Quinto
Capitolo:
Ricordi dimenticati...
Tutt’intorno a me
diventò cupo, freddo e silenzioso.
Mi trovavo
rinchiusa in un’angusta cella, con i muri grigi screziati di rosso fin troppo
vivo e con il pavimento in pietra cosparso di paglia chiazzata di cremisi.
Provavo una strana
sensazione di paura.
La fame mi
stringeva lo stomaco, non riuscivo nemmeno a reggermi in piedi, forse a causa
anche dell’aria gelida e pungente che sibilava nei corridoi apparentemente
deserti. Indossavo unicamente dei grigi pantaloni logori e una camicia bianca
anch’essa rovinata.
Il freddo
penetrava sin nelle ossa, costringendomi a lottare per non morire congelata.
Quando ormai stavo
per accasciarmi su un fianco, una fioca luce di una lanterna illuminò le pareti.
Pian piano si avvicinava sempre di più a dove mi trovavo.
Sentivo i battiti
del cuore sin nelle orecchie. Temevo quella chiarore, perché portava soltanto
sofferenza: più di una volta avevo visto dei bambini venire portati via da
quegli uomini con il camice bianco e un lume. Avevo provato sulla mia pelle che
cosa succedeva, quali torture utilizzavano per constatare la nostra resistenza
e forza.
Davanti alle
sbarre arrugginite si fermò un ragazzo di all’incirca sedici anni non molto
alto, con la carnagione piuttosto chiara; i suoi capelli erano di un rosso
ramato, corti fino alle spalle e molto spettinati, con una frangia disordinata
che gli copriva parzialmente gli occhi verdi tendenti al giallo. Indossava
anche lui una lunga giacca bianca. Il mio primo pensiero fu quello della
gabbia, del sangue cosparso ovunque.
Indietreggiai il
più possibile mentre lui apriva la porta. Scoppiai quasi in lacrime quando
entrò.
<< Stai
calma... sono io, Frederick, non ricordi? Scusa se non sono più venuto, ma...
sono stato un po’ trattenuto>> sospirò, poi dalla borsa a tracolla color
terra estrasse un panino, un piccolo vasetto di marmellata alle fragole e un
cucchiaino << Tieni, ti rimetterà un po’ in forze>>
Lo guardai
negl’occhi, dai quali non traspariva nessuna emozione maligna, poi mi concentrai
sul pane. Sembrava fresco ed incredibilmente succulento, ma prima di mangiarlo,
una domanda mi balenò nella testa.
<< Dov’è la
mamma?>> chiesi << mi avevano promesso... mi avevano promesso che
non le avrebbero fatto nulla>>
<< Tua madre
è...>> fece una breve pausa, un respiro rassegnato, poi continuò <<
Lilith era una creatura fin troppo speciale... e per questo l’hanno sottoposta
ad esperimenti disumani. Il suo corpo, già debole di per sé, non ha retto... mi
dispiace>>
Guardai la
pagnotta nelle mie mani, l’avvicinai alla bocca, ma non riuscivo a mangiarla.
La fame era molta, però le lacrime che mi solcavano il viso erano più potenti.
Frederick mi passò
una mano fra gli sporchi capelli corti, poi si sedette al mio affianco,
poggiando la testa contro il muro. Estrasse una sigaretta da una tasca del
camice, poi, avvicinando appena un dito, si accese una piccola scintilla.
<< Sei uno
stupido, invece di scappare resti qui>> singhiozzai.
Vidi la sua
espressione cambiare radicalmente: da rattristita diventò piuttosto furiosa.
<< Odio
quando la gente mi chiama stupido! Sono uno Shinigami molto intelligente, sai?
Io sono lo Shinigami alchimista e fabbro più famoso. Sono rimasto qui perché ho
fatto una promessa ad una persona... un patto>> disse, poi spense il sigaro
e cominciò a mangiare la marmellata << Ti prometto che finché rimarrò in
vita, non riusciranno mai a completare il progetto Pandora>>
Aprii gli occhi.
