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Autore: twentyfivenovember_    11/12/2012    1 recensioni
Questa storia è stata ideata da una mia amica, ma l'ho messa in atto io.
E voglio dirvi solo che queste parole sconvolgeranno tutta l'idea che avete di un vampiro; come disse l'Edward Cullen cartaceo: «evoluzione o creazione?». Noi optiamo per 'malattia'.
La protagonista è Hayley Hamilton, ragazza di 16 anni incline a non avere buoni rapporti con la società che si riscontrerà in un morbo che stravolgerà del tutto la sua vita tanto odiata. Il 'morbo del vampiro'.
Buona lettura!
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’incubo era reale; Capitolo 4
 
Mi rigirai nel letto. Non c’era verso. Avevo paura. Ascoltai il battito del mio cuore.
Tum, tum, tum.
Come un orologio avviluppato in un fazzoletto di cotone.
Tum, tum, tum, tum.
Il battito crebbe e, alla fine, raggiunse vette altissime.
…L’occhio, il suo occhio rosso sangue, che mi fissava…
Non poteva essere reale. Mi stavano iniziando a sudare le mani, sebbene fosse fine novembre. La figura del morto. Quei suoi capelli, di un nero che sfiorava quello che gli occhi non potevano percepire. Il suo volto scheletrico, eppure così bello… mi tirai freneticamente le lenzuola fin sopra al naso. Il terrore mi stava divorando. Avevo così paura che temevo che quella mi distruggesse da un momento all’altro. Il mio piccolo cuore stava andando troppo veloce; così veloce che sarebbe scoppiato. Da un momento all’altro, senza neanche rendermene atto.
Non esiste, smettila. Non esiste. 
Quella sarebbe stata la mia fine? Morire nel mio letto, come una vecchietta decrepita, perché la mia pura immaginazione andava a briglia sciolta?
Cercai di calmarmi e, nel bel mezzo di quell’auto-convincimento, il sonno sopraggiunse, quieto e tranquillo come non mai. Esattamente, senza neanche rendermene atto.
 
Avevo fatto un sogno orribile, uno di quelli che ti fanno svegliare sudaticcia e con le lacrime agli occhi. Ma che diavolo mi succedeva? Stordita, osservai il mio doppio nello specchio, di fianco al letto. La mia faccia era più sconvolta del solito, più di quanto lo fosse nelle altre mattine. E non ero proprio splendida, appena sveglia. Due profonde occhiaie mi marcavano gli occhi castano chiaro. Quegli occhi che odiavo tanto. Per di più, ero persino più pallida! Era un record. Potevo praticare ‘pelle cadaverica’ a livello agonistico, ormai.
Ma c’era qualcosa che mancava. Decisamente, mi mancava un pezzo. Come le altre volte che mi guardavo e non trovavo mai quello che volevo vedere. Ma quella volta era un’aspettativa decisamente diversa dalle solite.  Era… più reale. Il cervello mi mandava segnali quasi asfissianti, come a dirmi: ‘Dai, su, è così evidente!’. Forse ero diventata ritardata. Probabile.
Scesi giù dal letto, con la mia aria da martire che si prepara ad affrontare un’altra crudele giornata imposta dal destino, seppur costernata, ma con quell’interrogativo che continuava a perforarmi le budella, a pause intermittenti. Che strana sensazione, soprattutto dopo il sogno di quella specie di cadavere. Sospirai, attendendo il momento in cui sarei stata finalmente una persona normale.
 
«Buongio-o-o-rno», sbadigliai, stiracchiandomi, appena scesa giù.
Mia madre mi rivolse un sorrisetto, mentre mio padre, come suo solito, era seduto al tavolo con il suo quotidiano. Era difficile incontrarlo senza quel coso in mano, a prima mattina. Infatti, solo dopo alcuni secondi si rese conto della mia presenza, e mi salutò appena, con un grugnito.
«Ancora ti trucchi, eh?», disse mia madre, con l’aria di chi si crede di sapere chissà cosa, mentre per la prima volta da quanto io avessi memoria si sedeva al tavolo con noi di prima mattina. Le lanciai un’occhiataccia, e mi andai a sedere anch’io al tavolo, dove mi aspettava una tazza di latte e caffè fumante.
«Ma… aspetta un attimo», borbottò la voce di mio padre, insospettita, quando finalmente abbandonò quello stupido giornalaccio.
Mi preparai a una ramanzina sul fatto che mi truccassi tutti i giorni. Probabilmente, il fatto che non mi fossi riempita di cosmetici per sedici anni, influiva sul suo modo di vedermi.
«Il livido?».
Alzai gli occhi verso di lui, e vidi che aveva un’espressione decisamente allarmata. La cosa era contagiosa, perché anche mia madre prese quell’aria sbigottita.
«È sparito», mugolò, come se stesse contemplando un qualcosa che andava oltre la comune scienza.
A un tratto, ricordai, con un dolore quasi fisico.
Il ragazzone. Noah. Io. Montante destro.
Wow.
«Quindi non l’ho sognato», dissi, più a me stessa che a quegli individui che ero costretta a chiamare genitori. Sembravano due alieni, con quei due occhi sgranati all’infuori. Mi venne da ridere, alle loro facce.
 
