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Autore: theOldEnnui    07/12/2012    16 recensioni
In cui Sherlock convince John a sposarlo, un assassino deve essere incastrato e la terapia di coppia produce alcuni rivolti interessanti.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Mi vergogno quasi a postare dopo tutto questo tempo, ma ho passato un periodo di totale costipazione creativa e scrivere questo capitolo è stata un'impresa da titani... per farvi capire: sono rimasta ferma tipo due mesi e mezzo sulle prime cento parole. DD: Mi auguro taaaantissimo che il prossimo (che se non mi parte la logorrea – come è mezzo successo in questo – dovrebbe essere anche l'ultimo) arrivi un po' prima, ma nel caso in cui no, colgo l'occasione per augurarvi buon natale, buon anno, felice befana e gioiosa pasqua, già che ci siamo v_v
Spero di non aver mandato troppo ooc le mie due bestioline preferite e che tutta la self-indulgent crap di cui è disseminato il capitolo non sia troppo self-indulgent e che soprattutto non sia troppo crap e poi basta-- come sempre grazie mille a chi ha letto, leggerà e un cestino pieno di arcobaleni e imperituro amore a tutti quelli che non hanno peso la speranza.

Un abbraccio!

_________________

 

5.

 

Nancy sta combattendo contro un pomodoro riottoso, che sguscia fra le foglie di insalata nel suo piatto e proprio non ne vuole sapere di lasciarsi infilzare. John la osserva distratto e annuisce, mentre lei gli racconta dei miracoli del pilates e finalmente, con una forchettata trionfale, riesce ad arrestare i tentativi di defezione del machiavellico frutto.

Sherlock sembra essersi dissolto nel nulla. Il buon dottore ha perso le sue traccie pressappoco tre ore e trentasette minuti or sono, quando il grande detective lo ha piantato in asso nel mezzo del lungo corridoio che si dipana dalla porta dello studio di Margaret e poi si biforca, e si biforca, e si biforca, in un dedalo intricato che continua a srotolarsi in apparenza all'infinito.

John non è per niente disturbato dalla prolungata irreperibilità del suo coinquilino: l'idiota ha ogni diritto di disertare la sua compagnia ed il pranzo, e di lasciarsi morire di stenti, se davvero ne sente l'inclinazione-- e poi non è mica come se John avesse trascorso buona parte delle passate tre ore e trentasette minuti ad occhieggiare con nevrastenica aspettativa il suo cellulare, nella speranza – rivelatasi vana – che il dannato marchingegno si decidesse a squillare e a portargli notizie di un certo consulting detective...

Se per qualche inesplicabile ragione Sherlock sente il bisogno di evitarlo, che faccia pure. John è molto più che felice di riuscire finalmente a passare una quantità di tempo che superi i dieci minuti senza che nessuna super-umana intelligenza aliena si lasci andare alla necessità di vomitargli addosso oltraggiate riprensioni sulla pochezza del suo ingegno. E se Sherlock si aspetta che sia John a fare il primo passo e ad andarlo a cercare per prodigarsi in scuse, come accade ogni volta che hanno un alterco, be' allora può continuare ad aspettare per il resto dell'eternità, perché John non ha nessunissima intenzione di accontentare l'insopportabile bastardo per l'ennesima volta, tanto più che non saprebbe per cosa fare ammenda, considerato che non ha idea del motivo per cui abbiano litigato e, in effetti, ora che si ritrova rimuginare sulla questione, non è nemmeno del tutto certo che il bizzarro scambio di battute di cui sono stati protagonisti fuori dallo studio di Margaret possa essere considerato un litigio vero e proprio. È indubbio, in ogni caso, che durante quella conversazione – e possibilmente anche da prima – qualcosa fra loro sia andato in qualche misura storto, lo testimonia la morsa che da un po' tempo a questa parte prende a tormentare le interiora del buon dottore con impietosa tenacia ogni volta che, per distrazione, il filo delle sue elucubrazioni finisce per ingarbugliarsi attorno al pensiero di Sherlock-- oh, ma non importa quanto la dannata morsa sia fastidiosa e gli comprima il petto e gli mozzi il respiro: John è più che deciso a non muovere un solo dito in proposito-- è il turno del grande detective di impegnarsi per raddrizzare la situazione. Il buon dottore smetterà di pensare a lui precisamente ora, finirà il suo pranzo, chiacchiererà con Nancy e poi si ritirerà in camera per leggere un libro o, ancora meglio, per torturare i suoi neuroni con qualche programma tv particolarmente stupido, solo per l'intima soddisfazione di sapere che se Sherlock fosse presente disprezzerebbe con tutto se stesso la natura delle sue scelte ricreative.

