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Autore: glaenzendefrau    07/12/2012    3 recensioni
Ricapitoliamo, si dice, mentre si rade. Ciao, mi chiamo Seamus Finnigan. Ho stretto un patto che ogni mattina mi scarica una decina di pallottole nel cervello. Non riesco a dormire senza sognare. Il mio lavandino trabocca di tazze di caffè, la lavastoviglie si è rotta. Avevo una ragazza. Mi ha lasciato la settimana scorsa. Ero troppo strano per lei.
Sono un Babbano.

[Quarta classificata al concorso "Dieci decimi di contest!" indetto da ferao sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Remus Lupin, Seamus Finnigan
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da Epilogo alternativo
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Le conseguenze

Le conseguenze









Torna ogni notte.

Quando Seamus Finnigan appoggia la testa sul cuscino e cede al sonno, lei si insinua dentro la sua mente vulnerabile, priva di difese. Gli vuole ricordare che, per quanto possa fingere di vivere durante il giorno, sballottato tra lavoro, metropolitana e cibo, lei è sempre alle sue spalle e attende l'occasione per abbracciarlo e porre fine al loro legame. Scivola silenziosa in quella dimensione a metà tra sonno e veglia per controllare che lui sia ancora vivo e non, come invece spera, che sia accasciato tra le lenzuola con lo sguardo sbarrato e il viso pallido, pronto per essere ghermito.

Lui non le può sfuggire.

Nel sogno, Seamus ha diciassette anni. Corre lungo il sentiero tortuoso che conduce alla Foresta e si lascia alle spalle il castello in fiamme, le grida roche dei Mangiamorte e gli echi delle Maledizioni Senza Perdono. Ogni volta che le suole delle sue scarpe da tennis colpiscono il terreno Seamus sente una fitta di dolore che gli arriva fino alle tempie, ma non osa fermarsi.

Incurante dei rami che gli sferzano le braccia e delle radici che lo fanno incespicare, si addentra nella Foresta, sempre più stanco, sempre più lento. Le creature che si nascondono tra alberi si agitano e ringhiano, ma lui si costringe ad ascoltare l'eco del suo respiro spezzato.

Non è il momento, pensa, a fatica, mentre alza una mano per proteggersi dalle spine di un arbusto troppo cresciuto. Apre la bocca, alla disperata ricerca d'aria. Per preoccuparmi anche di questo.

Farò qualsiasi cosa, ansima. I sassolini del sentiero si insinuano nei calzini e i graffi sulle guance gli bruciano. Qualsiasi cosa, ripete, ignorando le gambe che gridano pietà.

Dita invisibili gli solleticano la pelle e lui agita le mani per scacciarle. Fate, pensa. Zigzaga tra i platani che piegano i loro rami nel tentativo di catturarlo e funghi che scoppiano, gonfi di veleno. Non si ricorda più qual è l'incantesimo che serviva a scacciarle. Forse bisognava imprigionarle con il latte, lo zucchero e le rose... no, quello lo faceva sua nonna sulla porta di casa, quando la luna era piena e non calante come adesso.

Deve distrarsi. Deve raccontarsi queste favole, o verrà annientato dall'immagine di Dean che viene sbalzato via da un lampo arancione e abbandonato per terra con braccia e gambe talmente scomposte che avrebbe dovuto urlare di dolore, avrebbe dovuto farlo, se non cazzo, no, non è possibile, no...

Solo quando le chiome degli alberi coprono la luce della luna e i bagliori delle fiamme provenienti dal castello Seamus si ferma. Con il sapore del sangue sulla lingua e le orecchie che sembrano scoppiare, appoggia le mani sulle ginocchia ed esplode in un gemito di stanchezza, rabbia, disperazione. Non vede più nulla, non sente più nulla, non ha nemmeno la forza di cercare un nascondiglio. Quello che vuole è solo abbandonarsi sul terreno freddo e raggomitolarsi nel fango, come un bambino senza casa.

Lo prometto, pensa ancora, mentre strizza gli occhi per abituarsi all'oscurità. L'odore del muschio gli fa pizzicare il naso. Ti prego, ti prego, pensa, e non si accorge che in realtà sta urlando, che l'eco della sua voce sta rimbalzando sui tronchi muti senza risposta. Lo prometto. Farò qualsiasi cosa. Ho fatto qualsiasi cosa.

In quel momento il sospiro acquoso della banshee echeggia nell'aria. Seamus alza il viso, spaventato, e lei è lì, con la magia che le scorre nelle vene e rende di porcellana la sua carnagione che in realtà sarebbe verdastra. Fluttua lenta verso di lui, con i piedi che sbucano dalla lunga veste nera e penzolano a pochi centimetri dal terreno, le labbra pallide incurvate a mostrare la sua dentatura candida e regolare, così umana. Così falsa, si dice Seamus.

« Ah, figlio di Ryan » mormora con voce flebile. « ricorda il patto che abbiamo stretto ».

Abbassa i suoi occhi scuri, occhi da cerbiatto, da animale selvatico, fino a incontrare lo sguardo di Seamus, poi si infila le lunghe dita nella gola che per anni ha predetto e cantato la morte dei fratelli, degli zii, degli antenati della famiglia Finnigan. Con uno spasmo, estrae dalla sua bocca bianca una perla di luce, talmente luminosa che lui è costretto per un attimo a strizzare le palpebre e a schermarsi la vista.

« Guarda » gli ordina lei, suadente. « I tuoi poteri, i poteri che mi hai offerto ».

Lui allunga la mano verso la scintilla, rapito come un bambino di fronte a una scatola di caramelle. Salta nel tentativo di riprendersela, di sottrarla alle unghie di quella donna terribile e inumana. È mia, pensa. È sua quell'energia bianca, quella forza che permette di scacciare le fate e trasformare le tazze da tè in topi. Sua.

Desidera disperatamente tornare indietro. Vuole vedere i capelli della banshee diventare stopposi e secchi, la sua figura incurvarsi e rattrappirsi fino a scomparire, anche se sa che non succederà. È il prezzo da pagare, l'ha stabilito lui stesso.

Seamus annaspa. Il suo braccio è teso verso l'alto, tremante, eppure lui non riesce nemmeno a sfiorare la perla di luce. Piega le ginocchia e si slancia di nuovo con un grugnito. I tendini si allungano e i polpacci tremano, ma la sua magia resta saldamente stretta tra le grinfie della banshee. Digrigna i denti e salta ancora, ancora e ancora, fino a quando il suo corpo diventa troppo pesante per tendersi; allora si lascia andare, frustrato.

La banshee alza un lungo indice di fronte a Seamus, perentoria.

« Non toccare ».

Alza la testa e lascia cadere la perla di luce sulla lingua, per poi deglutire con gli occhi chiusi e un sorriso di piacere dipinto in volto. Seamus trattiene il fiato. Si sente menomato, come se qualcuno gli avesse strappato un arto e l'avesse lasciato sul terreno a sanguinare. Serra i pugni e conficca le unghie nei palmi delle mani per accertare che gli arti siano a posto, per rassicurare il suo corpo che si sente vuoto – eppure il senso di perdita è così forte che sembra distruggerlo pezzo a pezzo. Sente le lacrime bruciare dietro le palpebre, come se fosse un bambino sgridato dalla madre. Si odia. Si odia perché non riesce a sopportare i termini del patto come vorrebbe.

La banshee si lecca il pollice con gusto, raccogliendo gli ultimi, invisibili frammenti di magia attaccati al polpastrello. Mentre la lingua saetta rosa sulla pelle, continua a fissarlo con quegli occhi liquidi, neri. Lui sa che la banshee non ha intenzione di perdersi ogni suo movimento, che sia quello del torace che si alza e si abbassa o della testa che si incassa tra le spalle.

« Ricorda » gli ripete dolcemente. « Ricorda che noi saremo insieme fino alla fine ».

Le cinque dita della banshee diventano livide e si allungano lente fino a trasformarsi in stiletti scuri. Seamus manda un suono strozzato per la paura e muove un passo indietro nel tentativo di fuggire, ma prima che possa arretrare ancora le lance gli trapassano il viso, il torace, le gambe.

Il suo respiro si spezza per un attimo. Non riesce a muoversi. Non prova dolore, solo la sensazione che nulla, nulla – neppure il cuore, il cervello, il fegato – gli appartenga più, sfiorato, premuto, rimescolato com'è da quegli aghi scuri e lunghi. La vista gli si annebbia e sente le ginocchia sfregare sul terreno. Vorrebbe grugnire per il colpo improvviso, ma non riesce neanche ad aprire la bocca. È un pupazzo nelle mani di una ragazzina troppo grande per i giocattoli.

La banshee si china inesorabile verso di lui, mentre anche l'altro braccio si scurisce e gli cinge le spalle in un abbraccio. Il suo alito sa di fiori appassiti, melma e naftalina: è l'unico difetto che la magia non è riuscita a modificare, a mascherare, a cancellare.

Seamus ordina al suo corpo di svegliarsi, per Merlino, di sottrarsi al respiro puzzolente della banshee, alle zampe sottile che adesso stanno correndo rapide sulla sua schiena: è inutile. Il panico lo sommerge.

Adesso morirò, pensa con il sudore che gli cola sulla nuca. Morirò in ginocchio e non posso nemmeno urlare.

Lineamenti delicati occupano il suo offuscato campo visivo. Con il naso gli sfiora la fronte, le sopracciglia, le labbra.

L'aria puzza di formaldeide, carne marcia, cenere.

Il viso della banshee, accompagnato da un sospiro, scivola dentro la testa di Seamus. Lui inarca la schiena per la sorpresa mentre lei attraversa, silenziosa e indolore, la scatola cranica, il cervello, ancora la scatola cranica.

I sensi iniziano a spegnersi. La vista si offusca, il suo naso smette di respirare quel tanfo insopportabile. Le dita da ragno hanno cessato di rovistare e si sono fermate.

« Ah » esala la banshee, i boccoli scuri che le spuntano dalla nuca di Seamus e gli coprono la schiena. « Pare che non sia ancora giunto il momento, dopotutto ».

Un altro sospiro, che fa tremare la colonna vertebrale. Le parole della falsa strega si trasformano in un ronzio, un indistinto rumore di fondo.

*

Seamus Finnigan spalanca gli occhi e si ritrova ad ansimare. Le lenzuola sono attorcigliate attorno alle sue gambe così strettamente che gli sembra di essere legato. Il viso della banshee indugia ancora per un attimo sul soffitto, poi scompare.

Si passa una mano sulla nuca bagnata di sudore e inspira con forza, nel tentativo di tenere a bada gli scatti del suo cuore impazzito. Le tempie gli pulsano così forte che sembra stiano per scoppiargli da un momento all'altro. Grugnisce. È come se quella dannata strega gli avesse riempito la testa di pietre appuntite.

Deve smetterla di entrare nei miei sogni, pensa, mentre solleva le braccia e le osserva alla debole luce che filtra dalle tapparelle abbassate. Nessuna traccia di graffi, com'era prevedibile. Si preme il petto con un pugno, ma le nocche non affondano nel torace. Li rende troppo lucidi. Con un calcio si districa dalle coperte e solleva le ginocchia. Sono pulite, senza strisce marroni e secche a testimoniare una nottata passata bocconi nel fango.

Si appoggia alla testiera del letto e si massaggia le palpebre con due dita. È a casa, è a Londra, è al sicuro, eppure si sente ancora tremare. Allunga un braccio per afferrare la sveglia digitale sul comodino. Le cinque.

Combattendo contro l'impulso a sdraiarsi di nuovo, staccare la spina dell'orologio e trascorrere, inerte, il resto della giornata sepolto sotto le coperte, Seamus lascia penzolare le gambe oltre il bordo del letto, puntella i gomiti e si alza. Non appena si trova in posizione eretta, la stanchezza crolla su di lui come un'incudine. La testa ciondola avanti e indietro, carica di fango. Nonostante ieri sera Seamus abbia mandato giù tre pasticche di sonnifero nel tentativo di trascorrere una nottata chimicamente serena, quella dannata strega è riuscita lo stesso a infiltrarsi nel suo cervello.

Osserva trasognato il piumone scivolare dal letto e cadere ai suoi piedi, senza avere la forza necessaria a piegarsi per raccoglierlo. Lascia vagare lo sguardo sul pavimento polveroso della stanza, sulle magliette non abbastanza sporche per essere infilate nel cestello della lavatrice ammucchiate sopra la sedia della scrivania, sulla cravatta attorcigliata attorno alla maniglia della finestra decorata da ditate. Devo mettere in ordine, si ricorda, anche se sa che il suo muto rimprovero sarà presto dimenticato.

Rinuncia a cercare le pantofole e, con la sensazione che un trapano stia cercando di forargli il cranio, si dirige verso il bagno per una doccia calda.

*

Seamus passa il palmo della mano sul vetro appannato e cerca di riprendere contatto con il giovane che lo scruta torvo dall'altra parte dello specchio. Finge di ignorare le occhiaie viola, la bocca piegata in una smorfia, poi prende il rasoio e se lo avvicina alla guancia.

