La mano
stretta alla sua, quel
caldo della primavera che si propaga per tutto il corpo.
Taemin sente
un qualcosa di
strano, Kibum invece avvampa.
Lo trascinò nel suo laboratorio, proprio lì
dietro, dove mai nessun
altro era andato, se non quei collaboratori accuratamente scelti.
Non aveva mai smesso di tenere stretta la sua
mano, come non aveva
assolutamente intenzione di farlo. Voleva portarlo lì e capire “quel
qualcosa
di grande che ti fa stare bene” e dargli un nome, perché lui sapeva,
sapeva
davvero cos’era.
Taemin era sicuro, Kibum molto meno, lo si
poteva intuire da quelle
dolci gote arrossate che non sentivano più il freddo dell’inverno
colpirle.
E fu proprio lì, vicino al bancone
principale, dove Taemin aveva
imparato a creare le sue opere d’arte, che il giovane pasticciere si
girò verso
di lui, tenendo sempre salda la sua mano.
Lo sguardo si posò subito nel suo, notando
ancora una volta la dolcezza
degli occhi di opale.
Ma non c’era la nota
triste, così sorrise.
E sorrise anche Kibum.
Come se una dovesse seguire l’altra, prima
una e poi l’altra, quelle
bocche mostrarono dei meravigliosi sorrisi.
Forse… l’uno dipendeva
dall’altro?
E come se fosse la cosa più naturale del
mondo, i loro occhi s’incatenarono,
come la volta precedente e forse anche di più. Brividi caldi
attraversarono i
loro corpi, mentre il sole spuntava nel viso di Kibum, un po’ arrossato
e così
incredibilmente dolce.
“Ora t’insegno a fare il
pan di spagna, quello vero…”
“Co-come?”
“Quello vero, così poi
potrai fare anche lei… ma prima devi imparare a fare lui…”
“Ma… io non credo di…”
“Tu puoi… devi solo
volere.”
“È difficile Taemin…”
“Ti aiuterò io…”
“Beh, sei un
pasticciere, tu puoi insegnare a chiunque…”
“No, lo posso insegnare
a chi lo conosce… tu però mi devi dire il
nome.”
“I-Il nome?”
“Sì, tu… lo sai…”
Kibum avvampò di nuovo, mentre le dita
soffici di Taemin accarezzarono
lente la sua mano. Lo guidò, in quel laboratorio, tanto grande e con
l’isola in
mezzo, così grande che ci poteva stare una persona sdraiata.
Poteva essere di qualsiasi colore,
solitamente acciaio, invece erano
banconi bianchi. Perché il bianco è puro, perché è qualcosa di
estremamente
rilassante ed in ogni caso avrebbe aiutato la lievitazione di quei
dolci tanto
particolari.
E poi… era come la panna.
E le gambe di quei
tavoli erano marrone scuro, come il cioccolato.
Kibum le aveva notate e, sempre con la mano
nella sua, s’aggirava lì.
Quella dispensa grande color cioccolato, conteneva ogni cosa. Lo sapeva
perché,
dopo pochi attimi passati ad osservare tutto, Taemin l’aveva aperta ed
aveva
preso gli ingredienti necessari per il pan di spagna, poggiandoli sul
bancone
grande e bianco.
Kibum l’aveva guardato. S’era impresso ogni
movimento, ogni sguardo,
ogni piccolo particolare di lui perché… beh, perché lui era quel
qualcosa che
lo faceva stare bene, un po’ come la torta.
Più lo guardava, più gli piaceva ogni piccolo
particolare di lui, a
cominciare da quello sguardo da ragazzino, dal viso dolce
apparentemente, ma
così sicuro e da uomo, come la maniera di camminare e… la sua schiena
ampia.
Sarebbe stato bellissimo
ricevere un abbraccio.
Sarebbe stato
altrettanto bello rifugiarcisi dentro…
Magari essere stretti lì…
Magari sentire un
profumo dolce, ma da uomo.