Iperione era stato
ferito al petto con un’arma da fuoco. Perdeva sangue rossastro, il quale gocciolava
sui miei vestiti logori.
Probabilmente a
causa della sua disattenzione, il pentacolo violaceo che mi aveva tenuto
sospesa fino a quel momento si dissolse, così mi ritrovai a precipitare sulla
cittadina di Londra.
Il mio cuore
sembrava un tamburo rullante: troppe emozioni, troppe cose a cui non sapevo
dare una risposta erano accadute. Non riuscivo più a ragionare con la mente
lucida: il mio pensiero fisso era quel sogno così reale. Ma possibile che fosse
solamente un’insignificante fantasia? Quelle lacrime, quel freddo, quel
sangue...
Provai un’atroce
fitta al petto che mi fece tornare al presente. Sulla schiena, lacerandomi la
pelle, comparvero delle gigantesche ali scheletriche, sulle quali si formò un
vellutato strato di pelle bianca come il latte. Grazie ad esse riuscii a
volare, anche se la trasformazione –per niente indolore- continuava, allungando
sia i denti, facendoli diventare delle proprie zanne, sia le unghie delle mani,
le quali ora somigliavano a degli artigli di rapace.
La vista cambiò
drasticamente: se prima vedevo un mondo sfocato, in questo momento riuscivo a
scorgere anche gli edifici più lontani, notando i più piccoli dettagli.
Persino la mia
chioma crebbe di almeno una ventina di centimetri e per ultimo il mio corpo
(tranne sul viso e le ali) fu avvolto da un soffice piumaggio bianco.
Dopo un attimo di
smarrimento, recuperai quota in un batter d’occhio, poi, richiamando la mia
ascia bipenne, tentai di colpire Iperione, ma questo evitò l’attacco.
<< Un demone
albino? Sei una vera perla preziosa, Pandora>> sorrise lui << Io,
l’angelo impuro e dio del sole e tu, il demone bianco della distruzione, pari
agli dei...>>
<< Non
paragonarmi alle divinità, Iperione. Rispondi piuttosto alle mie domande: cosa
vuoi da me? E che cos’erano quelle immagini che ho visto?>>
Iperione guardò la
città, facendo poi un ampio sorriso.
<< Oh...
sono spiacente, ma non posso risponderti mio piccolo demone. Non adesso
almeno... Londra sta vivendo un’eclissi fuori programma e non voglio proprio
perdermi lo spettacolo>> detto ciò, l’angelo scese in picchiata sparendo
poi nello spesso strato di ombra che aveva inghiottito la capitale.
Era successo tutto in brevissimo tempo, tutto in un battito di ciglia.
Seguii il nemico e
atterrai in un’oscura strada. La luce del sole quasi non riusciva a penetrare
in quel manto cupo, ma possedendo una vista demoniaca non era un grande
problema per me.
Una donna,
presumibilmente di alta società, osservava stupita il suo compagno mentre
quest’ultimo le porgeva una rosa rossa. Non c’era nessuna parola, nessuna
emozione.
Tutto
era immobile,
silenzioso. I passanti erano fermi, come in una fotografia o in un quadro.
Eppure mi parve di udire in lontananza un combattimento...
<< Tic...
Toc... Tic... Toc...>> scandì una voce femminile e alquanto fastidiosa <<
Gli umani spendono il tempo in modo inutile>>
Mi voltai, ma non
vidi nessuno.
<< Tic...
Toc... Tic... Toc... ma a quando pare questo vizio non è solo degli
umani>>
<< Chi sei?!
Fatti vedere!>> ringhiai, continuando a cercare con lo sguardo.
<< Tic...
Toc... Tic... Toc... io sono Crono, l’esperimento del tempo>>
Davanti a me
comparve una ragazza con un ampio sorriso smagliante dipinto sul viso, l’unica
parte del volto non celata da quella folta frangia corvina. Per il resto, i
capelli erano lunghi fino alle spalle, sciolti e scuri come la notte, mentre
gli occhi appena visibili erano assai cupi, probabilmente di un colore tendente
al nero.