Ricapitoliamo, si dice, mentre si rade. Ciao, mi chiamo Seamus Finnigan. Ho stretto un patto che ogni mattina mi scarica una decina di pallottole nel cervello. Non riesco a dormire senza sognare. Il mio lavandino trabocca di tazze di caffè, la lavastoviglie si è rotta. Avevo una ragazza. Mi ha lasciato la settimana scorsa. Ero troppo strano per lei.

Sono un Babbano.

La lama apre un graffio sulla pelle. Seamus sussulta, si lascia sfuggire un'imprecazione e fa cadere il rasoio nel lavandino.

Sono un Babbano.

Si sforza di ricacciare indietro il singhiozzo di rabbia che gli sta sfuggendo dalle labbra. Il suo riflesso ha il volto contratto e la mascella rigida. Il taglio è appena sotto il mento, poco profondo, ma non smette di sanguinare. Senza muoversi, osserva una goccia rossa gonfiarsi, scurirsi e poi, troppo pesante per resistere, macchiare la pelle sottostante.

D'istinto serra un pugno e lo solleva come a voler colpire il bordo del lavandino, poi rinuncia e si limita ad appoggiare il palmo della mano sulla porcellana disseminata di peli.


« Ti sarebbe piaciuto che fosse andato un po' più in basso? Un po' più profondo? » chiede Seamus, piano. L'acqua continua a scorrere, il graffio a bruciare. La domanda si spegne sulle quattro mura bianche del bagno e rimane senza risposta.

*



Non appena chiude dietro di sé il portone dell'edificio, la nebbiolina grigiastra di Londra gli offusca la vista. Mentre si stringe la sciarpa attorno al mento, Seamus rabbrividisce. E dire che siamo a marzo, pensa, infilando le mani in tasca. Tutta questa foschia, non è normale... proprio per nulla. Anche i pochi passanti sono ingobbiti, con i volti lividi che spuntano dai baveri del cappotto sollevati. È anomalo.

Scuote la testa: no. Si dirige a grandi passi verso il familiare cartello bianco e rosso della metropolitana londinese, deciso a non pensare.

*

Le lampade del vagone sfarfallano fioche, mentre il treno sfreccia nel tunnel. Seamus si rilassa sullo schienale di plastica blu del sedile, poi chiude gli occhi e stende le gambe, assicurandosi di non tirare pedate a sussiegose vecchiette o a nottambuli che tornano a casa dopo una serata insonne.

Incrocia le braccia al petto per scaldarsi. Vorrebbe racimolare qualche minuto di dormiveglia tra la puzza di sudore e il monotono lamento delle ruote dei binari, ma l'acuto stridio dei freni e gli scossoni che preannunciano l'arrivo alle stazioni lo irritano. Sbuffa. Si volta di lato e appoggia la mano sulla guancia. Le luci si insediano sotto le palpebre ed esplodono in lampi dolorosi nella testa.

« Ricorda ».

Seamus sussulta. Appollaiata sulla sedia di fronte alla sua, la banshee lo sta fissando impassibile. Le unghie lunghe ticchettano contro il plexiglas.

« Lo so » risponde Seamus. Gli costa uno sforzo enorme rispondere, come se avesse bisogno di estrarre le parole una per una dalla gola. Deglutisce. « Perché non mi lasci dormire? Non ti basta quello che ti ho dato? ».

La banshee giocherella con i bottoni dei polsini della sua giacca doppiopetto, senza sollevare gli occhi. I pantaloni si arrotolano in pieghe morbide attorno alle sue caviglie. Una valigetta di pelle marrone è abbandonata sotto il sedile. Una perfetta impiegata, pronta per una giornata di duro lavoro in ufficio, pensa Seamus.

« Sta per succedere qualcosa, figlio di Ryan » La voce della banshee fende l'aria come un rasoio. Il viso le si contrae in un'espressione bramosa, mentre tende verso di lui la sua mano tremante, pronta ad artigliarlo. Seamus appoggia la testa al finestrino, incassa la testa tra le spalle e prega che tutto finisca lì e ora, che la banshee sparisca in uno sbuffo di fumo, ma lei ridacchia e lascia cadere le sue ultime parole, pesanti come sassi.

« E io sono stanca di aspettare ».

Gli occhi della banshee sono torbidi, scuri. Folli. La maschera da bambolina si sgretola e lascia lo spazio alla creatura, alle rughe che le deturpano le guance, al mento appuntito, al naso adunco. Per un attimo Seamus ritorna un bambino nascosto sotto le coperte della sua cameretta, che si tappa le orecchie per non sentire l'orribile nenia della vecchia. Prende ilcuscino e se lo stringe intorno alla testa, mentre suo nonno rantola e la donna urla.

Poi, in un battito di ciglia, lei non c'è più. Sotto il sedile ci sono solo batuffoli di polvere e vecchie cartacce. Seamus si alza, stordito: il treno sta rallentando e la banchina della stazione scorre già davanti al suo sguardo. Un vago odore di marcio si mescola all'aria secca sputata fuori dai condizionatori. Nell'attraversare le porte che si sono aperte silenziose e docili davanti a lui, Seamus trattiene il respiro.

*

Quando riemerge all'esterno, Seamus si lascia sfuggire un'esclamazione e, d'istinto, muove un passo indietro.

Decine di uomini avvolti in pesanti mantelli porpora e verde bottiglia, raccolti in drappelli, si aggirano furtivi per le vie della città ancora silenziosa. Alcuni di loro si torcono le mani, altri hanno un'espressione trasognata, come ricci abbagliati dai fari di un'automobile. I loro visi, illuminati dal debole chiarore che precede il sorgere del sole, sono lividi e tirati. Camminano rasente i muri scrostati e ricoperti di colla di vecchi poster del lanificio caduto in disuso che loro – Seamus lo sa – chiamano Ministero della Magia. Seamus abbassa la testa, si concentra sul movimento cadenzato dei suoi passi e finge di non notare gli uomini barbuti che aspettano pazienti il loro turno per infilarsi in una cabina telefonica rugginosa.

Maghi. Sono gli uomini che scivolano veloci accanto a lui con un braccio sempre nascosto tra le pieghe del loro pastrano, uomini che si farebbero mozzare una mano piuttosto di perdere la loro bacchetta. Maghi. Portano grandi cappelli conici, tre orologi per ciascun polso e gonne a fiori. La maggior parte degli umani sgranerebbe gli occhi al loro passaggio e i bambini punterebbero le dita verso quei buffi signori; se solo sapessero, pensa Seamus, che dietro gli sguardi persi e i baffi arancioni c'è molto più che semplice follia.

Passa accanto a due streghe basse e corpulente.

« Neppure con un calderone intero di Pozione Polisucco ci sarebbe riuscito, Margaret! » sussurra la più anziana, con i capelli bianchi raccolti in una crocchia.

L'altra annuisce seria, le sopracciglia corrugate che contrastano con le guance rubizze. Tra le dita grassocce stringe un contenitore oblungo di vetro, colmo di liquido color arancio. Bolle gialle galleggiano placide in superficie e scoppiano con dei pop simili a un colpo di tamburo. Quando la donna agita la fiala, la schiuma tintinna sulle pareti, allegra.

Seamus si chiede se riuscirebbe a strappare di mano alla strega quella dannata fialetta e versarsela tutta in bocca: la pozione lo sta chiamando e lui non vuole disobbedirle, affatto. Non gli interessa se poi i suoi occhi si gonfieranno, i capelli gli cresceranno fino a toccare terra o gli scioglierà le gambe; lui deve berla, subito, subito.

« Ha ingannato la sua famiglia per mesi, mesi! » L'incanto si spezza. Seamus sbuffa e fissa rancoroso la vecchia che si sta mettendo una mano sulla fronte, infervorata. « E non che nessuno se ne sia accorto! Come se fosse lui, uguale! ».

Margaret sospira, solidale. Entrambe, assorte nella loro conversazione, non si sono accorte del ragazzo senza potere che scuote la testa per schiarirsi le idee e liberarsi dai fumi della loro pozione.

I loro sguardi scivolano su di lui disinteressati, vuoti.

Seamus vorrebbe afferrare una di queste streghe tonde per uno dei lembi fruscianti delle loro vesti e supplicarle di riportarlo a casa, tra scintille rossi e verdi, decotti che scatenano la ridarella o lasciano crescere l'infatuazione; eppure, dopo aver teso la mano a pochi centimetri dalla stoffa color porpora, la lascia cadere.

Se ritornasse nel suo vecchio mondo sarebbe costretto a trascinarsi in una mezza esistenza, tra bustine di tè saltellanti e animali stregati che non sarebbe capace di tenere a bada. Non vuole ritrovarsi come il vecchio Gazza a scacciare, scopa in mano, studenti impertinenti e poltergeist impazziti. Non ha bisogno di diventare lo zimbello delle feste, costretto a sopportare le chiacchiere dei suoi ex-compagni riguardo le prodezze magiche dei loro figli, o le loro brillanti carriere da Auror che lui non potrà intraprendere.



Seamus si stringe la sciarpa sul mento per attutire lo sbuffo amaro che gli esce dalla bocca. Davanti alla sua scuola, diventata nient'altro che una grotta sbarrata da assi di legno e un cartello giallo e rugginoso con la scritta Pericolo dipinta in lettere cubitali, Seamus aveva giurato di chiudere per sempre con bacchette magiche e fatture.

Sono troppo debole.

Quando gli avevano offerto un impiego in un caffè a pochi passi dalla fabbrica chiusa da settant'anni, Seamus aveva accettato e si era persino trasferito in un monolocale polveroso a mezz'ora dal bar. Può anche raccontarsi delle scuse, dirsi che gli piace servire cappuccini, spremute e tortine, ma la verità è che lui lavora solo per tenere d'occhio i maghi attraverso la polverosa vetrata del suo locale. Sta ai margini del loro mondo e, nonostante tutto, ancora spera di strappare qualche scintilla dorata e rigirarsela tra le mani. La magia gli manca. È come un arto amputato che a volte prude, a volte pulsa e trema nel tentativo di muoversi ancora.

Ogni tanto Seamus si scopre a frugare nelle tasche dei pantaloni per cercare la vecchia bacchetta che lo aiuti a recuperare i calzini nascosti sotto il divano o a fare il letto. Quando le sue dita sfiorano le briciole di pane imprigionate nella fodera, è sempre troppo tardi.

« Ehi, guarda dove metti i piedi! ».

Un vecchio con le guance cascanti e il doppio mento gli lancia un'occhiata di disapprovazione, prima di chinarsi a raccogliere una bombetta verde acido. Seamus trasale. Lui conosce quell'uomo rotondetto: l'ha visto lanciare occhiate boriose al di là di un foglio di giornale. Ruotava la testa e puntava un dito verso i lettori, come a dire sì, sistemerò tutto, credetemi, sì.

Seamus sussurra una scusa, poi si allontana da Cornelius Caramell, turbato, senza voltarsi.

*

Dagli strilli spaccatimpani che provengono dal locale Seamus capisce che Jocelyn è già arrivata. La sua collega è chinata verso la macchinetta del caffè e sta cantando a squarciagola una discutibile versione di Time is Running Out. Seamus geme, ma il suo lamento è coperto da un acuto più passionale degli altri. Le urla gli si conficcano nella fronte come spilli.

« I wanna freedom, bound and restricted... ».

« Joss, vuoi tirare giù il bar?!» grida Seamus per tenere a bada quei suoni disumani. « Lo sai che Matthew Bellamy non ti ammetterà mai nel suo gruppo, vero? ».

Jocelyn schiocca le dita, accenna una piroetta e, finalmente, riduce i suoi strilli da doccia in un quieto canticchiare. Si asciuga le mani nei jeans, per poi sorridere e saltellare verso Seamus, i boccoli rosso fragola che le rimbalzano sulle spalle. La punta del naso è macchiata di marrone.

« Ciao, Seamus » lo saluta. Gli assesta un colpetto sulla spalla. « Contento di essere al mondo come sempre, a quanto vedo ». Lo scruta con attenzione, poi pare notare il pallore di Seamus e le sue occhiaie violacee, perché sospira. « Oh, capisco. Nottataccia, come sempre?».

Lui si limita a grugnire: sarebbe troppo complicato da spiegare. « Senti, Joss, non avresti qualcosa per il mal di testa? ». Stamattina ha infilato la mano nel cassetto e ha rovistato in cerca delle sue pastiglie, ma ne ha estratto un blister vuoto, le capsule di plastica tutte schiacciate.

« Hmm ». Jocelyn si picchietta un dito sul mento, poi si tortura l'anellino d'argento che porta sul labbro. « Dovrei avere un po' di paracetamolo ».

« Qualsiasi cosa mi va bene, basta che me lo faccia passare ».

« Aspetta ». Si rovista nelle tasche dei jeans e scuote la testa. Si volta. « Dev'essere nella borsa » mugugna.

« Grazie, Joss. Sei la mia salvezza ».

« Oh, lo so, lo so. Hai esaurito la mia scorta annuale di pastiglie, dopotutto. Quasi quasi te le faccio pagare. Anzi, no: dico direttamente a mia madre di detrartele dallo stipendio, così facciamo prima. Con un piccolo extra. Guarda che l'ho sentito il commento sulle mie doti canore » lo canzona.

Seamus segue con lo sguardo Jocelyn che si infila nello stanzino angusto dove appendono borse e cappotti. Si muove così rapida che prova un senso di nausea solo a guardarla. Devo essere proprio messo male, pensa, con una risatina roca.