Magari sentire la
stretta infondere sicurezza,
magari sentire le mani
avvolgere la sua vita,
anche se inesperte.
Però lo sapeva fare?
Sembrava di sì.
Anche se non l’aveva mai
fatto.
∞
Si gira e
sorride… lo chiama
dolcemente.
“Kibum…”
***
Aveva lavorato tutto il pomeriggio, ma non si
era reso conto di quel dannato
tempo che era passato velocemente.
Kibum, questo era il suo pensiero ricorrente
in quel dannato pomeriggio
che non aveva nessun senso. Aveva pensato continuamente ad ogni cosa,
guardando
quegli scatoloni ora pieni, ora vuoti e poi di nuovo pieni.
E aveva capito che per colmare quel vuoto che
aveva lasciato con la sua
stupida paura, doveva fare molto di più di ciò che in quel momento
voleva fare.
“Ma
l’importante è fare il
primo passo!”
Questo si diceva e ripeteva più e più volte
ad ogni istante che
passava, in ogni attimo che riempiva quei scatoloni. Li riempiva con
chissà
quante cose importanti, per gli altri, ed era quello che doveva fare
lui con
Kibum.
La campanella che segnava la fine dell’orario
lavorativo, non fu il
primo passo ma fu semplicemente il “il prendere coraggio” per fare ciò
che
avrebbe dovuto fare molto prima.
Lo stava facendo. Era partito ed era andato
in un negozio prima, in un
altro poi… ed in un altro ancora.
Ed era stato difficile.
Era stato il primo passo, era stato un
qualcosa di importante da fare e
adesso… bisognava fare tutto il resto. Era tornato alle sei e Kibum
ancora non
c’era.
Si era spaventato.
Ma poi aveva fatto finta di nulla,
sospirando, ed aveva sistemato quel
mazzo di rose rosse al centro del tavolo, rigorosamente a gambo lungo.
Erano
dodici, ed era sicuro che anche se gliene avesse regalate mille, non
sarebbero
comunque bastate per dire ciò che provava per lui.
Si era diretto in cucina poi, prendendo
quelle tovagliette giapponesi
che a Kibum piacevano tanto, e le aveva messe lì, una di fronte
all’altra per
far sì che, una volta seduti, si guardassero.
Amava guardarlo, ma solo quando lui non se ne
accorgeva, perché ogni
sua espressione era così incredibilmente bella che gli faceva sentire
quella
sensazione che tutti chiamano “farfalle nello stomaco”.
Lui la sentiva sempre con Kibum, solo che
ultimamente aveva così tanta paura
di non sentirla che si agitava e davvero non la sentiva, facendolo
diventare ancora
più insicuro di ciò che già era.
Ma non era solo quello,
era l’insieme delle cose.
Per far ritornare bello un vaso rotto,
bisogna incollare ogni più
piccolo pezzettino, incastrarlo perfettamente come fosse un puzzle,
anche se… è
possibile davvero aggiustare un vaso rotto?
Quando
qualcosa si rompe, come
il loro rapporto, come la fiducia, l’amore, come… quelle farfalle che
non
volavano più perché le ali erano rovinate, come puoi pretendere che
tutto
ritorni come prima?
Puoi amare,
puoi amare da
impazzire, ma quella lontananza, quel legame spezzato… non si può
aggiustare.
Però Jonghyun voleva
farlo.
Avrebbe voluto fare
qualsiasi cosa pur di non perderlo.
Ed aveva ricominciato a
ricomporre il vaso,
partendo non proprio dal
primo pezzo ma…
usando la colla
migliore, quella ottima, mettendo poi su ogni piccola
crepa
dei brillantini, segno
che…
forse si sarebbe
aggiustato e nonostante tutto Kibum avrebbe visto la
parte migliore di quei segni dolorosi.
Forse.
Kibum, tu lo
vuoi?
***
“Ne?”
Arrossisce e
si morde il
labbro, mentre gli occhi di opale si colorano di primavera.