Aveva una
corporatura minuta con una carnagione fin troppo pallida, la quale le donava
unicamente un’aria malaticcia. Quel gracile corpo era coperto da un voluminoso
abito corvino, composto da un corsetto decorato con pietre preziose e
un’ingombrante gonna ricca di balze e drappeggi che toccava il suolo. Si
riusciva appena a vedere delle scarpe con un tacco piuttosto alto, quasi sui
nove o dieci centimetri, naturalmente scure.
Nel complesso
sembrava una ragazza di quattordici anni, forse anche a causa dei lineamenti
infantili del viso o per il suo atteggiamento irritante che di certo non l’aiutava
a guadagnare qualche anno in più.
Rideva, scherzava
e addirittura faceva delle battute fin troppo irritanti sul mio conto e soprattutto
sulla mia non elevata statura. Doveva morire.
<< Tic...
Toc... Tic... Toc... la tua ora è giunta, Pandora>> ridacchiò questa
guardando un orologio d’oro sul polso sinistro, mentre alzava lentamente
l’indice della mano destra.
Non riuscii
nemmeno a pensare ad una frase di senso compiuto che una potentissima onda
d’urto mi scaraventò parecchi metri più in là. Appena feci per alzarmi, un
secondo attacco allo stomaco mi spedì addirittura dentro un negozio,
frantumando persino la vetrina.
Sputai sangue, il
quale non solo sporcò il pavimento piastrellato del negozio, ma anche i peluche
e le bambole sotto cui ero finita.
Ma gli attacchi
non erano ancora terminati.
Sentii una
dolorosa fitta al petto. Un’enorme spada a due mani dalla lama color pece mi
aveva trapassato il ventre, aprendomi una profonda ferita.
Per salvarmi,
colpii Crono con una potente scarica elettrica, poi, trasformandomi per qualche
attimo in una saetta, riuscii ad uscire dal negozio.
Era troppo veloce.
Non riuscivo nemmeno a scorgere i suoi attacchi, figurarsi a pararli o tentare
un contrattacco.
Caddi in
ginocchio, assaporando il sangue che velocemente mi risaliva la gola. Con un
calcio ben assestato, la ragazzina mi aveva colpito la parte indebolita.
<< Muori,
demone!>> ridacchiò lei alzando l’arma, pronta a tagliarmi la testa.
Guardai la scia
rosso scarlatto, poi osservai il suo sorriso divertito. Serrai il palmo destro,
così quel liquido cremisi si tramutò in energia elettrica e, essendo sotto i
piedi della ragazzina, la fulminò.
Guadagnai qualche
attimo per togliermi dalla portata dell’arma, anche se così facendo mi ritrovai
in un vicolo senza vie d’uscita.
<< Tic...
Toc... Tic... Toc... è arrivato il tuo momento>> ringhiò, mentre schioccò
le dita. Diventò assai veloce, tuttavia ciò non bastò per uccidermi, infatti
per puro miracolo evitai il suo attacco, trasformandomi in un fulmine.
<<
Impossibile! Come fai ad essere più veloce del tempo?>>
<< Semplice:
hai il vestito inzuppato del mio sangue elettrico... questo grazie a tutte le
pulsazioni ti rallenta e ti indebolisce>> dissi ritornando normale, poi
cominciai a ridacchiare << Se tu usi i tuoi poteri per velocizzarti, io sono
le catene che ti impediscono ogni minimo movimento>>
<< Prova ad
evitare questo!>>
Sentii il mio
corpo rallentare sempre di più, fino a diventare quasi come una statua, mentre
lei si muoveva liberamente e, saltando alle mie spalle, fece per darmi il colpo
di grazia.
Chiusi gli occhi.
In pochi istanti
tutto sarebbe finito. Il dolore, la rabbia, la paura e molte altre emozioni
sarebbero diventate soltanto parole al vento.
Ecco, il freddo
alito della lama mi sfiorò il collo.
Era finita, avevo
perso la partita... per sempre.
Fine Quinto
Capitolo!