Comunque, anche io ero sorpresa. Ecco il pezzo che mancava! Ma come aveva potuto sparire quel coso, di punto in bianco? Era un po’ assurdo. In tutti i casi, cercai di concentrami sul lato positivo della cosa. E io che mi preoccupavo che sarebbe stato una segnaletica alla mia faccia già brutta da sé! Tra l’altro, non avvertivo più quel giramento di testa che mi aveva stressata tutto il giorno precedente. Poi quella notte, dal punto che avevo lasciato mia madre lamentandomi, era iniziato l’incubo. E stranamente non ricordavo cosa avevo fatto ieri sera, poiché mi ricordavo solo di quello che avevo visto nell’incubo. Bah.
Per tutto l’insieme dei fattori positivi – o negativi, dipendeva dal mondo di vederli – presi un sospiro di sollievo. Ma i miei genitori reagirono diversamente. Mamma aveva la faccia preoccupata, e papà era ancora più che incredulo.  Alzai gli occhi al cielo, e buttai giù il bicchiere di latte in un sorso solo, sistemandomi meglio gli occhiali sul naso; dopodiché imboccai la via della porta, con il giubbino in grembo e lo zaino appeso in spalla.
«Cercate di riprendervi, voi due», dissi, prima di uscire, con una smorfia indulgente.
 
Imboccai il vicolo, riflettendoci sopra. Era strano. Avrei dovuto sentirmi ancora un po’ scombussolata, no? Era evidente che invece stavo più che bene. Anzi, non avevo più la voglia di rovesciare su qualcuno tutti i difetti e lo schifo del mondo. Però, forse, questa ultima cosa si doveva a una persona in particolare. La stessa che, con il fiatone e un sorriso che partiva da un orecchio e finiva all’altro, si era appena fermata davanti a me, piegandosi, per riprendere aria.
«Ehi», salutai, mettendomi una ciocca castano chiaro dietro l’orecchio.
Lui alzò lo sguardo verso di me, ancora con quel sorrisone, facendomi l’occhiolino. Notai che aveva cambiato pettinatura: quella sua specie di frangetta biondina con riflessi più che apprezzabili, adesso era diventato un ciuffo, messo in maniera molto accurata verso sinistra. E li aveva anche accorciati! Gli donava più della precedente pettinatura, troppo ispirata al cantante canadese.
«Uffa, che presa a male», disse, guardandomi negli occhi, quasi accigliato. «Volevo venirti a prendere a casa. Ma hai deciso di non fare tardi, oggi».
Io lo guardai, urtata. «Fatti i fatti tuoi», sibilai, con gli occhi chiusi in una fessura. Beh, il nanetto aveva la capacità di farmi irritare in fretta. Poi Noah, con la faccia di chi ha appena capito qualcosa, mi fissò il lato destro della faccia.
«Che c’è?», domandai, curiosa.
«Il livido. Non c’è più».
Ah, anche lui aveva notato la differenza. Guardandolo, vidi che c’era un sorriso quasi dispiaciuto in volto, adesso. Forse era per il fatto che mi ero presa il pugno al posto suo, ancora.
«Beh, per questo fatto, io…».
Come previsto.
Gli bloccai la bocca, con uno scatto repentino, mettendoci una mano sopra. «Non importa, stai zitto. Me l’hai detto mille volte». Lui alzò gli occhi al cielo.
«Adeomtgliamao?», chiese. Io eseguii, con un’altra occhiataccia, e lui e la restituì.
«Non diventarmi logorroico, intanto». Lui scrollò le spalle, come faceva di solito per terminare un discorso.
Non sapevo se era una cosa carina o meno, ma stavo iniziando a conoscerlo davvero. Adesso più o meno sapevo tutte le sue espressioni a memoria, anche se era appena un mese che mi asfissiava con la sua presenza. Ero diventata anche meno acida, sul serio. Anche se con lui il mio comportamento era rimasto invariato. Ma alla fine era meglio così: non volevo fargli montare la testa.
Ci avviammo verso la scuola. Lo guardai per un attimo, ed era chiaro che anche lui stava pensando. Forse, alle stesse mie cose. O, semplicemente, mi piacque pensarla così.
 