Con l'umore corroborato dal motivante monologo interiore che si è appena auto somministrato John Watson, esemplare campione di coerenza, alza la testa e si guarda fieramente intorno per la prima volta da quando ha messo piede nella sala da pranzo e in meno di una frazione di secondo tre ore e trentasette minuti di accalorato soliloquio mentale vengono spazzate via da un'ondata di terrificato sconcerto: la signora Teale è seduta ad un tavolo in fondo alla stanza e sta chiacchierando cordiale con una delle tante, anonime coppie che infestano i dintorni.

Il suo fianco è fatalmente sguarnito di accompagnatore.

John impreca, ma si impone di mantenere la calma.

Non c'è ragione per leggere presagi nefasti dietro alla vaporizzazione all'unisono di Sherlock e del potenziale serial-killer da cui l'idiota ha tentato di farsi ammazzare per i passati tre giorni: può benissimo trattarsi di una coincidenza-- si tratta senza dubbio di una coincidenza.

Magari Teale è solo un po' in ritardo, a conti fatti il pranzo non è iniziato da molto, oppure ha avuto un piccolo diverbio con la sua dolce metà ed è per questo che non le è seduto accanto, sono una coppia in crisi, dopotutto. In fondo è probabile che il vecchio Vincent sia qui, da qualche parte, accasciato su una sedia a tentare di annegare le amarezze della vita coniugale dentro ad una bistecca al sangue e sul fondo di una nutrita sequenza di bicchieri di vino. Il fatto che John abbia scandagliato l'intera area per ben due volte e ancora non sia riuscito ad individuarlo non vuol dire nulla, e anche nel caso in cui volesse dire qualcosa, lasciarsi assalire dal panico non sarebbe di nessun aiuto. Ora, da bravo soldato, prenderà un bel respiro e chiuderà gli occhi per un secondo e se quando li riaprirà l'universo avrà deciso di perseverare nella sua cocciutaggine e di continuare ad apparire caparbiamente scevro da serial-killer e consulting detective allora John agirà, ma con lucidità e freddezza. Manderà un messaggio a Sherlock e se dopo una ragionevole quantità di tempo non avrà ricevuto risposta avvertirà la polizia, poi si impegnerà a scovare Teale e una volta che l'avrà trovato procederà ad estirpare dal suo corpo, ad una ad una, tutte le sue appendici.

Il buon dottore è pronto per scattare in azione, ha già estratto il cellulare dalla tasca, le sue dita stanno scalpitando sulla tastiera e lui sta per alzarsi dal tavolo e precipitarsi fuori dalla sala quando, con soprannaturale tempismo, Teale e Sherlock fanno il loro insperato ingresso: sono insieme e vivi.

Ma soprattutto insieme.

E anche vivi, certo-- il che è innegabilmente un conforto, ma comunque non basta a cancellare il fatto che siano insieme e questo no, non è un conforto. È l'esatto opposto di un conforto, in effetti.

John è in tempesta. Da qualche parte dentro di lui collera e sollievo sono nel mezzo di un feroce colluttazione: il sollievo è forte, ma la collera di più ed è sleale e atavicamente predisposta ad avere la meglio in questo tipo di situazione, i conflitti sono il suo elemento naturale e per quanto il sollievo sia tenace, è chiaro fin quasi da subito che è destinato a soccombere, così quando Sherlock prende commiato da Teale con un sorriso ed uno studiato sfarfallio di ciglia, e in una dozzina di passi raggiunge il tavolo di John e si lascia cadere sulla sedia accanto a lui, il sollievo decide - con ammirabile ragionevolezza - di riconoscere la propria sconfitta e farsi da parte senza ulteriori proteste.

«Oh, Sherlock!» cinguetta gaudente Nancy, dopo averne registrato l'approdo «Finalmente!»
John scocca alla creatura un'occhiata in tralice e infilza con innecessaria veemenza un pezzo della sua bistecca. Vorrebbe dirgli: “dove diavolo sei stato?” e “sei un idiota incosciente!” e “devi smetterla di fare cose stupide come sparire con un tizio sospettato di omicidio per un'intera mattina senza avvertire nessuno!” e “avresti dovuto chiamarmi!” e “se non la pianti di fare cose simili giuro che recupero un paio di manette e ti ammanetto a me per il resto dell'eternità!”, ma decide di rimanere zitto e di concentrarsi sul suo pranzo. Sherlock detesta venire ignorato.