« Ah, eccola! Cazzo, devono essere finite in fondo ». Persino da quel buco si riesce a sentire il suo sbuffo di irritazione. « Seamus » lo chiama poi. « Ma hai visto tutta la gente strana che c'è in giro oggi? Non è che facciano parte di una setta, vero? » Seamus contrae il volto in una smorfia. « Gente strana? » chiede, così candido e disinteressato che non riesce neppure a ingannare se stesso.

« Non dirmi che non li hai visti, mo mhíle stór, perché nessuno ci crede ».

« Non parlare in gaelico, che hai una pronuncia terribile ».

« Ah ah » dice Jocelyn allegra. « Qui c'è qualcuno che sta cercando di sviare il discorso, mi sa. Hai qualche parente tra tutti quei cappelli a punta? Qualche scheletro nell'armadio, qualche vecchio prozio imbarazzante che semina panico ai pranzi di famiglia? Io avevo una nonna che metteva il sale nel tè senza accorgersene: potremmo scambiarci le nostre esperienze... Oddio ». Joss si lascia sfuggire un verso inorridito, simile a quello che rivolge ai clienti quando ordinano un bicchiere di bibita a temperatura ambiente. « Dimmi che non conosci nessuno che porta i cerchietti per capelli, perché potrei seriamente farti licenziare ».

« No! » esclama Seamus con più veemenza di quanto desideri. Il faccione largo della Umbridge ondeggia, flaccido e imbellettato, davanti al suo sguardo. Trenta punti in meno a Grifondoro, signor Finnigan. No, non provi a protestare. No, per l'ennesima volta, non tratteremo del Sortilegio Scudo. Insiste? Sta insistendo? Corre verso lo sgabuzzino, con la borsa a tracolla che gli sbatte violenta sul fianco.

Scopre una Jocelyn seduta per terra a gambe incrociate, con la borsa ricoperta di spilline appoggiata in grembo e cinque o sei assorbenti interni stretti in pugno. Seamus apre la bocca per sviare il discorso e pregarla di darle quella maledetta pastiglia, subito, ma la curiosità morbosa ha la meglio.

« Chi era? »

Joss solleva le sopracciglia, stupita. « Una tizia che non faceva altro che fissarmi ». Rabbrividisce. « Dio, sembrava volesse tirare fuori una lingua lunghissima e inghiottirmi la testa tutta intera. Scommetto che non vedeva l'ora di raparmi a zero, quella brutta vecchiaccia. Voglio dire, che cosa c'è di male in una tinta rossa, mi chiedo? Non sono color arcobaleno » Si afferra una ciocca di capelli e la agita davanti a Seamus con foga, come se brandisse uno spolverino. « Per fortuna che c'era un gruppo di tizi in blu che l'hanno presa per il gomito e l'hanno portata via. Hanno detto qualcosa tipo chiameremo qualcuno dopo, signora Cartridge, non si preoccupi... o almeno credo ».

Merda, pensa Seamus.

« Non è che ci distruggono il bar, adesso? È tutto in regola, vero? » Joss lo agguanta per la manica. « No, sai, è che avevano una faccia... insomma. ». Abbassa gli occhi e giocherella con una spilla rossa dei Foo Fighters. « Strana. Parlavano sottovoce, all'orecchio, poi si lanciavano certe occhiate... Ed erano tutti seri, composti, come se stessero andando a un funerale, o in un'aula di un tribunale. Poi avevano 'sti distintivi argento che ancora un po' gli coprivano metà petto. Secondo me erano davvero membri di una setta, a pensarci bene. Ehi! ».

Seamus sfila il braccio dalle unghie di Jocelyn e si gratta le guance arrossate. Il Wizengamot, certo. E sono pronto a giocarmi... no, non sono pronto a giocarmi più niente, ma sono sicuro che c'è la corte plenaria in giro. Seamus fissa distratto l'appendiabiti divelto e le sedie scompagnate ammucchiate in un angolo dello sgabuzzino. Nella sua testa i maghi che passeggiano come gatti nelle strade, la Umbridge e donne corpulente nella loro uniforme color melanzana si fondono, giocano, si mescolano, senza legame, senza un motivo.

Scuote la testa. Le parole della banshee, non volute, aleggiano ancora nell'aria, tra i batuffoli di polvere e i pezzi di intonaco che cadono.

« Sta succedendo qualcosa » mormora Seamus.

« Come? ».

« No, niente ».

Jocelyn sbuffa, ma non commenta mentre si rialza dal pavimento. Seamus sa che muore dalla voglia di sapere cosa lui nasconda al di là del bancone: lo capisce dai suoi che cosa ci sarà mai su quel marciapiede che ti interessa così tanto, accompagnati da una risata che non riesce a nascondere la curiosità nei suoi occhi tondi da assiolo.

Ogni tanto lui si accorge delle sue occhiate in tralice, delle spalle sollevate, della bocca aperta in una domanda muta. Anche se nonostante tutto non si è mai spinta al di là di quelle piccole punzecchiature e alle pastiglie effervescenti per l'emicrania, come se sapesse che avrebbe potuto riaprire i lembi di una ferita male rimarginata.

Seamus fissa i riflessi artificiali che le lampadine da dieci watt proiettano sui capelli rossi di Joss e, di colpo, lo assale un terribile pensiero.

« Mmmh, Joss, ma non è che anche la tizia col cerchietto era vestita di blu, vero? » butta in tono casuale. Ti prego, fa' che almeno questo non sia successo. Almeno questo.

Lei aggrotta le sopracciglia. « No, mi pare di no. Portasse una giacca. Anzi, no, portava un golfino color caramella. Dio, ora mi ricordo: aveva i fiocchetti sulle tasche. Sulle tasche! Alla sua età! Non trovi anche tu che sia tanto kitsch? ».

Merlino, ti ringrazio.

« Sei sollevato ».

« Oh, sì che lo sono. Almeno ho la certezza che non sarà una vecchia rospa a distruggere il mio posto di lavoro, no? ».

Joss manda una risatina acuta, poi soffia via una ciuffo ribelle di capelli che le rimbalza davanti agli occhi. « Beh, adesso come adesso sembra una cazzata – no, ho sbagliato, è una cazzata – ma devo dire che al momento, non so... ». Si sfrega la punta del naso, pensierosa. « Mi sono sentita piccola, di fronte a loro. Erano stravaganti, erano bizzarri, con le loro vesti che spazzavano il marciapiedi e i cappelli conici, eppure mandavano una certa forza, che, boh, avevo l'impressione che avrebbero potuto fare qualsiasi cosa. Ma proprio qualsiasi. Capisci? Anche schiacciarmi in due come una nocciolina ».

Per un attimo Jocelyn sembra aver dimenticato che Seamus è lì, vicino a lei, assorta, assente, gli occhi socchiusi, fissi in un punto in lontananza. Scuote la testa, come se stesse emergendo dall'acqua o si stia svegliando da una dormita. « Dici che mi faccio troppe canne? » chiede.

Seamus vorrebbe prenderla per mano, portarla fuori, rubare una bacchetta a un mago, agitargliela davanti al suo naso ancora sporco e poi urlarle che sì, la magia esiste, esiste davvero, esiste e lui non ce l'ha più e che i suoi discorsi lo esaltano e lo lacerano al tempo stesso. Ma le parole gli si incastrano in gola. Prima che però possa emettere un suono, un qualsiasi verso, Joss lo ferma.

« A ogni modo, penso di aver trovato quello che cercavi » lo informa. Gli mostra una pastiglia tonda, ricoperta di lanugine nera. « O almeno, credo che serva per il mal di testa » dice, dubbiosa. « Potrebbe essere quella per i dolori mestruali... Scherzavo » si affretta ad aggiungere, notando l'espressione di Seamus.
Lui sospira, mentre allunga la mano. « Correrò il rischio ».

« Allora, si batte la fiacca, eh? ».

Seamus e Jocelyn trasaliscono entrambi. In piedi sulla soglia dello sgabuzzino Rachel Byrne, proprietaria del locale, si mette le mani sui fianchi e getta loro un'occhiata assassina. « Perché non siete già al lavoro? » sillaba.

« Scusa, mamma ». Jocelyn saltella verso di lei, le arruffa i corti capelli biondi, le accarezza le guance leggermente incavate. « Seamus aveva bisogno di qualcosa per il suo mal di testa ».

« Ancora? » grugnisce lei. « Santo cielo, ragazzo, non avresti fatto meglio a lavorare in una farmacia? ». Tuttavia, mentre parla, gli angoli della bocca le si incurvano in modo inequivocabile. « Su, forza, datevi una mossa ».

*

Seamus appoggia un cappuccino e un muffin al cioccolato sul bancone di legno lucido e sorride rivolto al suo avventore, un ometto dal naso adunco e la barba grigiastra. Il tizio mormora un grazie basso, flebile, simile allo squittio di un topo.

Con un sospiro, si volta verso la macchinetta del caffè. Il ruggito che rimbombava nella sua testa è scemato fino a ridursi a un miagolio troppo lontano per causare davvero dolore; come se non bastasse, la mascella gli si è indolenzita a furia di stirare le labbra in espressioni bendisposte e cortesi verso i clienti – o almeno, è così che le chiama Rachel.

Si massaggia la mascella, trattenendo a fatica un grugnito. Jocelyn, che accanto a lui sta tagliando arance a metà e le sta premendo con forza sullo spremiagrumi, si ferma per assestargli un colpetto alla nuca con il palmo appiccicoso di succo.

« Su, rilassati » gli dice. « E poi guarda che la grande capa ti sta fissando » gli fa notare, prima di gettare via le bucce ormai prive della polpa. Seamus si irrigidisce, un riflesso involontario. Ora ha la sensazione che due raggi laser gli stiano attraversano le scapole; tuttavia non ha il coraggio di voltarsi per controllare se Rachel lo stia fissando bieca tra una tazza di caffè vuota e un'altra.

Jocelyn lo lascia con un ultimo buffetto. Il rumore del bicchiere di spremuta che impatta contro il legno scuro del bancone è secco, deciso. L'ecco a lei di Joss, squillante, copre per un attimo la voce di Janis Joplin che fluttua dagli altoparlanti a volume basso. Seamus inspira e afferra una tazzina. L'aria è satura dell'odore pungente delle arance misto a quello del caffè, talmente forte che sembra impregnargli i vestiti.

Tra una tazza di un tè caldo e un'altra, si volta verso l'ampia vetrata che dà sul marciapiede, sulla strada. Ogni tanto si vede un mantello svolazzare, un cappello oscillare, una coppia di uomini vestiti in azzurro gesticolare con furia, incuranti delle automobili che sfrecciano a pochi passi da loro. Jocelyn ha ragione, pensa. Sembra davvero che stiano tramando qualcosa.

Una testa rossa ondeggia tra i visi deformati dall'ira dei due maghi. Seamus distoglie di scatto lo sguardo, come se una luce troppo forte lo avesse colpito. Si asciuga i palmi delle mani sudati e scivolosi. Respira. Si avvicina alla cassa, pesta con furia i tasti, strappa lo scontrino dalla sua minuscola stampante, così rapido che tutto gli sembra concentrato in unico gesto.

« Tre sterline e cinquanta ». La donna si fronte a lui sbuffa e infila un braccio nella borsa. Persino le sue parole gli suonano attaccate, un unico serpente di suoni che saetta fuori dalla bocca. Un formicolio gli pizzica le piante dei piedi, simile a un topo che picchietta le sue unghie su una conduttura. La sua mente lavora febbrilmente alla ricerca della soluzione. Vuole forse restare a guardare? O forse vuole chiedere alla banshee di ritornare indietro, di revocare il loro accordo?

Rachel sbatte con forza il vassoio colmo di tazzine sul bancone e Seamus si risveglia. Ci sono macchie di caffè, tracce di rossetto e briciole da pulire: non ha tempo per distrarsi, gli comunica il beccuccio di una teiera.

« Tre caffè di cui due espressi, due spremute e quattro muffin al cioccolato » snocciola la signora Byrne.

« Ricevuto, madame ». Joss prende la pinza per i dolci e la agita per un attimo in aria, come se tirasse di scherma contro un immaginario avversario.

« E tu pulisci queste » Seamus potrebbe giurare che Rachel gli abbia appena fatto l'occhiolino. « Sbrigati, guarda che non abbiamo molto tempo » aggiunge.

Si allontana per prendere altre ordinazioni: Seamus la osserva girare tra i tavoli rotondi di legno scura e le sedie dall'imbottitura rossa e verde, tra impiegati che si godono la loro prima colazione e commessi che chiacchierano a bassa voce, le teste vicine. Rachel scavalca le borse appoggiate con noncuranza sul pavimento e sfiora le cartelle appese agli schienali. Si sfila il taccuino dal grembiule, fa roteare la penna tra le dita. « Cosa posso servirvi? » chiede.

Seamus apre lo sportello della lavatazze con quattro bicchieri stretti in una mano e un piattino nell'altra. Mentre si allunga per riporre le stoviglie, si lascia sfuggire uno sbadiglio e, senza pensare, allenta la presa. Quando si accorge dell'errore, è troppo tardi.