Taemin li nota, come nota le
sue dolci gote arrossate. Nota le sue labbra e, per la prima volta,
sente il
desiderio di baciare qualcuno. Baciarlo per assaggiarlo, per sentire se
davvero
può essere così dolce come sembra dal di fuori.
Le tue
labbra sembrano
dolcissime, come quel nettare di rosa.
Vorrei
assaggiare la tua bocca…
Vorrei
gustarne appieno il
sapore e scoprire che quello che sento…
È come
quello che provo per lei.
La mia torta.
E se fosse
di più?
Mi
piacerebbe, vorrei…
∞
“Proviamo…”
Allunga una
mano verso la sua,
Kibum la stringe timidamente e Taemin l’attira verso sé.
Si erano guardati negli occhi e poi avevano
cominciato a preparare la
base per quella torta, perché per tutto ci voleva un tempo e anche
cura,
passione e dolcezza.
Aveva passato tutti gli ingredienti necessari
per la torta a Kibum e l’aveva
aiutato dicendogli come e cosa fare e l’aveva guardato, finché le sue
mani
delicate, ma sicure, si erano mosse seguendo ogni sua parola,
mescolando gli ingredienti
nella ciotola piano.
Non si era stupito Taemin di questo, anzi, ne
era rimasto piacevolmente
colpito, perché vedeva come muoveva
le mani, come vedeva la sua espressione felice nel farlo.
Perché tu
sai cos’è questo sentimento…
e lo sai anche dare.
Vorrei che
fosse per me…
L’avevano fatto insieme. Entrambi, su quel
bancone, avevano lavorato
fianco a fianco, sfiorandosi e addirittura toccandosi più volte.
Si erano guardati, imbarazzati e felici,
continuando a mescolare il tutto
e a metterlo nella tortiera subito dopo, infornandolo, mentre Taemin
notava
sempre più spesso le sue gote colorate di rosso, così calde e belle che
quel
viso dalla tonalità panna era diventato qualcosa di molto più che
speciale.
Era di più.
È di più.
Molto.
Ed avrebbe voluto sul serio guardarlo per
molto ancora, solo che il
tempo era letteralmente volato e così si erano ritrovati un po’
impacciati e
confusi, l’uno accanto all’altro, con i tre aiuto-pasticcere che
dovevano
arrivare di lì a poco.
Kibum, a quel punto, avrebbe voluto
tornarsene a casa ma Taemin
gliel’aveva impedito.
Era bastata un’occhiata.
Così, veloce, mentre si
giravano.
Kibum aveva incrociato il suo sguardo a
tratti dolcissimo come quella
cioccolata, a tratti più serio e sicuro.
Non
andartene, rimani qui con
me.
Questo gli aveva detto. Questo aveva sentito
e ne era rimasto colpito,
così tanto che l’aveva guardato per un
po’ troppo tempo e Taemin si stava avvicinando sempre di più.
Avrebbe
voluto lasciarlo
avvicinare.
Avrebbe
voluto sentirlo.
Avrebbe
voluto… baciarlo?
“Kibum, sono arrivati…
ora ti porto qualcosa da mangiare”
“Non fa niente,
tranquillo… Penso che sia giusto che vada ora!”
“No.”
“Eh?!”
“No, rimani. Qui, con
me.”
Arrossì visibilmente, ma non ebbe tempo di
guardare chissà dove e
riprendersi, che i tre aiuto-pasticcere stavano già entrando, da quella
porta
che Taemin aveva già aperto.
Era impossibile non osservarlo, quell’aria
così sicura era in netto
contrasto da quella dolce che aveva dentro, con i dolci… e forse anche
con
Kibum.
Kibum l’aveva visto.
A Kibum piaceva quella
sua aria dolce, ma da uomo.
Sicura, ma anche un po’
da bambino.
Forse… le sue braccia…
potevano definirsi casa?
Probabilmente.