«Dov'eri finito? John era così preoccupato!» lo rimprovera Nancy.

Il volto del detective si contorce con parodistica enfasi in una maschera di rammarico e le sue corde vocali vibrano di mortificata innocenza mentre lui inquisisce: «Lo era?»

«Per nulla!» abbaia John e le parole gli rotolano fuori dalle labbra così in fretta e con così tanto malcelato livore che nemmeno una confessione avrebbe potuto farlo apparire più colpevole, «Non ero preoccupato» rincara poi in un borbottio stizzito, con gli occhi piantati dentro al piatto, come a cercare di convincere della cosa la sua insalata. Anche se non la vede, percepisce ugualmente la soddisfazione che solletica gli angoli della bocca di Sherlock e li persuade ad arricciarsi.

«Oh, e invece lo eri!» lo canzona Nancy, assestandogli uno scherzoso colpetto sulla spalla.

John accoltella una foglia di lattuga e ringhia indispettito: «No che non lo ero!», ma ci sono cose che non puoi fare se sei John Watson, non importa quanto nero sia il tuo umore, e in cima alla lista c'è senza dubbio essere scortese con una bella ragazza. Così mosso unicamente dalla sua ancestrale propensione cavalleresca ed in alcuna misura spinto all'azione dalla volontà prosaica e meschina di suscitare fastidio ed indignazione nell'imperturbabile animo del suo altero coinquilino, John alza lo sguardo su Nancy e le sorride fingendo vago imbarazzo prima di sporgersi un poco nella sua direzione e confidarle: «Ad essere sinceri non mi ero nemmeno accorto che non ci fosse-- con te a tenermi compagnia come avrei potuto? Quando sei in una stanza accorgersi di qualsiasi cosa oltre ai tuoi bellissimi occhi è praticamente impossibile»

Nancy gli scocca un nuovo, languido colpo sulla spalla e si lascia sfuggire una risatina lusingata, che tenta di compensare subito dopo aggrottando la fronte in artefatto rimprovero ed esclamando severa: «John!»

Sherlock, accanto a lui, emette un suono a metà fra uno sbuffo e un grugnito sarcastico, ma dando prova di inusuale assennatezza decide di astenersi dall'articolare a parole lo sdegno che pure, in tutta evidenza, sta ribollendo dentro di lui.

John esulta fra sé e sé, per qualche ragione ineffabilmente compiaciuto.

Nancy riesuma il suo panegirico sulle meraviglie del pilates e il convivio procede tranquillo per alcuni minuti, almeno fino a quando la sventurata fanciulla si trova di nuovo costretta a fronteggiare l'insubordinazione dell'ennesimo piccolo pomodoro malefico, che rotola e sguscia e ingaggia una tenzone senza quartiere contro gli artigli della sua forchetta.

E poi succede.

Quando il fatto si consuma John è ancora troppo impegnato a crogiolarsi nell'abbraccio caldo della soddisfazione per preoccuparsi di quello che sta accadendo davanti al suo naso, ma le sue orecchie, guidate dall'inerzia dell'abitudine, registrano ugualmente i rumori che si inseguono attorno a lui: prima il suono umido delle grinfie metalliche che affondano nella salma della bacca ribelle, seguito subito da un inarticolato gorgheggio di tripudio che, in meno di una frazione di secondo, si tramuta in un rantolo d'orrore, mentre nello stesso momento, da qualche parte al suo fianco, si leva un grugnito oltraggiato e dopo un attimo di silenzio immobile la voce di Nancy si affretta querula ad assicurare: «Oh, Sherlock mi dispiace, non l'ho fatto apposta!»

John alza lo sguardo, incuriosito.

Il grande detective sta trapassando Nancy con un'occhiata mortale, i connotati macchiati da un'espressione torva che oscilla indecisa fra sdegno e sconcerto, mentre l'alabastro impeccabile della sue pelle viene deturpato dal lento trascinarsi delle interiora del pomodoro spirato che gli sono zampillate in faccia dopo che la malaccorta guerriera gli ha inferto il colpo fatale.