Lo schianto secco del vetro contro la griglia di metallo è così forte che per un attimo persino Janis Joplin sembra trattenere il fiato. Seamus raccoglie con cautela il bicchiere, passa un dito sul bordo: nessun graffio, nessuna incrinatura. Lo ricaccia nelle profondità della macchina, mentre le spalle gli si rilassano e la tensione si scioglie sulla schiena.

Forse non è una giornata così sfortunata, dopotutto, si dice. L'emicrania si è rintanata barcollando in un angolino, pronta per colpire la notte successiva, ma adesso le palpebre gli si stanno abbassando e l'aria attorno a lui sembra densa come melassa.

I campanelli di rame che Joss ha appeso alla porta tintinnano.

« Buongiorno! » esclama Rachel.

Tale madre, tale figlia, pensa Seamus. Il saluto della sua datrice di lavoro è più adatto a una folla che a un singolo avventore. Si aspetta il borbottio del cliente, che però non giunge alle sue orecchie.

« Finnigan Seamus? » domanda una voce quieta, maschile.

Seamus chiude con un colpo secco lo sportello della lavatazze e si solleva, incuriosito. Di colpo riconosce il volto grigio dell'uomo che gli si para davanti, la sua figura leggermente curva, avvolta in un cappotto marrone sporco di polvere bianca sull'orlo.

Rimane impietrito, con le dita che gocciolano e le macchie di umido che si allargano, fredde, sui jeans. L'uomo sorride e un ventaglio di fitte rughe si apre attorno agli occhi.

« Sei tu, giusto? » chiede. « Ti ho visto attraverso la vetrina ».

Di' che si è sbagliato, si esorta Seamus. Si appoggia al bancone. Ha bisogno di dormire. Molto. Oppure ha bisogno di svegliarsi da un sogno. Vorrebbe pizzicarsi un braccio, ma non osa muoversi.

Digli che si è confuso con qualche altro barista. Ammetti di non averlo mai visto in vita tua. Sorridi e scusati.

Di' mi scusi.

Dillo.

Avanti, dillo.

« Professor Lupin » mormora Seamus.

Lo sconosciuto – no, non lo sconosciuto, il suo insegnante – si avvicina e gli tende una mano rugosa al di là del bancone. La sua stretta è calda, forte. Gli ricorda suo padre quando, nelle mattine d'estate, lo afferrava per una spalla e lo scuoteva piano per svegliarlo, dicendogli che la colazione era pronta e che aspettavano solo lui.

*

La porta cigola sui cardini.

« Mi dispiace, ho solo cinque minuti, professore » dice Seamus in tono di scuse, mentre allarga il braccio e invita Lupin a passare prima di lui. « La signora Byrne potrebbe uccidermi, altrimenti ».

« Chi, la signora coi capelli biondi e il vocione? Ci servirebbe a Hogwarts come professoressa, o meglio, come custode. Almeno Pix si rintanerebbe in un angolino e smetterebbe di appannare gli occhiali a Sibilla ».

Seamus ride, la mano ancora sulla maniglia. « Sempre lo stesso, a quanto pare ».

« Già ». Il professore cammina lento in mezzo al cortile, le mani in tasca.

Le pozze lasciate dal temporale della scorsa giornata non si sono asciugate del tutto: un paio di cartacce rosso sgargiante galleggiano placide nell'acqua, una bottiglia di plastica accartocciata. Seamus calcia via con il piede un involucro trasparente che si è avvinghiato a uno degli sparuti ciuffi d'erba spuntati tra le fessure del cemento. La plastica crepita. Bisogna dare una pulita a questo posto, si appunta.

Estrae un pacchetto di sigarette, ancora sigillato, dalla tasca della giacca, e tira la linguetta. Non fuma molto – forse perché gli ricorda troppo Dean, la sua voce arrochita e nervosa che si interrompeva brusca per lasciare spazio a un'altra boccata, per ritardare il momento in cui si sarebbero salutati – ma oggi ne ha bisogno, almeno una se la può concedere, si dice.

Tende la scatolina verso Lupin.

« Vuole, professore? ».

L'uomo batte le palpebre, indeciso sul da farsi. Poi solleva le spalle. « Oh, al diavolo » sbotta, mentre prende anche lui una sigaretta. « Mia moglie mi ucciderà, per questo. Riesce a sentire la puzza di fumo a distanza di giorni ». Si incupisce, e per un attimo Seamus vede solo un vecchio grigio con la schiena piegata dal peso della stanchezza. « Ma oggi credo che me la lascerà passare ».

« Hmm » si limita a mormorare Seamus. Ha dimenticato l'accendino a casa. Emette uno schiocco con la lingua e sbatte un piede a terra, mentre rovista tra le pieghe del cappotto. Tutto inutile.

« Penso di non avere da accendere » bofonchia. Si picchierebbe la fronte con una mano. L'ha lasciato nel posacenere accanto all'ingresso.

Lupin sgrana gli occhi.

« Che problema c'è? ». Dalla tasca del cappotto estrae la bacchetta, per poi puntarla verso Seamus. « Incendio » mormora. Accompagnato da una pioggia di scintille dorate e da uno sfrigolio, la punta si arroventa.

« Grazie ».

« Di nulla ».

Lupin si accende anche la sua sigaretta. Lancia un'occhiata discreta dietro di sé, come se avesse l'impressione di essere osservato da qualcuno, poi scrolla le spalle e ripone la bacchetta. Accenna col mento ai due gradini che conducono alla porta del locale.

« Posso sedermi? ».

« Certo ».

Il manico gli spunta dalla giacca. Seamus si vede afferrarlo, compiere un ampio e fluido movimento col braccio e – magia – far sparire i rifiuti che rotolano nel cortile, o i sacchi di spazzatura che ingombrano gli angoli. Nei tuoi sogni, forse.

Lupin appoggia la testa alla porta di latta blu e, con un sospiro, socchiude per un attimo le palpebre. Seamus si china, spazza via residui di polvere dal gradino e si accovaccia accanto a Lupin, per poi avvicinarsi la sigaretta alle labbra. Volute bianche si levano pigre davanti al naso.

Fumano in silenzio.

Seamus osserva di sottecchi le rughe che solcano il volto del suo vecchio professore, talmente marcate e profonde da renderlo simile a una statua scolpita nel legno, piuttosto che a una persona. Una figurina incompleta, ancora attaccata alla pianta, con le dita gonfie e nodose, i polsi attraversati da vene blu.

« Non sai più usare la magia, Seamus? » chiede ozioso Lupin. La sua voce calda e roca spezza il silenzio e lo colpisce come un pugno sul naso. Lui trema, vacilla sotto l'attacco diretto.

« No, non è questo » risponde lui. Veloce, sei troppo veloce. Si ferma, trattiene il respiro. Alza la guardia. « Preferivo così, dopo tutto quello che è successo. Staccare un po'. Da quando è finita la guerra mi sento.... diverso. Strano ».

La bugia gli scivola fuori dalle labbra fluida, rapida. Scrolla le spalle: indifferente, deve sembrare indifferente. Si sfrega convulso le mani, rabbrividendo e incassando la testa tra le spalle, simulando un brivido di freddo – e invece no, deve nascondere l'incertezza, lo spasmo che gli fa contrarre la mascella.

Lupin si piega in avanti per spegnere la cicca. Sparge frammenti di tabacco, catrame e nicotina sul cemento, poi si sfila un fazzoletto da una tasca dei pantaloni grigi, stirati con la piega, e vi avvolge con cura il mozzicone rimasto.

Seamus prende l'ultima, lunga, boccata della giornata – o forse mattinata, dipende se il destino avrà ancora qualche pacco bomba da consegnargli – ed espira, per tenere occupata la bocca.

Lupin si china in avanti e appoggia i gomiti sulle ginocchia. Guarda il cielo slavato, assorto.

« Capisco » scandisce. « Immagino che tutti abbiano i loro fantasmi con i quali combattere ». Sospira, un sospiro lungo e profondo, che gli carica altri dieci anni sulle spalle, poi si sfrega il mento, arrossato.

Non immagina quanto, pensa Seamus. Riderebbe, se potesse. Mi tormenta tutta la notte, mi schiaccia tra le sue dita, gioca con me come un gatto con il suo gomitolo preferito. A volte vorrei tornare indietro. Spazza via la cenere con la scarpa. Poi penso a lei, professore, a come sarebbe apparso morto, così freddo, e a Dean, con le gambe storte e la faccia piena di tagli, e a Harry Potter bianco e pallido con la sua cicatrice viola, e allora mi pento.

Le stringhe ora sono grigie.

Io non sono un eroe. Non sopporto di dover trascinarmi da una stazione all'altra, tagliarmi con il rasoio da barba, avere il mal di testa ogni cazzo di mattina.

Voglio una bacchetta.

« Non sei l'unico, non ti preoccupare » gli sta dicendo Lupin. « Harry è stato ossessionato da quella luce bianca per mesi. Quante volte ha ripetuto questo gesto? » Lupin solleva una mano e la riabbassa rapido. « quante volte ha urlato che qualcosa l'aveva preso, qualcosa l'aveva scosso e poi lasciato a terra? Era così agitato che credevamo fosse impazzito. Seamus.... non riusciresti a capire, davvero ». La fronte gli si increspa. « Poi si è sposato, e si è calmato. Un po'. Non del tutto. Non ancora ». Chiude gli occhi.

« Sposato? » ripete stolido Seamus. Non ha nessun desiderio di sentire ancora parlare di quel bagliore luminoso, quella scintilla che li ha incendiati tutti, che li ha fatti crollare bocconi sul pavimento. Lui si è risvegliato sulla terra fangosa, la bocca impastata, le gambe che tremavano, per poi accorgersi che il fumo era svanito ed era stato derubato.

« Sì, sposato » risponde Lupin. Rivolge a Seamus un lungo sguardo indagatore, due pupille tonde e piccole come capocchie di spillo che lo pungono e lo scandagliano. « Sei stato veramente lontano, allora » commenta, le sopracciglia corrugate e la testa inclinata. « È successo due anni fa. Non hai ricevuto l'invito? ».

Lui emette un suono acquoso e indistinto. Può darsi. Sua madre gli aveva inviato una lettera per posta, quando lui si trovava ancora nel suo vecchio appartamento. Una busta bianca, anonima, con il timbro delle poste Babbane bene in vista. L'aveva scartata con il coltello della colazione ancora sporco di burro e aveva osservato il ritratto di un uomo in smoking e una donna in abito bianco danzare su un quadrato di carta filigranata.

Poi aveva buttato il biglietto.

« Probabilmente qualche gufo si deve essere perso » si giustifica Seamus, evasivo.

« Peccato ». Lupin gli rivolge un sorriso conciliante. « È stata una bella cerimonia. Persino Minerva aveva gli occhi lucidi, anche se sosteneva di essere allergica alla polvere. Per non parlare di Molly Weasley: dozzine di fazzoletti appallottolati ». Fissa assorto il cortile.

« C'è bisogno, di lacrime di gioia ». Nella sua voce si scorge una piega amara. « Ce n'è davvero bisogno, con i Dissennatori in giro per Londra e il Ministero ancora nel caos ». Si riscuote, come se una sveglia interiore gli fosse trillata nelle orecchie. Arrotola la manica del cappotto e mostra un orologio da polso con lune e stelle che ruotano sul quadrante. La lancetta, liberata dalla stoffa pesante, mormora senza sosta impegno, impegno, impegno, impegno, mentre si sposta da una tacca all'altra.

« Ah » mormora il professore. « Sono ancora in anticipo, a quanto pare ». Preme un pulsante azzurro a lato del quadrante e con un clic l'orologio si azzittisce. « Questo affare riesce sempre a irritarmi » Lo nasconde di nuovo, con un sospiro. « Per non parlare della pendola di mia suocera: quando ci riuniamo per il pranzo domenicale è sempre lì che emette i suoi riposo riposo riposo con una voce da oltretomba. Terribile ».

Si strofina le mani sulla lana marrone, poi si solleva lento in piedi. Con la schiena leggermente storta e le gambe piegate, assomiglia all'attaccapanni arrugginito e ammaccato che Jocelyn ha buttato nello sgabuzzino, pensa Seamus.

Lupin si sfila la sciarpa di lana grigia dal collo, la piega a metà in un cappio e se la annoda di nuovo attorno al collo. « Speriamo che la Giornata d'Allerta si sia risolta senza problemi. E soprattutto, che a nessuno sia venuto in mente di mimetizzarsi tra i Babbani. Specialmente Archie Wilkins e le sue gonne a fiori ». Ride, ma senza gioia. S

eamus nota la rigidità del collo, il lieve tremore delle mani. Si solleva anche lui, facendo leva sul gradino con una mano.

« Almeno speriamo che gli Obliviatori passino a sistemare tutto » mormora Lupin. Scuote la testa. « Non puoi pretendere che una banda di loschi figuri vestiti di porpora passi inosservata. Merlino, almeno la Metropolvere potevano tenerla aperta ».

« Obliviatori? » chiede Seamus. Pronuncia ogni singola sillaba con cautela. « Metropolvere? ».

Il professore si passa una mano tra i radi capelli pettinati con cura, poi annuisce. « Il Dipartimento Cancellazione della Memoria e il Comitato Scuse ai Babbani sono disperati, Arthur li ha visti piangere davanti a pile di scartoffie. Troppi straordinari ».

