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Autore: __Stella Swan__    06/12/2012    1 recensioni
Il barista si bloccò davanti a me, fissandomi per qualche strano motivo. Forse per la maledetta somiglianza con le immagini della ragazza che avevano fatto vedere in televisione.
Tirai giù il cappuccio, continuando a bere la mia acqua tonica come se niente fosse. Rimassero tutti sbigottiti quando, al posto della chioma rossa che avevano descritto alla tv, videro un corto taglio corvino. Inarcai le labbra verso il barista, invitandolo a darmi altro da bere.
Meno male che avevo avuto la bella idea di cambiare un po’ il mio aspetto, prima di recarmi a Londra.
Non mi avrebbero trovata facilmente.
{Estratto dal Prologo}
Storia sospesa
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Settimo giorno: Brown's Hotel.


C’era un gran via vai nell’hotel a causa della festa. Alcune zone, specialmente le stanze in cui si sarebbe tenuta, erano chiuse al pubblico, così come alcuni corridoi in modo da far portare le decorazioni senza che nessuno le vedesse. Era una festa per Halloween, non ci voleva un genio a capire che decorazioni avrebbero utilizzato: pipistrelli finti, zucche ovunque e ragnatele. Le solite cose che avevo già visto nei film.
Mancavano poche ore all’inizio delle danze e decisi di far tacere il mio stomaco perché intanto non sarei uscita per cena, ma mi sarei cibata solo di stuzzichini serviti alla festa.
Mi feci un bel bagno caldo con Sali minerali profumati alle rose, in modo da rilassarmi, con un sottofondo musicale soft. Sul bordo della vasca c’era un calice di champagne riempito a metà ed il cellulare. Nessuno mi aveva contattata, anche se – al dir la verità – l’unico ad avere quel numero era Adam.
Dopo essermi rilassata mi misi l’accappatoio e cominciai a prepararmi: asciugai i capelli li sistemai in una retina, acconciando poi a dovere la parrucca che avrei usato in quei giorni. Feci dei boccoli con il ferro e tirai due ciocche indietro, puntandole con una spilla color oro. Mi truccai con un po’ di matita e ombretto nero, un po’ di fard sulle guance e lucidalabbra rosa, così per non appesantire troppo il tutto.
Presi il vestito che avevo ordinato su internet, steso sul mio letto, e lo indossai: con indosso la parrucca sembravo la dea alata della vittoria. L’abito era turchese con il copri seno dorato, bracciali, stivali greci e corona d’alloro dello stesso colore. Cercai di stare attenta a non sbattere da nessuna parte con le ali finte che portavo sulla schiena ed uscii dalla stanza.
Sin dal corridoio riuscivo a sentire il brusio delle sale al primo piano. Quando uscii dall’ascensore vidi una marea di gente che andava su e giù, peggio rispetto ai preparativi.
Notai che all’ingresso le persone stavano pagando il biglietto e lasciavano i loro averi nel guardaroba. Il tempo era orrendo, infatti tutti avevano l’ombrello e si sentivano persino i tuoni. Non persi ulteriore tempo e mi recai nella Claredon Room: la stanza era rettangolare, con parquet chiaro e muri bianchi, completamente ricoperta di ragnatele e zucche giganti, per non parlare di un mega scheletro appeso accanto all’entrata.
In fondo c’era una sottospecie di piccolo palco sulla quale non c’era ancora nessuno, mentre sui lati c’erano i tavoli del buffet e, sparsi per la stanza, i tavolini dove sedersi per mangiare.
Siccome il mio stomaco stava piangendo, decisi di avvicinarmi ad un tavolo del buffet e prendere un piatto: lo riempii con salatini di ogni genere, tartine al salmone, rotolini di affettati vari, fette di pane con ricotta ed olive, bruschette e altro ancora.
Rimasi a mangiare in piedi vicino al bancone e mi feci riempire un bicchiere di vino bianco, mentre ispezionavo la sala: notai che c’erano due guardie in borghese nella stanza, si riconoscevano subito. Erano immobili con le mani dietro la schiena, controllavano per filo e per segno ogni persona che passasse sotto i loro occhi. Almeno avevano una maschera in tema con la festa.
Vidi vestiti di tutti i colori: fate, streghe, maghi, vampiri – i più comici, al dir la verità – pirati e altro ancora. Le luci della stanza erano arancioni e blu, in modo da creare l’atmosfera e, negli angoli, c’era addirittura un simulatore di nebbia.