Il buon dottore pondera l'affresco che gli si presenta dinnanzi per una manciata di secondi prima di venire sopraffatto da una travolgente ondata di ilarità che lo costringe a premersi con fermezza una mano contro la bocca per attutire i latrati sguaiati che hanno preso a rincorrersi fuori dalle sue labbra.

Sherlock lo pugnala con le stalattiti acuminate nascoste dentro alle sue iridi, prima di proferire con solenne e dignitosa lentezza: «Non è divertente.»

John ride più forte.

Un'ombra pericolosa attraversa il viso del detective, il buon dottore fa appena in tempo a registrarla che l'altezzosa creatura si sta sporgendo in avanti, sta afferrando il bicchiere di vino che John si è versato a inizio pasto e che è ancora per metà pieno e con un gesto secco del polso glielo sta svuotando in faccia.

Il capitano Watson boccheggia incredulo dinnanzi ad un simile affronto.

Ci sono almeno tredici modi in cui potrebbe porre fine all'esistenza di Sherlock Holmes senza nemmeno doversi muovere dalla sua sedia.

Il capitano Watson inala e stringe i pugni finché le sue nocche non sono bianche, poi esala e si costringe a rilassare le mani. Ripete il procedimento un imprecisato numero di volte.

Non ne vale la pena, si dice.

Il capitano Watson si alza in piedi e a passo di marcia lascia la sala da pranzo.

 


 

Chiaramente Sherlock è tormentato da prepotenti tendenze autodistruttive.

La cosa è più che ovvia per John, dopo tutto ciò che ha potuto osservare di lui giunti a questo punto della loro affiliazione: i trascorsi con la droga, lo sconsiderato abuso di cerotti alla nicotina, l'entusiastica leggerezza con cui si getta fra le braccia di ogni sorta di pericolo, la negligenza con cui si dedica ad attività essenziali per la sopravvivenza come dormire e mangiare, e ora questo, che è a tutti gli effetti un aperto tentativo di suicidio. Non c'è nessuna possibilità al mondo che l'uomo più osservante del Regno Unito abbia mancato di cogliere i segni, tutt'altro che velati, della funestissima disposizione d'animo che ha spinto John ad andarsene, eppure ora eccolo qui, solo un'esigua manciata di minuti dopo, che apre la porta della loro stanza e sguscia oltre la soglia-- se non è desiderio di morte questo...

Il buon dottore ringhia a mezza voce, attinge a piene mani dal pozzo quasi prosciugato del suo autocontrollo e con uno scatto rabbiosa si volta verso il muro per risparmiare alla sua retina l'odiosa visione di Sherlock che se ne sta in piedi imbambolato all'altro capo della stanza e lo fissa con un immobile e immenso paio di occhioni blu.

«John», chiama il temerario, ma John lo ignora.

La sua faccia è appiccicosa e la dannata camicia è fradicia e pesante e aderisce alla sua pelle come se avesse intenzione di usurparne l'ufficio e ad ogni respiro le sue narici vengono assaltate da esalazioni etiliche che, con spiacevole vividezza, gli riportano alla mente ricordi del periodo più buio di Harry. John vuole solo farsi una doccia e resistere alla tentazione di strangolare Sherlock. Le sue dita si avventano sui bottoni, ma la collera le rende maldestre e loro inciampano un paio di volte nelle asole, mentre lui grugnisce frustrato e vomita fra i denti un'irripetibile successione di anatemi.

«È stato necessario» chiosa impettita e severa la voce del suo coinquilino, dopo qualche attimo.

«Necessario?!» tuona il buon dottore, che con iraconda efficienza riesce finalmente a strapparsi di dosso la camicia, la appallottola e dopo aver piroettato su se stesso, la scaglia in faccia a Sherlock. «Ti prego,» intima, «spiegami come»

«Hai riso di me!» accusa quello risentito, mentre lotta e trionfa contra il suo aggressore di stoffa che, sconfitto, si accascia al suolo.

«Tu-- » boccheggia John, incapace di trovare una parola in grado di catalizzare tutto il suo sdegno «Bambino!» sputa fuori, stringendo i pugni e raddrizzando la schiena, pronto per affrontare la litigata epica che certo sta per consumarsi fra loro... ma Sherlock se ne è andato. Non fisicamente – è ancora là, in piedi vicino alla porta – tuttavia è chiaro che la conversazione ha perso ogni interesse per lui e che il favore delle sue irrequiete meningi è stato catturato da qualcos'altro-- qualcos'altro che, a quanto pare, si trova sulla spalla sinistra di John.