Scuote la testa. « Almeno non ci hanno fatti tutti ammassare nella cabina telefonica. Sarebbe stato uno spettacolo ancora più singolare ». Si sfrega il pollice con l'indice, come per togliere cenere invisibile dai polpastrelli. « Neppure la Metropolvere ».

« Io non... » Lupin si volta verso di lui. Apre la bocca per parlare, ma si blocca. Per una manciata di secondi scruta il volto di Seamus, confuso, come se fosse convinto che lui stia scherzando, poi si incupisce.

« Non lo sai ». È un'affermazione, non una domanda.

Seamus si alza e pulisce polvere inesistente dal gradino con la suola della scarpa, evitando lo sguardo indagatore di Lupin. Trasalisce, quando il suo vecchio professore gli mette una mano sulla spalla e lo costringe a girarsi.

« Stai attento » lo avverte, serio. Si guarda attorno, prima di continuare, come per controllare che il cortile sia veramente vuoto. « Una guerra non finisce in cinque anni, Seamus. Restano dei pezzi, capisci?... degli strascichi ». Deglutisce. « E non sono tutti pentiti come i Malfoy ».

Una ruga gli solca a metà la fronte. Un sopracciglio gli si incrina. « Sono pazzi » dice, lasciando cadere le parole come sassi. « Li abbiamo cercati quando era il momento, quando rimettevamo in piedi le nostre case e contavamo feriti e morti, ma loro erano spariti ».

Le sue dita si aprono e si chiudono a imitazione di un lampo. «E proprio quando ci siamo detti beh, possiamo ricominciare da capo, no? Portiamo i nostri figli a scuola senza paura di non rivederli più di capo a un mese, giriamo tranquilli per i sentieri di campagna, eccoli riapparire. Che ironia della sorte, non trovi? ». Scuote la testa, con un sorriso stentato, beffardo.

Seamus non sapeva. Si è limitato a risvegliarsi quando tutto era già concluso, dolorante e sporco di terriccio. Ha camminato, inerte, affiancato dalla banshee che fluttuava a mezz'aria accanto a sé, fino a quando non è stato risvegliato dai clacson di un'automobile. È stato trascinato nell'abitacolo accogliente e caldo e redarguito con un brusco i ragazzini come te dovrebbero essere a scuola, mentre lui, con le foglie nei capelli, mormorava un grazie e si guardava le unghie sporche di rosso – no, marrone, marrone.

« Sono arrivati e noi abbiamo creduto di essere preparati » continua roco Lupin. « Li abbiamo sopravvalutati. Come poteva essere altrimenti? ». Stringe i pugni. « Eravamo diventati forti. Avevamo giustizia, avevamo prigioni, avevamo maghi preparati, capaci di evocare un Sortilegio Scudo con un cenno della testa. Ma loro.... ». Un sospiro. « Neanche i Dissennatori gli si avvicinano» sussurra.

Volta la testa, fissa un punto in lontananza. « Io li ho visti » dice. Si china leggermente, come a proteggersi. « Non sono umani, non più » mormora. « Li chiamano i Sopravvissuti, gli ultimi strascichi della guerra ».

Qualcosa nella coscienza di Seamus – lunghi capelli scuri, pelle pallida – si stiracchia e si risveglia. In un attimo è all'erta, il suo naso schiacciato contro i bulbi oculari di Seamus. Lui scrolla innervosito il capo.

« Alcuni di loro sono invisibili e solo chi ha guardato la morte in faccia riesce a riconoscerli. Altri lanciano grida che rompono i timpani. Fanno perdere il senno. Se andassi al San Mungo incontreresti tutti questi vecchi maghi, grandi, grossi, accucciati negli angoli, con le mani sulle orecchie, a dondolare, a piangere, come bambini.... ma non è solo questo, non solo... ».

Indugia, poi si rivolge a Seamus, cupo. « Donne bellissime che chiamano gli uomini fuori dal sentiero e li lasciano privi di sangue, di linfa. Secchi. Per non parlare di quelli che si trasformano in acqua, o in fuoco: streghe, maghi strangolati nelle loro vasche da bagno e non avevamo la pallida idea di cosa stesse succedendo. Gente intossicata davanti ai caminetti».

Getta un occhiata all'orologio – sta tremando, si accorge Seamus – e deglutisce. « Almeno qualcuno l'hanno preso, per fortuna. Anche se secondo me un'udienza di questo genere è ancora troppo rischiosa, nonostante tutti gli Incanti Sensore che avranno piazzato in giro. Non è poi passato così tanto tempo dal colpo alla Gringott ». Si china per raccattare un involucro colorato da terra e appallottolarlo nel pugno. Si abbottona il primo bottone della giacca, pronto ad andarsene.

La banshee trattiene un risolino dietro una mano bianca, nascosta nella sua testa. Seamus inspira. È stordito. È confuso.

Non hai tenuto conto delle conseguenze, lo ammonisce. Irruenza, cieca follia umana.

« Non so come veramente si possano fermare » dice Lupin, qualche parte di fronte a lui. « ma di una cosa sono certo. Qualcuno – o qualcosa – li ha cambiati. Persino da Mangiamorte, non erano... erano così folli. E, nonostante tutti sostengano che Harry abbia avuto uno shock, beh, io gli credo. In parte. Credo che tutto abbia avuto inizio dalla guerra a Hogwarts. Nessuno ha visto cadere Voldemort, per esempio. Nessuno ha visto lampi di luce verde. Eppure era lì, a terra, come se una mano gigante l'avesse stritolato. E... ».

Si stringe nella giacca e rabbrividisce, nonostante il vento abbia cessato di soffiare. « ... anch'io sogno ogni tanto questa sensazione di essere sbattuto a terra con forza, come se una mano gigantesca mi stritolasse ». Lupin incurva debole gli angoli delle labbra. « Ma potrebbero essere anche solo i deliri di un vecchio, questi. L'importante è che tu stia all'erta, anche, beh, se hai deciso di vivere nel mondo dei Babbani. Potrebbero comunque aggredirti... stai bene, Seamus? ».

« Sì » risponde precipitoso lui, di fronte al volto allarmato di Lupin. Si raschia la gola, per colmare il silenzio, per puntellare il castello di carte che si disfa davanti ai suoi occhi, ma le parole rimangono incastrate come una lisca.

« Io... oh, Merlino, mi dispiace ». Lupin lo afferra per una spalla.

« Non si preoccupi, davvero » lo rassicura Seamus. Si sforza di stirare le labbra, quando l'unica cosa che desidererebbe è solo scappare, lontano dal cortile con le sue reti divelte, dal bar, dalle strade di Londra. Almeno adesso lo so, si dice, ma non gli è di particolare conforto.

L'orologio da polso interviene tra i due uomini e urla uno sbrigati così forte da far tremare i vetri delle finestre dei condomini circostanti. Sia Seamus che Lupin sobbalzano. Con un colpo di bacchetta, il professore mette a tacere il lamento delle lancette.

« Gli strascichi della guerra » sospira. « Ora di andare, suppongo » si dice Lupin, le rughe che diventano più profonde. Porge la mano a Seamus. « Non è decisamente stato uno dei classici incontri tra studente e professore » commenta. « Speriamo di rifarci presto. Tra qualche tempo. Quando tutto questo sarà finito – veramente finito ».

Seamus annuisce. « D'accordo » gli risponde.

Lupin sale i due gradini.

« Arrivederci, professore ».

Lui sorride e alza un braccio in segno di saluto, poi rientra nel locale. La porta blu cigola sui cardini e sbatte sullo stipite, senza però chiudersi del tutto. Resta aperta per uno spiraglio. Seamus la fissa, in piedi in mezzo al cortile, solo.

*

A differenza di tutti gli altri lavoratori che, stanchi e corrucciati, sono costretti a pigiarsi nei vagoni della metropolitana ogni sera, Seamus ama il tragitto che lo porta a casa.

Aspira il profumo zuccherino delle ciambelle glassate del Dunkin' Donuts sotterraneo; ascolta lo scatto secco del biglietto che viene obliterato, gli stralci di conversazione che giungono alle sue orecchie – non vedo l'ora di tornare a casa per togliermi queste scarpe – e la parlantina incomprensibile e sciolta dei turisti stranieri. Persino lo stridio acuto dei freni che impedisce ai vagoni di proseguire la loro corsa non lo infastidisce.

Il frettoloso spostarsi da una linea all'altra, le scale mobili che ronzano, troppo lente per gli scalpitanti pendolari: tutto ciò gli consente, per mezz'ora, di non pensare a nulla se non al bordo di metallo della valigetta del suo vicino che gli preme sul fianco o al tremare del pavimento sotto i piedi.

Quella sera, però, Seamus scalpita. Pigiato tra una ragazza carica di sacchetti e un manager che continua a sbuffare e a tormentarsi il nodo della cravatta, solleva le punte dei piedi e oltrepassa con lo sguardo le braccia sollevate, le mani che si stringono attorno ai sostegni dipinti di giallo acceso.

Non c'è nulla di cui preoccuparsi, si rassicura, ma lo stai attento di Lupin ancora aleggia nell'aria viziata.

Seamus inspira, volta la testa, si slaccia i primi bottoni della giacca. Dentro di sé, l'inquietudine sta scavando. Persino dietro alla ragazzina accanto a lui, che sta digitando un SMS sul suo telefonino carico di decalcomanie, potrebbe nascondersi un mago, una strega desiderosa di sangue. E che dire del vecchio seduto con la borsa tra le mani, o della signora occhialuta di mezza età che sta leggendo un giallo di Sherlock Holmes con il naso incollato alle pagine...?

La sua immagine, riflessa sulla finestra, è pallida, piccola: una testa di bambino attaccata al corpo di un uomo grande e grosso. Un ragazzino in fuga, braccato da fantasmi.

Non c'è nulla da temere, si ripete, anche se sa che non è vero. Ha voglia di passare la mano sul vetro, cancellare l'ombra smorta che lo sta fissando. Come se avessi bisogno di altre preoccupazioni, no? domanda, sarcastico.

L'incontro con la banshee si sta avvicinando e lui lo sente nel cerchio di ferro che lo sta stringendo alla testa, nelle braccia e nelle gambe che si fanno di piombo. Quando ripensa a quelle dita che cercano senza sosta dentro di lui, che afferrano polmoni, fegato, cuore, che scivolano tra arterie, vene e nervi, prova il folle desiderio di urlare di rabbia e impotenza proprio lì, nelle orecchie del manager che ora dondola sul posto, incapace di star fermo.

È colpa sua, dannazione. L'immagine di una strega galleggiante in una vasca d'acqua fredda, con un braccio che penzola al di là del bordo bianco gli tormenta la mente. Le conseguenze. Digrigna i denti: cosa poteva fare? Cosa avrebbe preferito fare? Veder crollare Hogwarts di fronte ai suoi occhi?

Potrebbero aggredirti. Potrebbero venire a cercarlo.

Non pensare ai Sopravvissuti, si rassicura Seamus. Non sapranno nulla, non verranno di certo a cercarti. Chi si ricorda dei fuggitivi?

« Nessuno » dice. La ragazza alza il volto dal suo cellulare, infastidita. I manici di corda e nastro dei sacchetti le scivolano sui polsi. Sgrana gli occhi bistrati e Seamus si morde il labbro: ha parlato ad alta voce senza accorgersene.

Nessuno, si ripete tra sé e sé, mentre le porte si spalancano e un nuovo gruppo di pendolari, tra proteste mormorate a mezza voce e grugniti irritati, si stringe nel vagone già affollato.

Davvero? La banshee emerge dai suoi pensieri e alza un sopracciglio sottile. Sei sicuro?

Certo, risponde Seamus, mentre il treno corre senza sosta tra pareti scure e cavi elettrici. Si passa una mano sulla fronte, deglutisce. Non può esserne sicuro, in verità, ma non vuole pensarci, non adesso.

Stai attento, lo avverte Lupin, la sua bocca che si muove lenta, le rughe che solcano le guance.

Non mi devo preoccupare.

*

Ma nonostante tutti i suoi buoni propositi – parole vuote, bisognerebbe chiamarle – il senso di disagio lo segue anche fuori dalla stazione, avvinghiato alle sue gambe come un gattone dagli artigli affilati.

Mentre cammina, Seamus continua a voltarsi indietro, verso l'insegna bianca e blu della metropolitana che spicca come un faro in mezzo agli edifici anonimi e ai lampioni che emettono luce giallastra. Socchiude le palpebre. Dalla nebbia emergono solo le insegne al neon dei pub e i condomini a lui vicini: è come se si trovasse in un sogno, un sogno normale, non uno dei suoi, dove i contorni degli oggetti risultano sfocati e tutto sembra sospeso.

Seamus rabbrividisce e infila le mani in tasca. È come se si stesse avventurando in un labirinto dalle pareti grigie e anonime. Ogni volta che la borsa gli sbatte sul fianco irrigidisce le spalle e inspira brusco. Il pacifico quartiere dove abita, disturbato solo dai clacson delle automobili nelle ore di punta, si è trasformato in un bosco di cemento pieno di tranelli, dove mani viscide e fredde possono afferrarlo e trascinarlo via.

Si ferma.