Nella sala mensa, come al solito, c’era quel borbottio di sottofondo. Ogni tanto qualcuno urlava, o rideva sguaiatamente, per poi tornare al borbottio.
Noah, a sua insaputa, già da un pezzo era stato puntato dal suo fan club, che si dimenava. Anche quello, come al solito. Ma io mi sentivo strana, decisamente. Tra una forchettata  di pasta fin troppo al dente all’altra, indagavo su me stessa. Mi sentivo come se avessi il famoso postumo della sbornia, e l’avevo anche provato. Che cattiva ragazza, proprio.
«Ehi, Honey?».
La mia mente venne disturbata dal ricordo della mia prima bevuta, a una festa alla quale mi avevano trascinato. Avevo solo quattordici anni. E, tra parentesi, mi ci aveva trascinato una delle mie poche emiche di quell’epoca, che adesso si era trasferita alle Hawaii. Beata lei, cazzo. Con una fitta allo stomaco mi resi conto del tempo che era realmente passato da quando ci eravamo viste l’ultima volta… Emile Scott…
Dopo un grande sforzo, mi riuscii a concentrare sul volto di Noah, che aveva uno sguardo indagatore. Lasciai persino stare il fatto che avesse pronunciato quello stupido soprannome senza senso, dato che ero curiosa di quello che aveva da dirmi.
«Ascolta, credo che staresti meglio con le lenti a contatto!», esclamò accorato, a sorpresa. Sbuffai, mettendomi le mani ai fianchi.
«Mangia, e taci, per una buona volta.  Quando apri la bocca dici solo cazzate». Lui mi guardò, offeso.
«Non dovresti parlare così alle persone, sai?».
«Da quando i batteri minuscoli sono considerati persone?», ribattei, con un sorrisetto.
«Oh, zitta, meglio essere bassi che avere i neuroni che si suicidano per auto compassione!»
Qualunque altra cosa avesse detto per proseguire il nostro battibecco, non ci feci caso. Un angelo, vestito in un modo così perfetto – una camicia a quadri bianchi e rossi, con il pantalone blu e le sneakers  – mi passò di fianco, bloccandomi letteralmente il respiro. Noah seguii il mio sguardo, e appena vide cosa stavo guardando, quasi con la bocca aperta, fece una smorfia.
«Ah, già. Anche tu vai appresso a English Freak», fu il suo aspro commento.
Mi venne voglia di tirargli i capelli, ma mi trattenni. Volevo occupare tutto il tempo della vicinanza con l’angelo guardandolo. Alla fine, l’amore non era possedere, ma anche guardare da lontano, in disparte. No?
English Freak, comunque, era il soprannome che gli amici idioti di Noah – tra cui un certo Martin Ribera e un altro idiota il cui nome era Allan Brooks – avevano affibbiato all’angelo, per pura invidia. Era una cosa idiota al massimo, ma grazie a quel soprannome avevo scoperto che quel ragazzo era inglese. Più pallido degli altri, quasi come me, il cadavere che camminava.
 
Pensi al diavolo? Ti ci si presenta davanti. Ovvio.
Brooks, ragazzo che veniva da Brooklyn, capelli castani, e occhi color cioccolato, più scuro dei suoi ormai compaesani, e Ribera, un altro emigrato, (scherzosamente, ovvio) però dalla Spagna, anche se non sapevo esattamente dove, con i suoi capelli rossi e lentiggini (quest’ultime un po’ più rade se il controfondo era con Noah), vennero al nostro tavolo, con il loro onnipresente ghigno malefico stampato sulle labbra.
Noah si alzò per scambiarsi con loro il ‘segno di fratellanza’, come ostentavo a chiamarlo. E poi facevo arrabbiare Noah, tanto meglio. In pratica quella roba consisteva nel prendersi la mano e stringersela a pugno per poi sbatterla sul petto entrambi. Ma com’è, tutti si ispiravano a quegli schifosi telefilm da ebeti?
«Che fighi», mormorai, ironica, ma anche disinteressata, mangiucchiando. Brooks arrossì, anche se era il più indisponente tra tutti gli amici di Noah. Avevo il presentimento che gli fossi particolarmente antipatica, per motivi a me sconosciuti. Come con Hector Kean, il mio amato professore di lettere, questo dolce sentimento era ricambiato. Ribera invece mi guardò appena, per rivolgersi di nuovo a Noah, con fare elettrizzato. Inevitabilmente, anche ai miei orecchi giunsero le loro sciocchezze.
 