Il buon dottore viene all'improvviso assalito dalla consapevolezza di essere a torso nudo, con la dannata cicatrice che fa invereconda mostra di sé, mentre le scrupolose pupille del suo coinquilino ne divorano ogni centimetro, con la stessa rapita concentrazione che sono solite riservare solo alle scene di crimini particolarmente interessanti.

John non si vergogna della sua cicatrice, nonostante sappia bene che – in effetti – la cosa non sia un decoro particolarmente gradevole alla vista, però preferisce non esibirla, non per non offendere il suo narcisismo, ma per un bislacco ed illogico senso di possessività: quel geroglifico di carne annodata è suo, così come è suo il dolore che racconta. John non pensa che qualcuno possa arrivare a decifrarlo, nemmeno lui ci è riuscito del tutto, ma l'uomo è un animale curioso e supponente per natura, che adora illudersi di sapere dare un senso alle tragedie altrui e se gliene venisse lasciata l'occasione non potrebbe fare a meno di tentare di capire e necessariamente di fraintendere, per questo John preferisce tenere la dannata cicatrice per sé e risparmiarsi la curiosità morbosa e la pietà. Da quando è tornato dall'Afghanistan non l'ha ancora mostrata a nessuno-- e ora Sherlock Holmes si sta avvicinando e si sta piegando in avanti per poterla esaminare con più accuratezza e il buon dottore quasi non è sorpreso di notare che la cosa non lo infastidisce quanto sarebbe opportuno che facesse.

Vorrebbe essere in grado di recuperare un po' dello spirito bellicoso che lo ha animato fino a qualche attimo prima e ringhiargli contro qualche pugnace recriminazione sulla sua sfacciata assenza di rispetto per le più elementari norme della prossemica, ma dopo tutto quello che è successo fra loro negli ultimi giorni, avere Sherlock così vicino è paralizzante. Sembra sacrilego anche solo il pensiero di spezzare l'incantesimo con cui le iridi febbrili del detective stanno strappando via dalla sue pelle dati e informazioni rilevanti e dai suoi polmoni ogni singola goccia di ossigeno-- ma poi Sherlock alza una mano e la muove cauta verso la sua spalla e John è assalito da qualcosa che assomiglia al panico, perché per qualche ragione pare essersi convinto che se quelle dita bianche e affusolate lo toccassero l'universo potrebbe finire, quindi – non per codardia, ma per umanitarismo – fa un passo indietro e dice: «Sherlock...»

Il detective ritira la mano e si raddrizza in fretta, come un bambino colto in flagrante mentre tenta di trafugare l'ultima fetta di una torta proibita, lo fissa con un'espressione insolita - incerta e appannata – e apre la bocca per dire qualcosa, ma rimane in silenzio.

John si lecca le labbra, esita, stringe i pugni e poi se ne va in bagno per farsi la dannata doccia.

 

 

 

Una manciata di ore più tardi Sherlock si rigira nel letto senza riuscire a trovare pace.

Il buon dottore sbuffa spazientito e strattona il lenzuolo con brusca eloquenza.

L'irrequieta creatura grugnisce in disappunto, ma dopo qualche attimo il fruscio convulso delle coperte si arresta-- dodici secondi di silenzio benedetto e poi la voce del detective fa breccia nel foschia del suo dormiveglia e John si ritrova a pensare che dopotutto, con un po' di impegno, potrebbe benissimo riuscire ad ucciderlo e a farla franca. Ha delle conoscenze fra gli Yarders, in fondo-- magari non Lestrade, ma Donovan e Anderson sarebbero senza dubbio disposti a chiudere un occhio.

«Colpo sparato da vicino,» proclama il suo tormentatore, come se stesse riprendendo in mano le redini di una conversazione appena interrotta e non barbaramente lacerando la quiete della notte col suo poderoso baritono «da non più di due metri, alle spalle, dall'alto verso il basso, la traiettoria suggerisce che tu fossi a terra, inginocchiato, curvo su un paziente, suppongo.»

