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Autore: JosieBliss    25/06/2007    2 recensioni
Tornando a casa, lungo la collina, un giorno notai una scritta, grande e in nero, scaldata dal sole: FRAGOLA TI AMO ALLA FOLLIA. Ero in pullman, leggevo Il Principe Mezzosangue. E allora mi immaginai una donna, una donna dai capelli color delle fragole, che abitava lì, su quella collina, amata a tal punto da sentirselo gridare dai muri. E che ad amarla, in modo malsano e dolcissimo, fosse Tom Orvoloson Riddle. Nonostante la violenza, il sangue e le lotte, il bianco e il nero, il bene e male e l'umano e il sovraumano, le eterne sfumature tra questi, attratti inesorabilmente l'uno dall'altro. 50 anni di un amore egoista. Ho uno scandalizzante bisogno di recensioni.
Genere: Romantico, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Riddle/Voldermort
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Josie era trasformata. Trasformata da larva a farfalla.
La metamorfosi era venuta d’improvviso, dopo un corteggiamento durato quel tanto che bastava a sciogliersi nell’Attesa.
L’attesa di lui, di un bacio agognato e sofferto, delle mani sulla pelle, sotto la divisa, le sue tremanti per l’emozione, quelle di lui sicure, lente, esperte. Era stato bello.
Lui la prendeva in giro, sempre. La chiamava Virgin Mary.
Lei si arrabbiava.
Uh, che rabbia, quel Riddle! Non la lasciava un attimo stare.
E tutti li osservavano, capivano la tensione, i suoi occhi neri fermi sulla sua nuca durante pozioni, quella nuca rotonda e sottile, la treccia lunga, rossa, un fiume in piena. Lei china e attenta prendeva veloce gli appunti del vecchio Horace (come l’adorava!), e lui, assorto, scomposto sulla sedia, con grazia, a fissare le sue piccole orecchie, le spalle esili che si piegavano sul foglio, il profilo che a volte fissava la finestra, distratto un attimo, poi di nuovo rapito dall’inchiostro.
E il ballo di primavera? Lei sapeva ballare il valzer per le belle feste di sua madre. Suo papà, prima di morire, gliel’aveva insegnato. Lei ballava coi suoi piccoli teneri piedi, sugli stivali lucidi di Alaster Bliss e rideva come una pazza, quando lui la sollevava e la faceva volare tra le sue braccia, nel salone di specchi e di ambra.
Al ballo di primavera lui aveva abbandonato la bellezza folgorante con cui stava a braccetto, con passo svelto e deciso era venuto da lei. E prima che potesse aprir bocca stupita le aveva afferrato le mani e fatta girare nel suo timido vestito di seta bianca, così leggero, delicato. L’aveva portata in un cerchio perfetto al centro della sala.

E poi finalmente, quel bacio.
Rubato prima di un pranzo, prima di entrare in Sala Grande, così.
I libri schiacciati tra loro, sul suo cuore impazzito, perché già da un po’ la sua assenza le faceva male e non capiva perché.
Le sue labbra, dolci, avide, come l’uva.
Le sue mani, su di lei, a strapparle ansiti e sospiri, quasi davanti a tutti. A ricordare quel quarantadue lontano in cui già aveva conosciuto quel sapore, sulle sue mani piccole di bambino.
Era stato un bambino bellissimo.
Era un bambino bellissimo.
Era Tom: rispettato, venerato, invidiato, odiato, da tutti temuto. Popolare come solo alcuni sanno essere, freddo, distaccato, geniale, insensibile.
E si perdeva nella sua bocca, sentendo una bestia nel petto che non aveva mai conosciuto, pulsare, desiderare, amare.
Era un amore egoista il suo, generato dall’auotosoddisfazione.
Così credeva.
E le sciolse i capelli.
Vi affondò le dita.
La chiamò per nome.
Josie.

E lei era trasformata. Da larva a farfalla.
Andava in giro tenendo la testa alta, rideva più forte, teneva sempre i capelli sciolti, liberi, allegri, i riccioli dappertutto sul suo corpo, sul suo petto candido e nudo nelle notti affamate a cercare se stessi nell’altro.
Era vera, più audace, più sua, sempre più sua, fino a morire, le cullava la testa aspirando l’odore di vaniglia sul collo.
“Tom?”sussurrava Josie una notte, fissando il nero delle tende di velluto.
Lo scorcio di luna che gettava uno sguardo luminoso al suo viso l’aveva svegliata, allontanando un sogno già dimenticato.
Si passava la lingua sulle labbra screpolate dall’inverno e dal sonno, e poi si girava, cercava nel buio il giovane amante.
Fissava le medesime tende, le mani dietro la testa, assorto, come di fronte ad una scacchiera troppo difficile a metà della partita.
Josie allungava una mano sottile e accarezzava il suo petto, fermandosi all’altezza del cuore, per sentirlo palpitare, ed era tenere in mano un fuoco acceso, che ti brucia le dita e le rende trasparenti.
“Come mi vedi da grande, Josie?”
“Quanto grande?”
“Grande abbastanza per essere qualcuno. Oltre queste mura, oltre le montagne.”
Lei sospirava e premeva forte la mano sulla pelle.
“Lontano. In un posto che non ti sta stretto.”
“Questo posto esiste?” Tom si girava a guardarla.
“Non lo so. Ma se c’è sarà in alto, dove non c’è gente che ti possa respirare accanto e rubarti l’aria.”
Si mordicchiava le labbra sentendo le piccole ferite pizzicare.
“Guarda che l’asma non ce l’ho quasi più.”
Josie sorrideva.
“Non dicevo quello.”
“E allora? Come mi vedi? Rispondi.”
Josie girava le spalle, sbadigliando, fissava la luna ormai grande fuori dal vetro.
“Lontano, te l’ho detto.”
Lui infilava una mano sotto il piumone e la posava sul suo fianco, e si stupiva, come sempre, di come la curva riempisse il palmo, perfettamente, come fosse stata forgiata apposta per le carezze.
“Verrai con me?” e le accarezzava la schiena, e lei tremava.
“No, Tom. Respiriamo troppo vicino.”
“Non ha importanza.”
Josie si girava e si issava a cavalcioni su di lui, strusciandosi con leggerezza.
Ipnotizzato, lui allungava una mano e la sfiorava, accertandosi che fosse vera, che fosse lì davvero.
Josie si chinava fino a che i riccioli gli sfiorassero il viso, accogliendolo dentro con un movimento veloce dei fianchi.
Lui sussultava.
“Importa invece. Io ti rubo troppa aria” mormorava, sfiorandogli le labbra con le parole.