∞
Ed il loro pomeriggio passò così, con un pan
di spagna in forno, fatto
da loro, con quella gente che andava e veniva lì dentro, ma che nessuno
mai,
nemmeno per un solo istante, aveva calamitato la vera attenzione di
Taemin.
La sua attenzione era
solo per Kibum.
E Kibum a volte se ne
accorgeva, a volte no.
A volte diventava ancora
più rosso di prima,
mentre cresceva la
voglia di panna e cioccolato.
Taemin non s’immaginava che quella sera
sarebbe stata davvero diversa
da quella precedente. Se il giorno prima aveva sbuffato spazientito,
guardando
in ogni dove e camminando velocemente, quella sera invece non aveva la
benché
minima voglia di chiudere.
Chiudere significava
lasciare Kibum.
Lui non voleva.
Non voglio,
ma devo.
“Beh, Taemin, ti ringrazio… pensi che possa
diventare un buon
pasticcere?” sorrise, affiancandolo ed incamminandosi verso casa.
Nessuno dei due
sapeva dove abitava l’altro, però quella voglia di continuare a stare
vicini gli
aveva fatto fare quello.
“Lo sei già, devi solo essere più sicuro di
te stesso. Però sei felice,
senti anche tu quel qualcosa di grande
che ti fa stare bene con loro… giusto?”
“Sì…” e sorrise, aggiustandosi alla bell’e
meglio la pashmina rosa “Si
chiama amore, Taemin, dovresti imparare a dirlo...”
“Imparerò”…
magari con te. Lo
fissò, per qualche istante negli occhi, abbozzando un dolce sorriso.
Era
primavera.
“Ci vediamo
domani, Kibum…”
“A domani,
Taemin.”
Sorrisero entrambi nuovamente, dopo
quell’istante che li aveva visti ancora
così incatenati e, dopo un saluto un po’ imbarazzato e qualche
tentennamento,
si divisero per andare realmente a casa, quella vera.
Vera?
Cos’è questa
strana cosa che
sento con te?
Perché, sai…
il cuore mi batte
veloce.
Non riesco a
fare a meno di
girarmi e guardarti andare via.
Non è un
addio, lo so.
Ma… perché
non voglio che
succeda?
Perché mi
sento così bene?
***
Ormai erano le otto e mezza. Candele mezze
consumate, cena quasi fredda
e la casa desolatamente vuota. Vuota come la sua mente, vuota come il
suo
cuore.
O forse era pieno.
Tristezza, angoscia,
dolore.
Dolore per
un qualcosa di
grande e disperatamente vuoto e pieno allo stesso tempo. Lo pensa e
guarda
triste tutto, mentre un rumore di serratura lo fa girare, e la porta si
apre.
***
Aish! Kibum,
smettila!
Questo aveva pensato finché ogni tanto si
girava e lo sbirciava.
Continuava a farlo ininterrottamente, che per poco non sbatté addosso
ad un
palo della luce.
Patetico. O forse no?
Di certo si diede dell’idiota e ringraziò il
buon Dio, o chi ne fa le veci, che in giro non ci
fosse nessuno, soprattutto lì, in quell’attimo, altrimenti sarebbe
diventato
ancora più rosso di ciò che già era.
E di quello che era
stato tutto il pomeriggio.
E non era per il fatto che continuava a
guardarlo, nemmeno a pensarlo.
No, era tutto l’insieme delle cose, di quel pomeriggio così strano e
bello,
così caldo nonostante fosse inverno, di quelle spalle forti a cui
voleva
aggrapparsi, di quelle braccia forti da cui voleva essere stretto.
Casa.
Sentirsi a casa.
In quel posto lui si
sentiva a casa.
E con Jonghyun?
Non si sentiva a casa.
Perché?
Kibum smise di pensarci e corse, per quei
pochi metri che lo separava dalla
casa vera, col cuore in gola. Voleva piangere, ma non ci riusciva.
Perché…
perché sentiva che la risposta a quella domanda, significava solo una
cosa?