Ovviamente Sherlock deve esibire il suo genio e ricevere un'appropriata dose di encomi e lusinghe prima di poter dormire sonni tranquilli: «Straordinario» biascica il buon dottore, senza grande trasposto. Non è che non sia impressionato, ma sono quasi le due di mattina e lui si sente ancora più confuso del solito e tutto quello che vorrebbe fare adesso (oltre che disintegrare il suo coinquilino) è rotolare nel dolce oblio dell'incoscienza.

«Qualche centimetro più a destra e saresti morto» lo informa piatta e distante la voce del detective, dopo un lungo silenzio.

John fa una smorfia nel buio, perché davvero-- come se non lo sapesse. «Ma non è successo», assicura piccato.

«Ma avrebbe potuto» ribatte Sherlock, in un mormorio sommesso che pare essere evaso dalla prigione delle sue labbra quasi per errore. Il suo tono non crepita di giusta irritazione per essere stato contraddetto da una mente tanto più elementare della sua, né al suo interno v'è traccia della solita, meritata pretesa di avere l'ultima parola-- John è stupito e gira la testa sul cuscino per guardarlo e tentare di dare un senso a quell'anomalia. La maggior parte del suo volto è solo un'ombra più densa fra altre ombre, tutto quello che il buon dottore riesce a distinguere è il contorno malfermo e volubile del naso e della bocca, appena imbronciata, e lo scintillio degli occhi sbarrati e fissi sul soffitto sopra di lui, che viene incrinato, di tanto in tanto, dal rapido fluttuare delle palpebre che tentano, risolute e discrete, di dissipare il velo di angoscia che è sceso ad offuscare la loro impassibilità.

Lo spettacolo è destabilizzante e se non fosse già sdraiato forse John avrebbe bisogno di sedersi. Non ha mai dubitato davvero l'affetto di Sherlock, ma poterlo constatare ora – palpabile e inaspettato – ha ripercussioni impreviste su di lui. Una forza misteriosa gli strizza le viscere e lo costringe a voltarsi su un fianco, ad allungare una mano e a farla scivolare, cieca ed esitante, sopra alle coperte per saggiare lo spazio vuoto fra i loro corpi, alla ricerca di un punto di contatto: «Ma non è successo» ripete di nuovo, più piano, dopo che le sue dita si sono chiuse leggere e rassicuranti attorno al polso del suo migliore amico.

Sherlock trasale un poco, sorpreso, e lascia cadere il suo sguardo dal soffitto sulle loro mani. Il profilo lungo ed elegante del suo collo trema, mentre lui deglutisce ed il suo pomo d'Adamo sale e si abbassa con surreale lentezza.

«Londra ha più di otto milioni di abitanti», dice. La sua voce, bassa e roca, vibra attraverso il materasso e sguscia lungo la spina dorsale di John e poi discende di nuovo – lenta – in un brivido. «C'erano molte più probabilità che tu morissi in guerra piuttosto che--» Sherlock deglutisce ancora e con piccoli movimenti incerti volta il palmo verso l'alto, fa combaciare ognuna delle loro falangi, poi si forza a continuare, «che quel giorno--» mormora, e nell'oscurità le sue labbra sono percorse da uno spasmo indecifrabile-- una smorfia, o un sorriso, «Piuttosto che-- che tu incontrassi Mike Stamford»

Il cuore di John inciampa, poi si rialza e inizia una corsa forsennata che lo conduce su, sempre più su, e lui all'improvviso se lo ritrova intrappolato in gola, che si dimena e scalcia e pretende finalmente la sua libertà ed è solo con uno sforzo sovrumano che riesce a non sputarlo fuori assieme alle parole che sta pronunciando ora, con voce impastata: «Forse, ma--»

«Lo so, lo so: ma l'hai incontrato e adesso sei qui» lo taglia corto il detective, sbuffando oltraggiato al pensiero che il buon dottore abbia ritenuto necessario rimarcare a suo beneficio una simile ovvietà. «Però è un anomalia statistica», mentre parla allaccia le loro dita assieme e stringe forte. «Ci sono così tanti modi in cui avrebbe potuto non succedere.»

Sherlock alza lo sguardo, dalle loro mani agli occhi di John, che per parte sua sta cominciando ad avere seri problemi a respirare in maniera normale, mentre percepisce con chiarezza l'ineluttabile annegare del suo buon senso sul fondo dell'oceano in tempesta nascosto dentro alle iridi dell'altro. Si schiarisce la gola e dice: «Sherlock...», le dita strette fra le sue si divincolano e scivolano caute lungo al suo palmo, fino a raggiungere il polso e lì si fermano, premute contro alla vena, «Sherlock, mi stai prendendo il polso?»