Era andata avanti per anni. Anni di un amore interminabile, mai soddisfatto, mai saziato. Lei respirava attraverso la sua bocca, e si sa, l’amore rende cechi.
Una volta, al settimo anno, si era trovata impigliata in un brutto pasticcio… per caso Tom quella notte era in giro, ed erano i giorni di terrore del mostro di Serpeverde, lui chissà dov’era, non si doveva girare a quell’ora per la scuola, con gli incidenti da poco avvenuti. Era sgambettata fuori dall’ala ovest come un fantasma, stringendosi addosso un mantello infreddolito pure lui, i piedi scalzi, e il coraggio negli occhi.
Tom, sussurrava per i corridoi deserti, Tom!
Ma dov’era finito? Poi aveva cominciato ad avere paura, c’erano scricchiolii nei muri, il silenzio era innaturale, per terra un gruppo indaffarato di ragni correva verso una finestra, l’avevano fatta strillare, l’avevano punta sui piedi.
Qualcosa di grosso arrivava nell’altro corridoio, correva, no, camminava, anzi… strisciava. E il terrore l’aveva paralizzata con la curiosità, se ne stava ferma, stringendosi il mantello intorno alle spalle, e la Cosa strisciava e sibilava e sembrava ridere, ridere follemente, oh mio Dio oh mio Dio, muoviti stupida… finchè mani familiari l’avevano tirata via, posando il buio sui suoi occhi, l’avevano scostata con gentilezza, facendola arretrare, fino al muro. Lei non osava parlare, la cosa strisciava imponente davanti a loro, parlava, sibilava da sola, e un altro sibilo le era sembrato giungere alle sue spalle, come una risposta, no, un avvertimento…un ordine. La Cosa, il mostro, li aveva sorpassati, ignorandoli, incerta.
Erano rimasti lì un eternità.
Lei con gli occhi chiusi dalle sue dita, che respirava sempre più piano, sempre più tranquilla, lui che la stringeva , pregando che non facesse domande.
E lei non ne aveva fatte.
Non sapeva, non voleva sapere. Era stata una coincidenza, una fortunata coincidenza.
Era viva, erano vivi, e quello le bastava.
Anni dopo avrebbe capito.
Erano gli anni in cui abitavano a Nocturn Alley, e lei tre giorni alla settimana studiava a Lione. I giorni in cui lui era assente, in cui si arrabbiava facilmente, si infuriava, le dava uno schiaffo buttandola per terra, per poi precipitarsi a stringerla, ninnandola e chiedendole cento volte scusa.
Gli anni in cui ballavano alla luce delle candele, come quella volta al ballo di primavera, come ad altri mille balli, inizialmente la cosa la imbarazzava, ma presto scivolava intrepida fra le sue braccia con l’orgoglio negli occhi.
Era una casa particolare, la loro.
Una vasta stanza, che occupava tutto il secondo piano, due colonne di sostegno che scendevano dipinte giù dal soffitto. Non un mobile, non un quadro, se non un letto a baldacchino, al centro della sala , con drappi di velluto rosso, un palcoscenico aperto al mondo. E tende bianche come il latte, alle finestre, che si gonfiavano come vele di nave, allegre, durante i temporali. E tanti, grossi candelabri, che ogni sera si accendevano tremuli e impetuosi, diffondendo una luce calda e accogliente.
Mangiavano per terra, su un tappeto persiano, in silenzio, qualche schifezza comprata alla rosticceria. Cioè, Josie mangiava.
Tom, beveva un po’ di vino rapito dall’abbacinante luce delle candele, coi suoi pantaloni migliori e il torso nudo, e si girava, le passava un braccio intorno alle spalle e la baciava, le labbra bagnate dal vino, dolci, ardenti, avide come l’uva.
Josie viveva in un limbo di dolcezza, passava le giornate in cui non stava con lui a studiare o sonnecchiare, in un eterno dormiveglia, usciva per comprare la frutta e si fermava a succhiare un arancia sul gradino davanti alla gelateria, ballava da sola accarezzata da un vento che gonfiava le tende e i suoi vestiti scandalosamente corti per l’epoca.
A volte lui tornava prima dai suoi oscuri pellegrinaggi e accompagnava il suo ballo suonando un pianoforte a coda, le mani sporche di vernice, in un eterno dipinto che dirigeva come un maestro d’orchestra, nel tempo libero, un dipinto sulle pareti, una selva oscura di animali selvaggi, magici, feroci, delicati che si snodavano sempre incompiuti sui muri bianchi, attirati da una luce, da un Qualcosa che a all’epoca Josie non conosceva. Un giorno avrebbe visto, saputo, e avrebbe pianto, perché sarebbe stato troppo tardi e l’oriente se lo sarebbe portato già via.
  
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