Non mi sembrava ci fossero vampiri – se non finti – quindi sarebbe stata una festa tranquilla. Non vidi nemmeno dei sicari di mio padre: solitamente li riconoscevo subito per i loro lineamenti e la loro portata. E se non li riconoscevo perfettamente, mi venivano i sospetti. Solitamente ci azzeccavo.
Qualcuno picchiettò sul microfono e tutti si voltarono verso il piccolo palco: un uomo sulla quarantina, col volto coperto da una maschera simile a quella di Batman, stava introducendo la festa: «Benvenuti al Brown’s Hotel! Questa è la notte degli spiriti inquieti e dei mostri, quindi mi raccomando di guardarvi bene le spalle». Si voltò per controllare se ci fosse qualcuno dietro di lui e tutti risero. «La festa è suddivisa sulle tre sale dell’hotel: Claredon, Niagara e Roosevelt. Ricordatevi di entrare nei labirinti e nelle case stregate e, in primis, divertitevi!».
Ci fu un lungo applauso e un cantante salì sul palco, sistemando la chitarra elettrica. La sua band si preparò e, insieme, cominciarono a suonare un pezzo incalzante. Molte persone si lanciarono in mezzo alla stanza per ballare, io rimasi in disparte a finire i miei stuzzichini. Le guardie in borghese chiacchieravano tra loro senza togliere gli occhi dalla pista, quello sulla porta controllava sia la sala che il corridoio.
Decisi di fare un salto a controllare le altre sale. Nell’atrio dell’hotel c’era un via vai degno di una strada trafficata all’ora di punta. Entrai prima nella Niagara: non c’erano banchetti, ma avevano allestito una sottospecie di labirinto non molto grande ed immerso nella nebbia, così che nessuno ne sarebbe uscito facilmente. Alcune persone entravano e urlavano per chissà cosa, il ragazzo che stava all’entrata del labirinto se la rideva come un matto ogni volta che sentiva strillare qualcuno.
La Roosevelt, invece, era diventata una pista da ballo con musica elettronica. Decisamente non il mio genere, ma molte persone sembravano divertirsi. C’era un solo banchetto, più piccolo rispetto a quelli della Claredon, e nessuna sedia.
Decisi di andar a prendere una boccata d’aria nel cortile interno. Mi strinsi nelle spalle ed uscii in mezzo alla pioggia, rimanendo sotto una tettoia. Presi una sigaretta dalla borsa e cercai più volte di accenderla: l’accendino sembrava non collaborare. Tentai almeno una ventina di volte, poi tolsi la sigaretta dalla bocca e sbuffai innervosita. Già non fumavo mai, se poi anche l’accendino me lo impediva ero messa bene.
Accanto a me vidi sbucare una mano e una piccola fiamma accesa, mossa dal vento. Mi voltai a vidi che qualcuno mi stava tenendo acceso il suo accendino per me.
Riconobbi subito quegli occhi: ambra fusa.
Il suo viso era coperto da una maschera nera molto semplice, indossava uno smoking con il mantello. Ma si vedeva lontano un miglio che era in borghese.
Rimisi la sigaretta in bocca e mi avvicinai per accenderla, soffiando fuori il fumo. «Grazie», dissi subito, guardando da un’altra parte.
«Si figuri», rispose gentilmente. «Anche se non dovrei istigare qualcuno a fumare».
Mi lasciai scappare una risata. «In realtà non sono una fumatrice accanita. Fumo una volta ogni morte di papa».
«Perché sei nervosa?». Mi voltai e lo fissai negli occhi. Infilò le mani in tasca, sorridendo e sfuggendo al mio sguardo. «Non per essere invadente, ovvio. Se vuoi che me ne vada, sparisco».
Probabilmente era terrorizzato dal mio sguardo. Scossi la testa, cercando di rassicurarlo. «No, no, ci mancherebbe. Comunque sì, sono nervosa, ma niente di importante». Solo vampiri che vogliono uccidermi ed un padre che mi vuole torturare per le feste.
Ringraziai il fatto che non si soffermò a studiarmi nei minimi dettagli. Avevo sempre paura che notasse le lenti colorate, o la parrucca. Ma quello, in un giorno di festa dove tutti erano travestiti, sarebbe stato normale. «Allora ti chiedo: cosa ci fai ad una festa del genere?». Aggrottai la fronte e subito si spiegò. «Voglio dire, sei da sola a questa festa. Come mai non sei con gli amici, o col ragazzo?».