Pensa che non c'è nessuno in giro e che il percorso per tornare a casa sembra essere stato dimenticato da Dio. Potrebbe essere sorpreso alle spalle da una pioggia di scintille arancioni. O un lampo di luce verde.

Il vento gli irrita le guance.

Nessuno parla. Il silenzio, denso come una cucchiaiata di melassa, gli preme sulle orecchie con così tanta forza che i timpani sembrano restringersi.

Il respiro gli si spezza.

Un sospiro tremola liquido dietro di lui, come l'ultimo respiro di un uomo – lo sa com'è, morire, l'ha visto con i suoi stessi occhi, ha visto un cappuccio scoprirsi, un volto deformarsi per la sorpresa, una mano alzarsi in un'inutile richiesta di aiuto.

E nonostante il buonsenso lo stia scuotendo per una manica e gli stia urlando di muoversi, su, cazzo, di mettere una gamba davanti all'altra, Seamus si volta. Appoggiata a un palo rugginoso, sotto una lampada che emette una luce fioca, una sagoma scura, una figura umana, lo sta fissando. Poi, in un battito di ciglia, svanisce, inghiottita dalla nebbia.

Sarà un effetto ottico, si dice Seamus. Si sente debole, come se potesse cadere per terra da un momento all'altro. Sarà uno scherzo della luce.

Ma quando i suoi piedi, come se fossero stati caricati da una chiavetta invisibile, lo conducono in un vicolo secondario, Seamus non si lamenta.

Con il sudore che gli scende lungo la nuca, scivola a passi rapidi lungo le due ali di edifici, tra i condomini che torreggiano sopra di lui, indifferenti, muti. Non sa dove stia andando il suo corpo – sa solo che deve allontanarsi, andare via, via da quella strada, via dai filamenti di acqua e ghiaccio che gli si stanno incollando ai vestiti.

*

Mentre scuote la borsa in cerca delle chiavi del suo appartamento, Seamus si lascia sfuggire un gemito di dolore e si china per passare un dito tra i calzini e le caviglie. Sui polpastrelli rimane una lieve traccia di sangue.

Vesciche, pensa, cupo, mentre fa scattare la serratura con un gesto brusco. La porta scricchiola sui cardini.

Preme l'interruttore dell'ingresso e subito una luce violenta, troppo forte, lo investe.

Seamus si scherma gli occhi con una mano, mentre bagliori viola gli saettano davanti allo sguardo. Si sfila il cappotto, lo scrolla come se gli avesse fatto un torto personale. Tira le stringhe delle scarpe, armeggia con nodi così stretti che le unghie si scheggiano.

Il pavimento è talmente gelido che le piante dei piedi gli bruciano. Seamus caracolla più veloce che può verso il salotto, poi si butta sul divano.

Con la testa affondata tra i cuscini, fissa il soffitto. Un ragno si muove sull'intonaco bianco in cerchi irregolari, spaesato. Lascia che le gambe, esauste, si scolleghino dal suo corpo e galleggino via. Ma quando socchiude le palpebre scorge la figura evanescente della banshee, dapprima sottile come un filo, poi sempre più incombente, con le sue dita che lo accarezzano e gli occhi scuri come cenere.

Si riscuote.

Non adesso, si dice. Non subito.

Il telecomando gli preme su un fianco. Seamus infila una mano tra le cuciture dell'imbottitura e lo tira fuori. Passa un dito sui tasti blu, assorto. Il televisore aspetta davanti a lui come un animale in letargo, paziente. Si chiede se debba ordinargli di accendersi, di triturargli il cervello con qualche immagine rumorosa, poi decide di no e lascia che rifletta solo la sua figura distorta.

Seamus sbadiglia. Adesso mi alzo e mi preparo qualcosa da mangiare, pensa, ma si sente troppo pesante per muoversi. Il ragno si trasforma in una chiazza sfocata, una macchia umida appiccicata al muro.
No, si ribella, ma il corpo è più forte di lui. La stanchezza lo sommerge come un'onda e lo trascina via con sé.

*

Si risveglia di soprassalto alle prime luci del giorno. Le scapole sembrano essere state strizzate da una mano invisibile durante la notte, ma non è quello l'importante, non ora. Si tasta il petto, confuso. Si tira uno schiaffo leggero. È sveglio.

Non è possibile.

Rotola giù del divano e il suo gomito colpisce con un rumore sordo il pavimento. Il dolore della botta, per quanto attutita dal tappeto, gli si propaga sorda per tutto il braccio. Stringendo i denti e massaggiandosi l'articolazione, si rialza piano. Fissa attonito il cielo color grigio e indaco.

Nessuna emicrania. Nemmeno un giramento di testa.

Ha dormito tutta la notte. Nessun sogno, nessuna puzza di morte, nessun odore acre di fumo.

Si siede di nuovo sul divano e si gode la sensazione di avere la mente sgombra, lucida. È come se una patina gli fosse caduta dagli occhi e tutto – il televisore, i libri dalla costa rovinata, le nuvole che scorrono placide – fosse più vivo, più nitido.

Si morde il labbro. Non è ancora finita, però: lo sente come sente il battito del suo cuore, il suo respiro, lo scrocchiare delle ossa. Il patto li incatena ancora. La mancanza continua a scavare la sua voragine. La strega si è ritirata, ma aspetta paziente nell'ombra, la magia stretta saldamente nelle sue grinfie.

Perché?

Forse si è stancata di giocare con lui, ipotizza. O forse, si rende conto con un brivido, ha trovato un altro modo per giocare, uno che lui ancora non conosce. Uno più pericoloso.
Si appoggia allo schienale.

Aspetterò. si dice. Chiude gli occhi, forse può strappare ancora qualche minuto di sonno, ma il dubbio ormai ha iniziato a torturarlo, insistente come una mosca davanti a un dolce ricoperto di zucchero.

Del resto, non è che possa fare molto.

*

Ma la banshee non si ripresenta il giorno dopo. Né la settimana successiva.

*

A poco a poco, Seamus recupera il sonno arretrato. Le perenni occhiaie che lo accompagnavano si trasformano prima in pallidi segni blu, poi svaniscono del tutto. Ingrassa persino. Si distende.

Jocelyn ride e lo stuzzica, chiedendogli se oltre a un lifting facciale si è ritoccato anche il carattere. Per un paio di giorni dopo l'incontro con i maghi è rimasta come sintonizzata su un'altra dimensione, con un'espressione trasognata sempre dipinta in volto. Non ha più parlato degli uomini e delle donne vestiti di porpora o della vecchia dagli occhi sporgenti, si è reso conto Seamus, con sollievo. Qualche Obliviatore deve essere passato per una visita, dopotutto.

Non ha più visto i maghi. Forse girano di notte, o hanno trovato un altro modo per viaggiare passando inosservati. A volte scorge con la coda dell'occhio uno svolazzare di stoffa scura, un ciuffo di capelli arancio; ma quando si gira – perché si gira sempre, malgrado si dica ogni singola volta di non farlo – si scontra solo con mura crepate e graffiti rossi e verdi.

Quando dorme, sogna solo braccia bianche, ogni tanto qualche chiazza verde, o una colata di fango marrone. Un movimento meccanico del polso, un dito deformato che lo indica, troppo distante per poterlo toccare.

Un giorno in cui sembrava che tutto il suo corpo fremesse e fosse incapace di stare nella stessa posizione per più di cinque secondi, ha disseppellito la sua vecchia bacchetta dall'armadio di vecchie vesti lise in cui l'aveva cacciata, l'ha puntata contro la lavastoviglie e l'ha mossa in un cerchio stretto.

Ma non ha sentito il familiare bip di accensione.

Alla fine l'infernale macchinario gliel'ha sistemato la ragazza con cui esce in questo periodo, Kathy, Kathy che è una maga con il cacciavite e che porta maglioni cosi larghi che le maniche le coprono le dita, Kathy che ha la pelle così bianca che le si vedono le vene blu sottopelle.

La nebbia si è diradata, sostituita dalle fastidiose e umide pioggerelle di marzo che lasciano righe di sporco sotto le grondaie. Nonostante lo smog che circola nell'aria alle ore di punta, a Seamus sembra che l'aria sia più leggera, più tersa.

Per un paio di settimane dopo l'incontro con l'ombra ha cercato sempre percorsi alternativi per tornare al suo appartamento; ma, complici i piedi indolenziti e i tramonti più luminosi, è ritornato al suo classico tragitto casa-lavoro. I Sopravvissuti si sono trasformati in un ricordo lontano, come se fossero diventati dei semplici personaggi di un romanzo dell'orrore.

I meccanismi della sua vita sono oliati e iniziano, seppur con qualche iniziale scatto brusco, a girare. Seamus si sente sicuro. È al sicuro.


Più tardi si sarebbe pentito.

*

Mentre si dirige verso la fermata, Seamus ingoia rapido l'ultimo pezzo di pane tostato e si pulisce le dita sporche di marmellata con un tovagliolo. Non osa guardare il suo orologio: non ha nessuna intenzione di sapere quanto è in ritardo. Rachel lo infilerà nello spremiagrumi e lo centrifugherà ben bene, ignorando qualsiasi patetica giustificazione che lui cercherà di propinarle.

Magari posso dirle che la valvola della caffettiera è saltata e che ho dovuto pulire l'intera cucina, riflette Seamus. Scuote la testa. No, troppo patetica. E comunque deve averla già sfruttata.

Appallottola il pezzo di carta tra due dita e lo getta nel cestino accanto alla scalinata che conduce ai binari della metropolitana.

« Scusami » lo chiama una voce roca, languida.

Seamus alza il viso. Una donna dai capelli color miele è appoggiata con la schiena al parapetto. Indossa un vestito blu chiaro, con le spalle scoperte, così lungo che l'orlo striscia sul marciapiede. Sembra pronta per una pièce teatrale. Piega la testa, corruccia la bocca, così rossa che sembra una chiazza di sangue appena sopra il mento, poi gli strizza l'occhio.

« Vuoi sapere quale sarà il tuo futuro, zuccherino? ».

« Io- » dice Seamus, incerto. Si blocca con un piede sul primo gradino. La donna sorride, poi si passa un dito sulle labbra.

È pazza, si rende Seamus. Del resto, solo chi ha qualche problema mentale potrebbe girare alle cinque delle mattino con un abito da cocktail che sembra appena uscito da un negozio di lusso. Scrolla le spalle, distoglie lo sguardo e fa per scendere le scale, ma non ci riesce.

È come se fosse stato pietrificato.

Un ragazzo con un cappello di lana e la barba malfatta lo urta alla spalla sinistra e lo sorpassa. Non si volta per sibilargli un'imprecazione, non borbotta. Infila le mani in tasca e sparisce nel tunnel grigio e nero, senza dare alcun cenno di averlo anche solo visto.

Aiuto, pensa Seamus. I piedi sembrano essersi fusi nel marmo. Si sforza di tirare la bocca, di urlare, ma tutto quello che ne esce è solo un sussurro strozzato.

La donna getta indietro la testa, come una modella, poi scoppia in una profonda risata di gola, si solleva dalla balaustra e danza verso di lui, i tacchi che si alzano e si abbassano senza sforzo, come se galleggiasse nell'aria. Gli prende la mano irrigidita, stende le dita contratte una a una e poi ne accarezza il palmo con un lento movimento circolare. Seamus, impotente, vede la sua unghia bianca e curata tracciargli ghirigori sulla pelle, passare tra le linee tracciate nella carne. Sente il suo polso congelare, le sue gambe cristallizzarsi in pietra. La schiena è bloccata a metà da un peso invisibile.

Aiuto.

« La Linea del Successo. Oh, ma è interrotta, tesoro » esclama la donna con le sopracciglia sollevate per la sorpresa. Sorride ancora e i denti le luccicano al debole chiarore del mattino. Il suo profumo costoso e penetrante, nauseante, inonda Seamus. Scapperebbe se potesse. Si divincolerebbe, se solo la strega – perché è una di loro, l'ha capito, ma non subito, e si picchierebbe per questo – si distraesse.

« Che Linea del Destino strana che hai, tutta spezzata. Oh, beh » mormora con la sua voce profonda. Il suo dito continua, inesorabile, a tracciare il suo disegno. Seamus lo segue, impotente, rinchiuso nel suo stesso corpo. Le poche persone che si affrettano verso la fermata non li degnano di uno sguardo. Seamus, disperato, sbuffa per richiamare la loro attenzione, ma si sente premere un indice freddo sulle labbra.

« Ssh » sussurra la strega. « Nessuno ti potrebbe sentire. È così inutile affaticarsi, non trovi? » Lascia allungare le ultime parole, se le rigira tra quelle labbra senza la minima sbavatura come caramelle. « Abbiamo quasi finito ». L'unghia si ferma alla base del pollice.

« La linea della Vita... oh! ». Spalanca la bocca, solleva una mano a coprirla; ma i suoi occhi luccicano, esaltati, trionfanti. « Pare che si interrompa proprio adesso » lo informa. Lo accarezza sulla guancia, mentre il sorriso crolla in un ghigno. « Strano, vero, non trovi? Un presagio di morte, proprio adesso... ».

Il suo viso è vicino, talmente vicino che è deformato: un'unica iride lo fissa, il naso è un triangolo storto, il ricciolo che le rimbalza sulla fronte uno scarabocchio. No, pensa Seamus. La sua testa inizia a vorticare. Non posso veramente morire. Non ora.

