quel bel volto ancora disperato, ma spoglio della furia che l’aveva arroventato poc’anzi.
«Presto dovrò guidare il carro della luna» gli sussurrò, lasciando una domanda implicita nel silenzio che seguì.
«E quando terminerai il tuo percorso» disse Apollo, sommessamente, «quando sarà tempo che il sole sorga, il sole sorgerà».
Tacque un attimo, stringendo le labbra mentre pensava.
Forse, si disse Diana, rivedeva nella propria mente il corpo di suo figlio che veniva sbalzato dal carro, e i suoi capelli in fiamme…
«È già trascorso un dì d’oscurità, per Fetonte» riprese Apollo. «Ora ci sarà il sole per la sua terra».
Sì, pensò Diana, osservandolo mentre si alzavano, in suo fratello c’era ancora molto dolore… Probabilmente, altra sofferenza e altra rabbia sarebbero scaturite dal suo cuore, quando avrebbe tenuto tra le mani le redini dei suoi destrieri alati… Forse, avrebbe accusato quei cavalli della morte del figlio, li avrebbe frustrati con maggior furia… E con dolore – dolore, sì, suo fratello soffriva ancora…
Diana strinse i denti.
Poco male. In lei c’era tutta la tenacia e la determinazione di aiutarlo a guarire, a star di nuovo bene.
  
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