Sospirai e tirai su un po’ di fumo. «Perché non ho il ragazzo e non ho amici in questa città. Mi sono… trasferita da poco». Meglio non dire che alloggiavo all’hotel: avrebbe avuto più sospetti su chi fossi, siccome la Mia che aveva conosciuto era una ragazza da sola, a Londra, in visita e che girava di hotel in hotel. «Ora posso fare io una domanda, se non sono invadente?».
«Certo, chiedi pure».
Ridacchiai tra i baffi. «Cosa ci fa una guardia in borghese, vestito mezzo da Zorro e mezzo da vampiro, a questa festa?».
Adam si voltò subito e rimase allibito. Io non riuscii a far altro che ridacchiare. Scosse la testa e sembrò rilassarsi. «Sono in turno, anche se non sembra. Cioè, dovrei esserlo anche in questo momento».
«Allora mi stai controllando. Hai paura che sia una criminale?».
«Vestita da dea greca? Penso che sarebbe stato più adatto vestirsi da Catwoman se davvero avessi voluto combinare qualcosa di losco». Prese poi in mano un’ala e la indicò con la testa. «Queste sono un po’ scomode per muoversi furtivamente».
Aveva ragione. Mi ritrovai a ridere insieme a lui per l’ennesima volta. «Giusta osservazione. Allora vado a cambiare vestito», scherzai ancora. «Torno dentro perché inizio ad avere un po’ di freddo. E poi lo stomaco sembra essere ancora affamato».
«Allora io torno al mio lavoro: osservare persone che si divertono e lasciare che le mie gambe si addormentino».
Buttai la sigaretta e gli sorrisi. «Allora buon divertimento», lo presi in giro.
Rise e rimase immobile a fissare la pioggia, mentre entravo. «Anche a te».
Tornai alla Claredon e mi riempii di nuovo il piatto con tartine di ogni tipo. Il nervoso a quanto pare scatenava pure l’appetito. Non era possibile che riuscissi ad incontrarlo ogni santa volta, con tutte le persone che vivono in questa città.
Amelia, non importa. Guarda avanti e divertiti.
In realtà, dopo tutto quello che avevo mangiato, non me la sentivo di ballare. Più che altro ero da sola, cosa facevo come una stupida in mezzo alla pista? Me ne fregai e ballai per circa una ventina di minuti, notando che la maggior parte erano coppie o persone per bene.
Ero in un hotel costoso dopotutto, non ci sarebbero stati molti ragazzi come me disposti a spendere soldi per venire ad una festa del genere. Anche Adam mi aveva chiesto che cosa ci facessi qui, senza amici o senza fidanzato.
Sospirai e diedi un’occhiata all’orologio: era mezzanotte da poco passata.
Decisi di tornare in camera senza provare alcuna attrazione che avevano allestito. Niente case infestate o labirinti. Solo la mia stanza ed un buon letto per dormire.
Tornai su e mi svestii velocemente, rimanendo in bagno per struccarmi ed avvolgermi nella vestaglia da notte. Avrei dovuto metterlo in valigia e portarmelo dietro, anche se le ali occupavano un po’ di spazio. Magari avrei potuto lasciarlo a qualche bambina, o regalarlo a qualche associazione. Qualcosa mi sarei trovata, ma di certo non lo avrei infilato nella valigia.
Tolsi lenti e parrucca ed uscii massaggiandomi i capelli, notando che però qualcosa non andava. Il foglio della festa era per terra, accanto al letto, mentre ricordavo perfettamente di averlo lasciato sul materasso.
Mi allungai verso il letto e presi la pistola nascosta sotto il cuscino, caricandola e tenendola stretta tra le mani. Cercai di essere furtiva e ben vigile: poteva essere un altro sicario di mio padre. Controllai dietro il letto, ma non c’era nessuno. Mi avvicinai alla poltrona, ma sentii dei passi dietro le mie spalle.
Mi voltai di colpo tenendo alta l’arma, così come fece la persona davanti a me.
«Ferma!», urlò. Ci misi un attimo a rendermi conto che quello davanti a me era Adam. E mi stava puntando contro la sua pistola. Rimasi allibita, quindi seguii involontariamente il suo ordine: non riuscivo a muovere un solo muscolo. Ma non avevo abbassato la guardia. Mi guardò confuso, forse perché stava cercando di mettere insieme i pezzi. «Chi sei tu?», mi chiese.
Strinsi la mano sulla pistola, ma siccome non aveva ancora smesso di minacciarmi non lo feci nemmeno io. «Mi dai la caccia, dovresti saperlo!», cercai di non urlare.
