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Autore: Gatto Magro    07/12/2012    1 recensioni
- Adesso c’è sangue anche sulla lampada, quella verde in salotto, e sono andata fuori in silenzio però, perché ho pensato che ora dobbiamo accendere la lampada col sangue di Brian sopra e mi è venuto da vomitare.
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autunno 2002.
Avere sei anni è una cosa terribilmente difficile e dolorosa; o almeno questa è la frase che Sunshine pensa più o meno ogni mattina, dal lunedì al sabato, concedendosi un risveglio più dolce e rilassato la domenica, giorno in cui qualche dio l’ha resa libera dall’angoscia di cinque ore di scuola.
La bambina non si integra con il resto della classe, la bambina è perennemente distratta e fatica a ricollegarsi con la realtà quando si richiama la sua attenzione, la bambina è scostante e la bambina è molto indietro; queste invece sono le frasi che girano in tondo nella testa della sua mamma già dopo un mese in prima elementare.
La piccola fa quel che può, ma non è colpa sua se le lettere dell’alfabeto non le entrano in testa e rimangono incollate alle pagine del libro, che siano in stampatello, in corsivo, grandi come tutta la facciata o decorate di apine e alberelli. Ogni tanto crolla e comincia a piangere tirando su con il nasino dicendo che vuole Bri e vuole andare a casa, e le maestre sono costrette a prelevare il fratello dalla seconda classe per far calmare la bambina.
Quello che dicono le maestre è vero; Sunshine non lega con nessun altro studente, è spesso persa nel suo mondo e non ha ancora imparato a leggere “Gigi va in bicicletta con GattaMiao nella borsa stretta”, che è la prima riga del libretto di letture. Gli altri alunni sono già a pagina quindici, spiega la maestra a Grace Turner nella saletta dei colloqui. Grace gira la testa e attraverso la finestrella sulla porta vede la figlia seduta in corridoio, minuscola e triste e confusa.
Sunshine non lega perché trova spossante trascorrere così tanto tempo rinchiusa in un’aula con altre trenta persone. Non riesce a gestire l’ansia di doverci stabilire un contatto né in modo spontaneo né in quanto richiesta del programma scolastico. Non riesce a seguire le lezioni e le letture perché c’è sempre qualcosa che attira il suo sguardo, o un odore che le solletica il naso, un movimento impercettibile che le sbuffa fra i capelli e in quel momento le sembra di venir risucchiata in un altro mondo che appiattisce le sagome dei compagni e la voce dell’insegnante e smorza ogni suo altro senso. Non riesce a mettere insieme le lettere di una frase perché quei segni rimangono solo macchie su una pagina ai suoi occhi. Insignificanti, slegati, privi di dimensioni.
Intanto le figure danzanti delle favole della nonna – perché sono favole, giusto?- cominciano a strisciare sul pavimento e filtrano dalla fessura sotto la porta, libere.
 
Novembre 2012.
S non è mai guarita dagli incubi notturni, ha solo imparato che erano una cosa che ai suoi genitori risultava fastidiosa come il rumore delle zanzare nelle notti d’estate; con il tempo ha imparato a svegliarsi subito, ma non ha ancora capito come riuscire ad addormentarsi di nuovo e stavolta, magari, rimanere sotto le coperte fino alla mattina.
Grazie al cielo la nonna è morta, pensa Brian ogni volta che sente S uscire dalla sua camera alle due di notte, altrimenti avrebbe pensato bene di riempirla di sonniferi, o peggio, tenerla sveglia con sé raccontandole altre storie.
Invece anche da piccola S sapeva che la notte non era il momento per rifugarsi nelle storie della nonna, ma di rimanere con i piedini caldi di piumone incollati alla realtà e scendere le scale per svegliare la madre.
Così hanno eretto una specie di muro fra giorno e notte, i due fratelli, perché in qualche modo si erano convinti che se di giorno a proteggerli ci sarebbero state le pareti di casa, così solide e forti e soprattutto vere, quelle quattro pareti che dividevano la camera della nonna dal resto della villetta, di notte invece, complice l’oscurità, sarebbe stato difficile ricordarsi che potevano uscire girando la maniglia della porta. Anche dopo la morte della vecchia signora, né S né Brian hanno mai osato introdursi nella stanza in fondo al corridoio dopo il calar del sole.
Così è appena l’alba quando S, scalza sulla moquette, si chiude lentamente la porta alle spalle, allarmata di un qualche improbabile cigolio traditore.
Vuoto.
Senza la massiccia presenza della matrona adagiata sul letto al centro della stanza, a S sembra di trovarsi dentro una scatola vuota, grigia e asettica. C’è perfino più luce che entra da sotto le tende pesanti di velluto rosso, come se, da viva, la nonna avesse gettato un’ombra sproporzionata attorno a sé, creando quell’aura di mistero, soggezione e irresistibile magnetismo semplicemente occupando il suo posto a letto.