«Ehi, ragazzo. Un bel malloppo per noi! Ci sono due ragazze carine del primo anno, Dio, uno splendore. Io e Al praticamente le abbiamo già in pugno. Ma c’è la loro altrettanto carina amichetta», e così Ribera guardò Brooks con fare malizioso, «che è altrettanto sola», continuò, con la sua falsa voce angelica. Diedi uno sguardo a Noah, e mi stupii a notare che mi fissava. Increspai un sopracciglio.
«Allora, vieni?».
«Amico, sono la metà di noi. Non t’immagini, erano timide al massimo. Ma la nostra ultraterrena bellezza le ha esortate obbligatoriamente a dire di sì», intervenne Brooks, per convincere maggiormente l’amico.
«Arrapato, arrapato», canticchiai, a voce bassa, ma comunque ben udibile.
Brooks venne verso di me, perforandomi lo sguardo con i suoi occhi scuri. Aveva quel comune sguardo che io avevo imparato ad usare molto bene in quegli anni: ‘se al posto degli occhi avessi delle pistole…’ . Ma che carino!
«Anche tu vuoi darmi un pugno?». Un innaturale sorrisetto bastardo mi sorse sulle labbra, mentre la mia mente vagava sul cupo ricordo del pugno e il fatto che stavo irritando a morte Brooks. Anche se, comportandomi in quel modo, sarei stata una specie di icona per la violenza sulle donne. Mi ritirai, alzando le mani, prima che lui potesse dire o fare qualcosa.
«Stavo scherzando», dissi, in fretta.
Noah sbuffò sonoramente, e mormorò qualcosa, che non capii. Ma, comunque, poi disse che aveva da fare con me. Brooks e Ribera furono fin troppo entusiasti. Di certo s’immaginavano chissà cosa, per quel motivo, forse, i loro ghigni erano più estesi del solito. Era strano: proprio io che non avevo mai affrontato pettegolezzi, quella cosa non mi fece né caldo, né freddo. Avrei dovuto sentirmi… turbata? Contrariata? Non mi andò di chiederlo al ragazzo che, al suo solito posto di fronte a me, consumava il misero e orribile pasto che offriva la mensa, mentre salutava quei due microcefali allontanarsi.
Sospirai, e non seppi nemmeno io il motivo preciso.
 
«Che avevi ieri?», mi chiese Noah, mettendosi il libro di chimica nello zaino. Eravamo appena sopravvissuti a un’altra di quelle torture, ma insieme, come aveva puntualizzato Noah, l’ora prima. Proprio così, perché il nano aveva provveduto affinché avesse quella stupida materia alla mia stessa ora.
Rimasi un attimo spiazzata dalla domanda.
«Che intendi dire?».
«Ti ho chiamata ieri sera per i compiti di biologia, ed eri tipo… non saprei spiegare». Noah disse l’ultima frase con voce strozzata. Io lo guardai, quasi sorridendo. Stava scherzando, vero? Non ricordavo neanche che mi avesse chiamata.
«Eri strana», continuò, con lo sguardo perso nel vuoto. «Era come se avessi paura… mi dici cos’è successo? E smettila di sorridere!», urlò, irritato.
«Guarda che ti sbagli, non è successo proprio niente…».
Però dovevo ammettere che il vuoto di memoria era inquietante. Come la mattina, quando c’era una decisa traccia su di me, urlando che l’ordinario che si svolgeva tutti i giorni non era più ordinario. Era successo qualcosa, ma...
«Hai detto che c’era la luce come il sangue… Insomma, mi stavi prendendo per il culo?».
            No, no, no. Non può. Non può essere!
Oddio, oddio. Non poteva essere vero! Avevo visto il cadavere? Io? Non era frutto dei miei sogni? Era tutto vero?
 
All’improvviso, ricordai la notte piena di angoscia. Ricordai tutto. No, quel cadavere era vero, concreto, reale. E la cosa mi terrorizzò.
Dov’era andato a finire il clima tranquillo e quasi patetico che mi ispirava la scuola? Dov’era finita la mia sicurezza sul fatto che non c’era nulla da trovare interessante, quando qualcosa di estremamente fuori dalla mia portata si prostrava a me, senza che io avessi alcuna via di scampo? Avrei voluto fuggire, una volta ancora. Le gambe mi tremavano. La testa mi girava.
Iniziai a mordermi il labbro, e sentii il sapore del sangue sulla punta della lingua.
«T-torno a casa», balbettai. La paura aveva quell’effetto su di me; ormai ci vedevo bianco e nero, e tutto girava, un carnevale a cui ero tagliata fuori.
Scappai, proprio come avevo sempre desiderato fare, con la voce di Noah che rimbombava nel corridoio, ormai privo di studenti.
La campanella era suonata già da un po’, ma tutto quel che provavo era troppo, troppo, per percepire anche quello che succedeva intorno a me, e non dentro la mia testa. 
  
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