Adam aggrottò la fronte, ancora più confuso. Lo avevo preso di contropiede. «Ti do la caccia?». Mi studiò ancora per bene. Per la prima volta mi vedeva come effettivamente ero: capelli neri, lunghi fino alle spalle e leggermente mossi, e gli occhi grigi. «Tu… sei la ragazza che stanno cercando, sei Amelia Drakul!».
«Io non mi chiamo Drakul», ringhiai senza rendermene conto. Sospirai e cercai di controllare la rabbia, anche se non era così semplice. Quel cognome mi faceva ribollire il sangue nelle vene.
Adam si leccò le labbra e sembrò abbassare l’arma. «Che ne dici se ritiriamo queste? Non ce n’è bisogno». Non mi chiese nemmeno il perché possedessi una pistola. Si limitò a ritirare la sua nella custodia attaccata alla cintura, sotto la giacca.
Cercai di fidarmi, perciò la posai sulla poltrona. Comunque non troppo lontano da me. «Come hai fatto ad entrare?».
Prese il distintivo e me lo mostrò, sorridendo. «Ho fatto due chiacchiere con la receptionist». Sbuffai una risata. Beh ovvio, figuriamoci se non avessero dato il passe-partout allo Scotland Yard.
«E perché mi avresti seguita?». Incrociai le braccia al petto e attesi una risposta.
«Perché è da un po’ di giorni che ti tengo d’occhio. Da quando sei comparsa qui a Londra e sei venuta a vedere la tua casa». Perfetto, sono proprio una frana con i mascheramenti. «Ho notato subito le lenti a contatto, anche se inizialmente non mi aveva toccato molto. Poi ti ho seguita quando tornavi dal London Coliseum, perché mi sembravi tu nonostante gli occhi ed i capelli diversi. E poi fino a qui, questa mattina».
Un segugio, dissi nella mia mente. Beh, se lavorava nello Yard un motivo doveva esserci. «Sono così interessante? Potrei denunciarti per stalking».
Scosse la testa. «Tu sei il mio obiettivo», rispose tranquillamente. Aggrottai nervosamente le sopracciglia. «Mi è stato detto che in Transilvania cercavano una ragazza, Amelia Drakul, che probabilmente era stata rapita. Nel caso fosse fuggita di propria volontà, sospettavano che sarebbe andata a Londra per recarsi alla casa a lei intestata». Ero così prevedibile? Beh, per mio padre di sicuro. «Il mio obiettivo è quello di trovarti e riportarti al centro di polizia, così avrebbero avvisato tuo padre e saresti tornata a casa».
Scossi la testa. Tutto questo era ridicolo. «Il punto è che io non voglio tornare a casa». Mi voltai verso la finestra e sbuffai. «Sono scappata di mia volontà perché non volevo più essere controllata da… quel mostro». Mi morsi il labbro, guardando fuori dalla finestra. «Cos’altro sai di me?», domandai.
Adam non rispose subito. «Che ti chiami Amelia Drakul e che abiti in Transilvania, niente di più».
Strinsi i pugni e camminai rabbiosamente verso di lui, in modo minaccioso. «Ti ho detto di non chiamarmi in quel modo».
I suoi occhi ambrati erano confusi e dolci nello stesso tempo. Maledetto. «E come dovrei chiamarti, Mia?».
Mi allontanai e tentai di rilassarmi. «Il mio cognome… è Valentine». Anticipai la sua domanda, vedendolo aprir bocca. «Ho preso spontaneamente il cognome di mia madre non appena scappai da casa mia. Non voglio condividere niente con mio padre, non più di quel che purtroppo non posso rinnegare: il sangue».
«Perché lo odi così tanto?».
Ridacchiai tra me e me. «Non capiresti mai, credimi». Mi sedetti sul letto, mentre lui rimase in piedi di fronte a me. «Dimmi Adam, come sei finito a lavorare allo Yard? Perché hanno affidato a te questo incarico?».
Si strinse nelle spalle ed incrociò le braccia al petto. «Mio nonno era una guardia dello Yard, così decisi anche io di entrarne a far parte. Sono della SO12, la squadra speciale. Eh, beh, penso mi abbiano dato questo incarico perché mi ritenevano all’altezza». Girai gli occhi al cielo. «Ad ogni modo, devi venire con me».
Lo fulminai con lo sguardo. «Ma allora non hai capito niente». Mi alzai in piedi e gli arrivai a pochi centimetri dal volto. «Io con te non vengo».