Una volta assorbito quell’iniziale squilibrio tra la memoria della stanza e ciò che sta vedendo, S sente lo sguardo aprirsi ai lati, e ogni elemento si mette d’accordo con i suoi ricordi; il letto è molto più piccolo e basso di quello che ricordava, ma non è forse cresciuta in questi due anni? Il copriletto ricamato di viola e blu è sempre lo stesso, forse più impolverato di come l’avrebbe lasciato la nonna, ma la testata d’ebano e le due sponde a colonnine di bronzo sono lucidi come se la mamma li avesse appena passati con lo straccio- e invece non lo passa nessuno da anni, quello straccio rigato di unto. La scrivania alta ed elegante issata su quattro gambe sinuose, ingombra di strati di vita, dal bordino di pizzo che sporge dall’angolo, ricamato da mani scheletriche come quelle di S più di cento anni fa dalla nonna della nonna, prima che la figlia si sposasse con quell’americano dai capelli carota e se la portasse via in uno stato dal nome che non riusciva proprio a pronunciare; dal pizzo di quella tovaglietta, allora, lo sguardo di S si arrampica su libri rilegati di pelle consumata e altri di panno povero, dagli angoli sdruciti, e bottigliette di colonia in cui lei e il fratello tuffavano il naso, cercando di riconoscervi l’odore di un nonno, o della mamma, il forte profumo della nonna che quasi si addensava nelle narici, bottigliette e fiale d’ogni colore fra i più delicati, con etichette cancellate e arricciate, la colla ha bevuto l’inchiostro e l’ha fatto colare sul prezioso vetro, anelli neri e d’oro, o neri e si dicevano fossero d’oro, una mano di lacca rossa – S la osserva con un brivido, l’ha sempre trovata orribile-, spaghi e nastri, guanti, lacci di raso, calze, tubetti di creme color lucertola, un posacenere a forma di mandibola, una sfera di cristallo dalla sommità attraversata da una crepa, tutto questo accatastato sopra portafoto pieghevoli dall’interno di velluto scuro, macchiato di bianco o giallo, macchie verdi anche su quegli appunti – sembrerebbe proprio pergamena- scritti in un alfabeto strano, e una grossa X rossa come firma, accanto a un astuccio che odora di bruciato, stecche di ceralacca di ogni colore fuse fra di loro in sculture profumate e appiccicose, contenitori deliziosi per l’inchiostro e per le limette da unghie, una confezione di francobolli, pacchi di Kleenex, biglietti ingialliti coperti di numeri minuscoli, e penne dall’aria inutile, tanto sono preziose, abbandonate, accasciate sopra le maniche di un vestito abbandonato mezzo lì sopra e mezzo sul pavimento, l’orlo ancora richiuso nell’armadio di legno scuro…
L’armadio.
Per seguire quelle scia interminabile e caotica di oggetti accumulati, S ha quasi fatto un giro intero su sé stessa, e ora si trova con le spalle alle finestre e al letto, di fronte all’armadio che troneggia nella stanza allungandosi per ben due pareti.
Leggera come un fantasma sulla moquette lercia, S si avvicina e con qualche sforzo fa girare la minuscola chiave che spunta dalla serratura dell’anta al centro.
L’anta è pesantissima e cigola girando sui vecchi cardini, sulle prime a S prende un colpo credendo di trovarci dentro un fantasma pallido e arruffato; ma è solo il proprio riflesso, mandatole dallo specchio montato sul retro dell’anta.
- Certo che li possiamo prendere, Callie.- Sussurra la ragazzina con impazienza. – L’hai detto anche tu che solo lui può saperlo, ma dobbiamo trovarlo prima.
Si china ginocchioni sul pavimento e si allunga per sbirciare il fondo dell’armadio. Eccola. S la prende in mano, si alza frettolosamente e chiude l’armadio.
Corre fuori dalla camera così veloce che non riuscirà mai a definire con certezza se qualcuno l’abbia trattenuta per la maglia o no, lì di fronte all’armadio. E’ soltanto Callie, si dice, ignorando il suo cuore che rischia di schizzarle fuori dalla gola, tanto si è spaventata.
Eppure… ha sentito di nuovo quella sensazione inebriante di quando lei e Brian vivevano le storie della nonna, assuefatti di suggestione e piacevolmente terrorizzati.
Con le spalle appoggiate al muro, il respiro irregolare, S si chiede per mezzo secondo se non sia per caso addormentata, o davvero stia per fare quello che ha progettato stanotte.
Che diavolo di senso ha?, si chiede. Sono impazzita?
No. Le sussurra Callie. Sei perfettamente lucida. La nebbia se l’è portato via, tu l’hai visto.
La nebbia.
Deve provare, giusto?
Sarà difficile, e sì, è da pazzi. Ma S lo è a sufficienza. E se ci fosse riuscita… avrebbe vinto tutto, giusto?
   
 
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