«La tua frequenza cardiaca è accelerata» accusa lui in un sussurro.

John ruota la mano e le sue dita imitano la posizione di quelle dell'altro. Sotto i suoi polpastrelli il cuore del grande detective è un ballerino goffo, che si sta esibendo in un valzer frenetico e disordinato: «Anche la tua», lo informa.

Smascherati, si sorridono e rimangono a scrutarsi in silenzio attraverso il velo della notte per-- ore? muniti? secondi? Il tempo diluisce e perde ogni forma mentre loro aspettano di scoprire chi dei due sarà il primo a cedere, perché ormai – e lo hanno capito entrambi – un cedimento è inevitabile.

Il buon dottore è moderatamente certo che sarà lui.

Districa il suo sguardo da quello dell'amico e lo lascia precipitare giù, sulle sue labbra perfette, che sembrano cogliere il movimento, e si dischiudono appena. Un'offerta?

John si muove in avanti, e poi esita.

Sherlock deglutisce e prende un bel respiro, poi allunga il collo e preme la sua bocca contro quella dell'altro. Il contatto è fugace e il detective batte in ritirata prima che il suo oppositore abbia modo di contrattaccare. John pensa che questa sia una strategia di battaglia davvero meschina, così blocca con una mano il volto del fuggitivo per arrestarne il ripiegamento e si getta all'inseguimento del bacio. Quando lo cattura il nemico non oppone alcuna resistenza, anzi sembra più che entusiasta di capitolare-- con una mano gli si aggrappa alla spalla e lo trascina sopra di sé, mentre in un attimo di tregua sussurra: «Finalmente»

Finalmente, concorderebbe il buon dottore, se soltanto in questo momento il pensiero di separarsi dalle labbra che ha fatto prigioniere, anche solo il tempo necessario per esalare il suo accordo, non risultasse così fantascientifico, perché – insomma – è notte e sono su un letto, e ci sono polpastrelli affamati che mordono la carne della sua schiena e dei suoi fianchi, e il corpo sotto al suo spinge e si inarca per ottimizzare i punti di contatto, e lui sta baciando Sherlock Holmes e Sherlock Holmes lo sta baciando e lo sta attirando contro si sé come se avesse in progetto di non lasciarlo andare mai più e se anche fosse questa la sua intenzione, rimugina, lui non avrebbe davvero nulla da ridire.

Da un lato John può percepire con spaventosa nitidezza l'inabissarsi del suo autocontrollo, dall'altro nel suo cervello ottenebrato si fa largo il gracchiare flebile di un neurone superstite, che gli sta intimando di darsi un contegno, di comportarsi da uomo e non da sedicenne con l'ipofisi in subbuglio e di fermarsi prima che la situazione precipiti. L'amicizia che lo lega a Sherlock è una delle cose più importanti della sua vita, rischiare di comprometterla per un accesso di dissennatezza sarebbe imperdonabile, oltre che sciocco. Devono prenderla con calma, essere sicuri di volere le stesse cose, devono ragionare a mente fredda e alla luce del giorno e, soprattutto, devono farlo lontani dal letto.

John fa perno sulla sua intorpidita forza di volontà e interrompe il bacio.

«Domani» ansima contro alle labbra di Sherlock, che tuttavia non sembrano molto interessate a stare ad ascoltare quanto ha da dire, e stanno tentando di rincorrere la sua bocca e quando la sua mano arriva a frenare la loro avanzata si lasciano sfuggire un piccolo mugolio scontento, «Domani mattina parliamo di questa cosa» continua il buon dottore mentre fa scorrere la punta del pollice sul labbro inferiore del detective, «Dobbiamo parlarne bene» mormora distratto, rapito da quella morbidezza umida. Sherlock lo scruta per un attimo con uno sguardo annebbiato, ma sorprendentemente intenso, poi annuisce e accenna un sorriso. John preme le loro fronti insieme, alla ricerca di un po' di risolutezza e ripete: «Domani ne parliamo e poi... »

Sherlock annuisce ancora, gli ruba l'ennesimo bacio e promette: «Domani.»

 

 

Naturalmente la mattina dopo, quando il buon dottore apre gli occhi, accanto a lui non c'è traccia di nulla che assomigli ad un consulting detective.

  
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