«E se ti obbligassi?», mormorò. Fece per bloccarmi il braccio dietro la schiena, ma lo schivai e lo disarmai, prendendo la sua pistola e gettandola sotto il letto. Afferrai il suo polso e lo feci cadere a terra, ma con la mano libera mi strinse la caviglia. Caddi a mia volta per terra, mentre lottavo per non farmi bloccare. Gli tirai un calcio in pieno stomaco mentre cercava di inchiodarmi col suo corpo e feci una capriola all’indietro per allontanarmi.
Si rialzò in fretta e furia, preparandosi a combattere. Non voleva fare a pugni, glielo si leggeva in faccia. Non sembrava nemmeno il tipo da alzare le mani su una donna. Mi afferrò la mano e storse il polso, facendomi stringere i denti per il dolore. Gli tirai un calcio sugli stinchi e cadde in ginocchio, quindi rotolò sul fianco per trascinarmi con sé.
Mi ritrovai sul suo petto mentre entrambi facevamo smorfie di dolore per i colpi dell’altro. «Non mi puoi obbligare», borbottai malapena. Mi rialzai in piedi e così fece anche Adam, tenendosi una mano sullo stomaco, esattamente dove gli avevo tirato il calcio.
«Io devo riportarti a casa», fiatò.
«Tu è meglio che cambi obiettivo, lo dico per il tuo bene». Lo guardai dritto negli occhi, stringendo le labbra. «Non hai idea in che guai potresti cacciarti».
Si sedette sul letto e riprese fiato, senza aggiungere altro. «E perché mai?».
«Non sai chi è mio padre», ridacchiai.
Si rialzò in piedi, avvicinandosi lentamente. «E allora dimmelo».
Lo fissai di nuovo negli occhi: voleva davvero sapere chi fosse, ma se ne sarebbe pentito amaramente. Sospirai a lungo, osservando la camera. «Non mi crederesti, anche se lavori nella SO12», risposi. Adam rimase comunque in attesa, perciò sbuffai. «Alucard… questo nome non ti dice niente?», domandai.
Aggrottò le sopracciglia e ci pensò un paio di secondi, poi spalancò gli occhi e mi guardò come se fossi un fantasma. «Stai scherzando, spero».
Scossi la testa, purtroppo per lui. «No, è il suo nome. Anagramma di chi è in realtà». Adam si mise a ridere e ciò mi infastidì parecchio. «Lo trovi divertente?».
Si ricompose velocemente. «Trovo divertente questa coincidenza», ridacchiò.
«Che coincidenza?».
«Il mio cognome è Van Helsing, sono olandese».
Ci fu un momento imbarazzante di silenzio dove lo fissavo incredula. Infine, scoppiai a ridere, lasciandolo interdetto. «Fantasia zero, devo dire».
«Sono discendente di Van Helsing», disse con tono più rude.
«Abrham Van Helsing è un personaggio inventato da quel pazzo di Stoker», alzai la voce, andandogli incontro. «E non cercare di prendermi in giro».
«Non ti sto prendendo in giro!». Mi afferrò le spalle e mi scosse leggermente. «Tu sei figlia di Dracula ed io sono nipote di Van Helsing», ripeté ad alta voce. Dopo pochi secondi mi lasciò e fece un paio di passi indietro. «Come fai ad essere sua figlia? Sei umana».
«E’ ora che tu te ne vada», risposi imperativa.
«Ma…».
«E’ tardi, vattene». Presi la sua pistola e gliela porsi, indicandogli poi la porta.  «Dimentica che io sia il tuo obiettivo e non seguirmi più, o ti metti nelle grane».
Lo spinsi fino alla porta, ma appena la aprii si bloccò e si voltò di scatto. «Mia», disse a denti stretti. Lo guardai ancora negli occhi, giusto per perdermici ancora un po’ dentro. Non poteva avermi detto la verità, lo sapevo perfettamente: era solo una tattica per farmi andare con lui. «Io non posso lasciarti andare così».
«E invece lo farai, non mi vedrai più», mormorai.
«Ti aiuterò», disse di getto, senza pensarci. Cosa?, mi chiesi nella testa. «Ti coprirò io, nessuno saprà che sei qui a Londra, specialmente tuo padre».
«Perché faresti questo?».
«Perché voglio conoscerti meglio e capirci qualcosa di tutta questa storia». Abbassai gli occhi e feci per chiudere la porta, ma mise un piede in mezzo lasciando uno spiraglio. «Tu non mi credi, ma io sì. E ho le prove per dimostrarti che non ti mento».
E se avesse ragione? Cosa mi servirebbe? Sarebbe solo una persona in più sulla sua lista delle persone da uccidere. «Buonanotte Adam».
  
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