« Proprio qui, davanti a te » la strega fa si indica, poi stende un braccio all'infuori con un ampio movimento, come se fosse pronta a inchinarsi di fronte a un pubblico.

L'aria attorno a lui si increspa, e si scalda. Il tempo di battere le palpebre, e già qualcuno gli sta respirando sul collo. Due persone.

D'improvviso le catene che lo trattengono si sciolgono, la presa sul suo torace si allenta. Seamus batte le palpebre, apre la bocca, senza capire, mentre l'incantesimo gli cola sulla pelle come cera calda. Si getta in avanti, tira una spallata alla strega, che soffia irritata, barcolla, si rialza, muove un passo in avanti – lento, sei lento, gli urla la sua mente, mentre il corpo si tende allo spasmo.

Si sente afferrare alle caviglie. Inciampa. Mette le mani davanti a sé per attutire la caduta, per potersi dare la spinta necessaria a sollevarsi di nuovo, ma è troppo tardi, troppo. Il suo mento sbatte contro il selciato con uno schianto secco. Sapore di sangue sulla lingua. Lampi gialli e viola esplodono intorno a lui. Geme, ma non demorde.

Combattendo contro il mondo che sembra oscillare, scrolla le gambe legate, si divincola. Rotola sulla schiena, si porta le ginocchia al petto, si tocca le caviglie: stoffa. È legato con due nastri di seta color porpora.

Magia.

Due uomini, assieme alla strega che si sta massaggiando un braccio, si chinano verso di lui. Uno di loro serra tra i pugni i capi dei due lacci, come un guinzaglio. Li lascia andare, e loro gli galleggiano accanto, docili, simili a serpenti incantanti. Soddisfatto, incrocia le braccia muscolose. È calvo, con una cicatrice irregolare che gli corre sul cranio.

« Non puoi scappare » gli dice, mentre stuzzica i suoi nastri con un mignolo. Loro si arricciano con un rumore di carta strappata. Scrolla le spalle. « Anche se sento freddo alla testa, senza il mio turbante. Ehi, Doe ». Si volta verso l'altro tipo. « Ci diamo una mossa? Ho già mal di testa, non vorrei che con questo vento peggiori ».

« Un attimo, che devo godermi il momento » lo blocca Doe, in tono monocorde. Si spazza via un granello di polvere invisibile dalla giacca gessata. Ha una faccia talmente anonima che sembra quasi non avere lineamenti. Gli abiti gli scivolano addosso come se fossero appesi a un manichino. Tocca con la punta della scarpa lucida il fianco di Seamus, poi si umetta le labbra con la lingua. « Aspetta ».
La strega batte il tacco sul marciapiede. « Dai, su » lo esorta, la voce morbida che diventa sempre più acuta, a scatti. « O altrimenti ci verranno a prendere... e tu non vuoi essere preso, John, vero? Ti ricordi cosa è successo alla Black, vero? ».

Mentre i tre discutono, Seamus cerca una via di uscita. Si batte sul fianco, segue con lo sguardo le prime macchine che compaiono e lo abbagliano con i loro fari troppo luminosi, per poi scivolare via ignare. Le scarpe e gli stivali dei passanti deviano dai tre maghi, come respinte da una forza invisibile.

Urlare? Si rende conto che non servirà a nulla: potrebbe gridare per ore e ore fino a bruciarsi la gola e a squartarsi i polmoni e non servirebbe comunque a nulla. Si divincola, scalcia, i pugni stretti, ma un gesto distratto gli riattacca le braccia lungo i fianchi.

Doe lo rimira come se fosse una cavia da laboratorio pronta per essere dissezionata. Punta verso di lui il suo sguardo acquoso, distante, fisso su un punto al di là della sua testa. Anche quando si china e lo mette seduto con un gesto brusco è sempre lontano, con la testa piegata, come se stesse ascoltando una radio a volume troppo basso.

Seamus muove di scatto il collo per tirargli una testata, ma l'uomo, avvantaggiato dal fatto che possiede ancora un paio di spalle che rispondono ai suoi comandi, si tira indietro.

Uno schiocco di dita, e una bacchetta corta e tozza compare nella mano di John Doe. Il mago la punta sul suo collo, poi scende verso il busto. Seamus si lascia sfuggire un singhiozzo di paura. Lo stomaco gli annoda, il suo corpo si contrae per sottrarsi a un urto che non è ancora arrivato – ma arriverà, pensa Seamus.

« Per favore, fai silenzio » gli ordina piatto Doe. Gli batte la bacchetta sulla tempia. « Non ti ricorderai di me, immagino. Avrai rimosso dalla memoria tutto quello che mi riguarda. È così che facciamo: dimentichiamo ». Scrolla Seamus per il bavero della giacca. « Io, però, ricordo tutto ».

Di colpo Seamus diventa tremendamente consapevole del suo corpo che vive, del suo petto che si alza e abbassa sempre più rapido, e si chiede se morirà davvero, perché forse è solo una variante dei suoi incubi, forse si sveglierà davvero nel suo letto e la punta della bacchetta è in realtà qualche oggetto che gli sta disturbando il sonno.

Non è vero.

« Nella Foresta Proibita. No? » chiede Doe, al frenetico cenno di diniego di Seamus. Il mago esala un lungo sospiro. « Immagino. Sono cambiate molte cose, da quando ci siamo incontrati per l'ultima. Io sono cambiato, almeno » continua, come se stesse recitando una preghiera.

Dietro la sua testa dagli sciapi capelli castani si fa strada un ricciolo di nebbia. Seamus spalanca gli occhi, mentre l'aria si addensa, si ingrigisce, si trasforma in ombra.

« Hai cercato di uccidermi » gli fa notare il mago, senza espressione.

Ad apparire per primi sono i capelli. Una cascata di boccoli neri, lunghi, che fluttuano senza peso.

« Sono caduto a terra. Ho provato un dolore inimmaginabile. Come se venissi squartato. Come se venissi sciolto nell'acido ».

Vero. Vero, vero, vero.

Il viso è un ovale perfetto. Gli zigomi sono scolpiti nel marmo.

« Avresti... » Seamus deglutisce. Chiude gli occhi. Quando li riapre, la banshee sta muovendo le sue mani bianche e assassine. La creatura oltrepassa l'energumeno calvo senza essere vista, come un fantasma.

« Avresti fatto lo stesso con me » dice con voce rotta. Ricorda la sua presa sudata sul manico della bacchetta, il Mangiamorte che cadeva e sembrava un soldatino di plastica, così stupido, a pensarci bene, così stupido...

« Patetico » commenta la banshee, secca. Lo fissa con degnazione, il portamento eretto. « Sono davvero queste le tue ultime parole? ».

John Doe lo ignora. « Ti ho visto fuggire tra gli alberi, prima del buio. E poi, poi qualcuno mi ha afferrato ». La lingua, rosa e brillante rispetto al volto esangue, passa ripetutamente sulle labbra. « Mi ha scrollato. Mi ha modificato » sussurra.

« Volevi sistemare le cose, figlio di Ryan ». La banshee si china anche lei, potente, forte, seguendo un movimento che è già stato ripetuto per giorni, settimane, mesi. Attraversa la testa di John Doe, che si irrigidisce. « Io l'ho fatto » gli dice dolcemente.

« No » esala Seamus. Il suo pugno si contrae a fatica, lottando contro la magia che cerca di aprirlo. Non vuole morire. Non adesso. Non ora.

Ha già freddo. Chissà se avrà freddo. Vuole vivere. Il cuore gli batte all'impazzata. Si chiede se almeno lo vedranno, il cadavere. I polmoni pompano aria.

« Ti ho cercato » dice John Doe. La sua voce è sdoppiata, come se a parlare fossero un uomo e una donna nello stesso momento. « Ho impiegato anni per trovarti ».

Il mago lascia andare il bavero della giacca e Seamus rimane con la schiena eretta, come una bambola abbandonata al muro. Rimane solo la banshee, pallida e delicata, con un sorriso mozzafiato e splendente – bramoso, si dice Seamus – che mette in mostra i denti perlacei. Nessuno sarebbe in grado di capire cosa si nasconde dietro la facciata di finta carne, finti boccoli, finte vene che corrono in superficie. Si getterebbero tutti davanti ai suoi piedini, se la potessero vedere, si rende conto Seamus, in un ultimo sprazzo di lucidità.

Ai margini del suo campo visivo, John Doe sta ancora parlando, ma la sua bocca si muove a vuoto, come se lui e Seamus fossero separati da una lastra di vetro. L'uomo con il turbante ride in silenzio. Il tacco picchietta ancora sul marciapiede, toc toc toc, ma il rumore che produce sembra così lontano, così insignificante. C'è solo la banshee, come nei suoi incubi, come nei suoi cento e duecento dannati sogni che gli hanno trivellato il cervello. Ci sono solo la banshee e il suo alito che puzza di cadavere e formalina.

Un lungo lamento esce dalle labbra della banshee e avvolge Seamus. È una nenia antica quanto la terra verde dell'Irlanda e lui si rende conto che è come se la conoscesse a memoria, come se fosse stata riposta a marcire in un angolo della mente per lungo tempo. Lo avvolge, lo comprime, lo trascina verso il basso. Si sente piccolo e insignificante, un bambino tremante accovacciato sul marciapiede, un ragazzino di dodici anni che scappa da una creatura rattrappita urlante, con unghie che cercano di afferrarlo per i capelli.

*

Seamus sta affondando. Il canto, sempre più acuto, sempre più potente, lo porta via e lo cancella. Non sente più le gambe, le gambe sono fredde. Lui, lui non vuole morire, pensa, mentre galleggia. È difficile lottare. Il suono si chiude sopra di lui e lo avvolge in un bozzolo.

Naftalina.

Lui non vuole morire.

Si aggrappa all'ultimo barlume di vita che gli è rimasto. La banshee canta e canta, così forte che, in uno sfarfallio di palpebre, Seamus riesce a vedere la sua ugola nera e profonda.

Io-

Il braccio, il suo braccio è libero dalla magia.

voglio-

Ora ci sono il suo cuore che vuole scoppiare, la testa che pulsa, i polmoni che collassano. John Doe alza la bacchetta grigia.

Vivere.

Seamus appoggia la mano sul busto della banshee, poi spinge. Affonda fino al braccio nel petto della creatura, con un grido muto.

Il tempo si ferma. Il mondo, i Sopravvissuti, l'insegna della fermata della metropolitana: tutto si fonde in una chiazza indistinta. I contorni delle cose si sfaldano e si sciolgono nel nulla. Nella terra senza lineamenti ci sono solo loro due, Seamus e la banshee, l'uno sopra l'altra.

Lei sussulta. Lo stridio incespica, si abbassa in un roco borbottio e alla fine si interrompe bruscamente. Seamus respira aria e fiori marci, ma è vivo, ancora, si dice con gioia esaltata, con furia animalesca, mentre le sue dita frugano.

« Cosa stai facendo? » gracchia la banshee. Pieghe verdastre le si stanno formando attorno al naso, sulle guance, sotto le palpebre, sul collo tornito. Spalanca gli occhi e Seamus può vedere le sclere farsi sempre più gialle e acquose. I capelli si appiattiscono e le radici diventano lucide, untuose.

Seamus si muove nella carne cedevole. Sa dove deve andare, perché lei lo sta chiamando, nascosta sotto strati e strati di muscoli, tendini e arterie, e lui non può fare a meno di obbedire alle sue richieste. Dopotutto, lei è parte di lui.

La creatura avvizzisce di fronte a lui. Il naso diventa adunco, la pelle cede. Le mani si caricano di macchie scure e le vene affiorano in superficie. Si incurva, si rattrappisce. Mentre la bocca si contorce come un serpente per tentare di contenere le tre chiostre di denti che stanno sputando, la strega geme.

« Stai... stai revocando... » sputa tra un singhiozzo e l'altro.

Seamus, dominato dall'istinto, stacca la magia dal cuore della banshee e la trascina a fatica tra gli organi bitorzoluti. La perla di luce pulsa, tiepida, tra le dita appiccicose. Sorride di gioia, quando la magia gli solletica il palmo, birichina. Quando lascia scivolare fuori il braccio, sporco di materia verdastra, un bagliore improvviso lo acceca.

La banshee si accartoccia su se stessa, fiaccata dall'aggressione, sconfitta, dolente. Un fioco lamento le esce dalla bocca avvizzita, troppo debole per uccidere. Alza lo sguardo umido sul volto trionfante di Seamus.

« Non potrai sfuggire al tuo destino, figlio di Ryan. Potrai scappare da me, ma non dalle conseguenze » profetizza con voce flebile. « Ricorda, figlio di Ryan. Ricordalo bene » lo ammonisce.

Ma Seamus non l'ascolta. Alza la testa e lascia cadere la perla di luce dalle sue mani chiuse a coppa alla lingua. Quando inghiotte, la magia gli esplode nel corpo come dinamite. Gorgoglia nel suo sangue come vino. Seamus ride rivolto verso il cielo grigio, una risata gioiosa, da bambino, mentre il suo arto ricresce. Slancia le braccia verso il cielo e urla, un grido liberatorio, da vincitore, così forte che la mandibola inizia a dolergli, ma non gli importa, non adesso, perché le ferite gli si stanno ricucendo e stanno scomparendo, perché gli oggetti voleranno ancora accanto a lui.

E così, quando il tempo gli cade ancora sulle spalle, quando i negozi e i condomini si raddrizzano e il semaforo ricomincia a lampeggiare, dalle mani di Seamus esplode una fiammata libera che avvolge tutto. Come prima, si ritrova a pensare, stupefatto, stordito, mentre il fuoco gli lambisce le dita senza fargli male. Come quando era bambino e lasciava galleggiare fiammelle nell'aria.

Poi l'incantesimo finisce. In piedi, barcollante, tremolante, confuso, lascia scorrere lo sguardo sui corpi riversi a terra, pallidi, addormentati. Dal viso insipido di John Doe scorre un rivolo di sangue. È come se scorresse sul vetro. Le orecchie gli ronzano. È frastornato. Si guarda intorno e non sa più dove veramente dove si trovi. Il potere gli fluisce nelle carni e lui si sente così completo, così vivo. Le mani sono incontrollabili. Vuole trasformarsi in saetta, vuole gridare fino quando la gola non si seccherà e le ginocchia cederanno e anche lui crollerà, si sdraierà e rimarrà lì a ridere, a bruciare, a chiudere gli occhi e a sentire quanto è pieno, quanto sembra scoppiare.

È libero.

Qualcosa fischia dietro di lui. Seamus non fa in tempo a voltarsi, ad alzare le braccia per proteggersi, che viene raggiunto da un colpo alla testa. Male. Dolore.
Il mondo si offusca, svanisce. Cade nel vuoto.

*

La pelle sotto l'orecchio è tirata e pulsante. Seamus grugnisce. Si sforza di sollevare le palpebre, ma le ciglia sono incollate e c'è troppa luce, fuori. Lui è abituato ad alzarsi all'alba. Piano, solleva cauto un indice – è come se lo stesse estraendo da un guanto troppo stretto, si dice – e sonda il lato della testa. C'è un foruncolo.

Che strano, pensa, trasognato, mentre inizia a grattare con l'unghia e ondate di dolore gli raggiungono, come al rallentatore, i nervi. È da quando aveva sedici, diciassette anni che non gli spuntava un vero brufolo. Gli davano un tremendo fastidio, stava sempre lì con la bacchetta per farseli scomparire... anche se non ha mai toccato l'apice di Eloise Midgen, che era andata persino in infermeria... ma dove sono?

Seamus raccatta i brandelli di ragione che gli vorticano nel cervello senza scopo e cerca di dare loro un senso. Muove le gambe, che sono indolenzite. Terreno morbido, umido, registra. Aggrotta le sopracciglia. Si trovava nel suo letto... falso. Era alla fermata della metropolitana, era morto, era vivo, era di nuovo se stesso.

Un pugno l'ha tramortito, quello se lo ricorda bene; eppure sulla nuca non ci sono né lividi, né bernoccoli. Si tocca la mandibola. Si era appena rasato, ma ha già un accenno di barba ispida.

Si siede. È al centro di una radura erbosa, circondata da alberi nodosi, con le chiome che svettano verso l'alto. Il cielo ha quel colore trasparente e luminoso tipico delle giornate senza pioggia e senza sole. Un corvo – no, forse un gufo – plana alto nel cielo. Seamus lo segue con lo sguardo.

Indossa delle scarpe da tennis consunte, sporche di fango sulle punte e grigiastre ai lati. C'è una macchiolina rossa sulle stringhe della destra.

« Fuliggine » elenca Seamus. La sua voce è sorda e viene presto assorbita dal bosco. « Sangue ».

Poi, finalmente, capisce.

Si rialza di scatto, le radici prendono il posto delle fronde, ha le vertigini, ma non cede. Si addentra nell'intrico di rovi, muschio e rami, li scosta a grandi bracciate e avanza, veloce, sempre più veloce. Sassolini sotto i piedi, come l'altra volta.

Neppure questo è un incubo.

« No » ansima. Ha sbagliato. « No! » grida, ma il suo, in mezzo all'indifferente Foresta Proibita, è lo squittio di un patetico bambino che si è perso. « Farò quello che vuoi. Ho sbagliato, lo so, lo so, ho sbagliato. Farò quello che vuoi, ma ritorna » soffia. « Ti prego ».

Nessuno gli risponde. Seamus sferra una manata al tronco di un albero. Lancia un grido di dolore, quando schegge di corteccia appuntite come aghi gli si conficcano nel palmo. Se la sfrega contro i jeans – sono vecchi, quei jeans, li aveva buttati via solo qualche anno fa, si erano scuciti, strappati e il bottone era caduto sul pavimento con un toc e dovevano restare tra i fondi di caffè e le bucce di banana.

Stringe i denti, mentre si afferra il polso e le ferite iniziano a schiumare. Per prima appare la Torre di Astronomia, la più alta, storta, con il tetto distrutto. Le finestre sono in frantumi. L'ultima volta che l'ha vista era un ammasso di rocce e pezzi di legno.

Dalla voragine che si è aperta – l'ha sentita, l'esplosione, eppure non si è voltato – rotolano via pietre. Gli uccelli si posano sulle rovine, l'uno accanto all'altro, in silenzio.

Io volevo solo sopravvivere, pensa Seamus. Nient'altro.

Patetica giustificazione, risponde una voce di anziana donna.

Il sentiero ingombro di sassi e tronchi si trasforma in un sentiero di terra battuta. Seamus si lascia dietro i fantasmi delle lezioni di Cura delle Creature Magiche e di un irsuto guardiacaccia dal sorriso bonario.

C'era Dean, nel castello, a scuola, a Hogwarts. C'erano Neville e Luna Lovegood e Lavanda Brown e Hermione e Ron e Harry e facce terrorizzate e gente accartocciata negli angoli.

È stato un egoista.

Doveva vivere.

Ti prego, chiede, e mentre lo, pensa, per un attimo si porta le mani al volto. Fa' che almeno non siano morti tutti. Almeno questo.

Forse i Mangiamorte hanno vinto. Li immagina, grossi avvoltoi, che sfilano in mezzo ai cadaveri. Vede un Harry Potter che non è più un pazzo, non uno sposo, ma un morto, con la cicatrice viola che gli taglia in due la faccia e gli occhiali in frantumi sul naso. Voldemort ghigna.

Morti.

Mi dispiace.

Sono parole abbastanza inutili, gli fa eco la vecchia.

Ai margini della Foresta, dove gli alberi cedono spazio a cespugli che frusciano, un uomo vestito di un mantello scuro è accasciato sopra una chiazza di sangue. Seamus non ha bisogno di scoprire il suo viso premuto sul terreno per sapere chi sia. Lo aggira, codardo, troppo codardo per avvicinarsi alle braccia abbandonate, ai pugni ancora contratti. Rivede occhi lattiginosi fissi su di lui e volta brusco le spalle al corpo senza vita di John Doe.

*

Con la mano sana – l'altra pulsa ancora, ma non gliene frega niente, potrebbe anche andare in cancrena, per quanto gli riguarda – solleva un'asse di legno e lascia penzolare fuori dalle macerie un biscotto grigiastro, un lembo di una coperta a fiori. Si fa strada nel cumulo di macerie, estraendo con cautela frammenti di tazza, un attizzatoio corroso dal fuoco. Mentre se lo rigira tra le dita e pensa che potrebbe utilizzarlo come arma, si irrigidisce.

Tende l'orecchio.

Dal castello sta giungendo un brusio, un coro di sommesse voci umane, come se si stesse risvegliando da un lungo sonno. O forse è il vento che ulula e lo si inganna, ma è sufficiente per alimentare le sue speranze. Magari c'è ancora qualcuno, là dentro, qualcuno di vivo che si benda le ferite, che vaga per i giardini smarrito quanto lui. Oppure ci saranno solo stanze piene di detriti, aule con i calderoni vuoti e gargoyle di pietra addormentati nell'atrio.

Non gli è rimasto molto in cui credere, dopotutto.

Si volta verso la strada battuta, verso l'intrico di rovi dal quale è emerso. Il mormorio continua. Coglie parole come guerra, stanchezza, dormire. È così stanco. Ed è solo, solo come non è mai stato, come se davvero fosse l'ultimo uomo sulla terra.

Una goccia di pioggia gli cade sulla guancia e Seamus se la sfrega via con il palmo della mano. Gli tornano in mente il suo appartamento minuscolo, il viso appuntito di Jocelyn, lo sbrigati tonante di Rachel, ma tutto gli sembra così distante, tutto gli sfugge dalla sua presa. Chissà se si ricorderanno di lui, si chiede. O forse è stato tutto cancellato, come se al posto di correggere un errore con un tratto di inchiostro si avesse sostituito l'intero foglio.

Un passo, poi un altro. Non ha più nulla, nemmeno una bacchetta, solo un vecchio pezzo di ferro stretto tra le dita. Non sa cosa lo attenderà, ma continua ad avanzare.

Cammina verso le torri storte, verso Hogwarts, la sua scuola, la casa che ha distrutto. Il brusio cresce, insieme al vento. La pioggia inizia a cadergli sulle spalle, sulla maglietta annerita, sui tagli che ancora bruciano.


Hogwarts.



Note dell'autore:


Se siete veramente arrivati fin qui, prima di tutto grazie, grazie infinite. Secondo, vi pago l'oculista, promesso XD
Questa storia si è classificata quarta al contest «Dieci decimi di contest» indetto da Ferao sul forum di EFP, e ha vinto il premio originalità. Ringrazio ancora moltissimo la giudicia e il giudizio che mi ha postato. Ferao, se passi di qui ancora grazie, grazie veramente! :D
Poi, beh, che dire? Posto qui le note che ho inviato anche alla giudice, se a qualcuno interessassero (lo so, sono una barbara che fa copia-incolla XD):

Questo what if credo che nasca dal fatto che le pagine finali dei Doni della Morte non mi sono mai, mai piaciute XD. Non che mi aspettassi di vedere Harry Potter morto (no, quello sarebbe stato anche peggio!) però devo dire che quando Voldemort è stato ucciso ci sono rimasta un po' così. E la sensazione è aumentata quando ho letto l'epilogo XD.
Io sono sempre stata convinta che la famiglia Finnigan avesse una banshee che li tormentasse ogni morte di parente: è così che mi spiego lo spavento di Seamus quando, al terzo anno, si vede saltare fuori dall'armadio il Molliccio trasformato XD. Lei salta fuori al momento opportuno e i due stringono un patto: lei ha ucciso Voldemort e salvato tutti quelli che non erano già morti, lui in cambio le ha consegnato la sua vita – quando sarebbe morto – e la sua magia, che in un certo senso l'ha «umanizzata» e le ha permesso di distruggere gli Horcrux rimanenti (dopotutto, racchiude in sé sia la magia «umana» sia quella tipica di una creatura fantastica). Anche se ha avuto degli effetti collaterali, che derivano anche dal fatto che Seamus, preso dalla paura, abbia mal formulato la sua richiesta, desiderando solo «sistemare le cose»: lei ha fatto un po' quello che voleva, ponendo anche le condizioni per uccidere Seamus più tardi. All'inizio volevo chiuderla con un finale di quelli che ti lasciano con l'amaro in bocca, poi durante la scrittura le mie convinzioni sono diventate sempre meno decise e alla fine ho optato per il finale aperto: lascio a chi legge la scelta, se farla finire «bene» o «male» :D
Per la violenza, ho cercato di non inserire troppo sangue, anche se un po' ne è scappato: infatti ho preferito concentrarmi su vari aspetti (la «paura», la sensazione di essere perquisito, piuttosto che il dolore fisico – se non si conta l'emicrania, ovvio XD).
C'è una cosa, all'interno della storia, che mi interessa giustificare: i maghi si avviano al Ministero della Magia a piedi, perché potenzialmente tutti gli altri mezzi erano pericolosi. Per evitare qualche irruzione poco piacevole di Sopravvissuti all'interno dell'edificio, il Ministero ha vietato Materializzazione, Metropolvere e Passaporte. Ordinare un intero stock di Mantelli dell'Invisibilità, anche di quelli che si sfilacciano, sarebbe stato alquanto improbabile, farli andare con le scope impensabile. Ho pensato all'Incantesimo di Disillusione, ma sarebbe stato un po' straniante, vedere camaleonti umani gironzolare per Londra XD. E poi si muovono all'alba perché, beh, farli muovere al calar della notte avrebbero svegliato tutti, in pieno giorno ci sarebbero stati troppi curiosi XD
Scrivo anche due cosine sui prompt (e poi basta, perché è diventato un papiro): per il proverbio africano è come se l'avessi spezzato in due: lui si alza sempre all'alba, ma cerca anche di contrastare il suo destino – prima stringendo il patto, poi, spinto dal senso di sopravvivenza, revocandolo – ma non ci riesce. Alla fine i giochi sono già fatti e Seamus si troverà al punto di partenza, sconfitto.
Poi con le tre parole «Insipido», «Languido», e «Turbante» ci ho modellato un po' le tre figure dei Sopravvissuti. E non è un caso se il tizio «insipido» si chiami John Doe XD è il nome che danno per indicare una persona la cui identità è sconosciuta XD.


Ancora grazie per aver letto! :3

Hika

   
 
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