Non ci voleva pensare.
Jonghyun era quello che amava, quello con cui
voleva passare il resto
della sua vita! Pazienza tutto, Jonghyun non lo voleva lontano da sé!
Però,
Taemin era Taemin… Perché sentiva quella nota cioccolato posarsi sul
cuore e
non lasciarlo?
Perché sentiva che
quella cosa tanto bella, poteva
far male a Jonghyun?
A lui non voleva fare
del male, anche se Jonghyun
gli faceva del male.
Perché lo amava tanto!
Perché era tutto quello
che voleva, no?
Le chiavi le infilò velocemente nella
serratura, talmente tanto forte
le girò che temette di spezzarle. Però non successe, la porta si aprì e
vi si
gettò dentro.
E, quando alzò lo sguardo, lo trovò lì, di
fronte al tavolo da pranzo,
con un’espressione stravolta.
Era distrutto dalle ore di lavoro, ma
soprattutto da quelle ore di
assenza di Kibum.
∞
Ti ho fatto
del
male.
Troppo, non
lo
meriti.
Jonghyun,
sono qui.
∞
Sei tornato…
Perché mi fa
male
tutto questo?
Eppure sei
qui.
∞
Gli vola letteralmente tra le
braccia, senza sentire nient’altro quel suo amore grande per lui ed il
senso di
colpa per la giornata appena trascorsa.
Senza di lui.
Per essere
stato felice,
senza di lui.
Lo guarda, mentre le sue mani lo stringono
forte a
sé, lo bacia e d’un tratto sembra che tutto il resto del mondo, oltre
quella
porta sia il nulla.
Jonghyun sente che, all’improvviso, qualcosa
è
cambiato e lo stringe ancora di più, baciandolo con foga e amore.
È come se
qualcuno
avesse tamponato l’emorragia.
Qualcuno o
qualcosa.
Ma cosa?
Non esiste la cena, non
esistono i fiori. Non esiste quel regalo che Jonghyun ha poggiato con
cura nel
posto dove Kibum mangia di solito.
Non esiste
più
niente.
Esistono
loro.
I loro corpi si avvolgono, si
baciano, si accarezzano in una danza sensuale e sembra che davvero,
tutto il
dolore che c’era prima, sia sparito in un secondo.
È questione di poco e si
ritrovano a letto, stesi l’uno sopra l’altro. I baci diventano roventi,
se
Kibum li paragona ad un certo tipo di baci, direbbe che sono come i
primi,
quelli da innamorati, quelli dove non vedi l’ora di toccarti e di
amarti, di
essere un tutt’uno.
Però
Jonghyun si
stacca dal bacio e glielo dice:
“Non farlo mai più”
E stavolta il macigno che
sentono entrambi è a causa di Kibum, almeno questo è ciò che crede. Non
ha la
forza di rispondergli e lo guarda solamente smarrito, come se avesse
commesso
un delitto talmente atroce da non meritare nemmeno uno sconto di pena.
Ma se l’ha
fatto,
un motivo c’era.
Non te ne
accorgi
Jonghyun?
Jonghyun non lo capisce, o forse serve solo
per
mettere a tacere la sua coscienza. La parola che doveva dire a Kibum
era
“scusami tu”.
È così
difficile?
Scusami tu
Kibum , per
tutto.
E Kibum trema, finché Jonghyun
lo bacia di nuovo, ma non trema d’amore, trema d’angoscia. Kibum piange
dentro,
forse anche un po’ fuori, ma Jonghyun ha gli occhi chiusi e nemmeno
stavolta si
accorge delle sue lacrime.
“Scusami tu”
sarebbe
stato sufficiente per distruggere la distanza.
L’averlo
compreso,
l’avrebbe fatta diminuire.
O forse
sparire.
Il “non
farlo mai
più” significa che è colpa tua.
E Kibum lo
sa.
“Sono io la
causa
di questo?”
Diventa di colpo un gattino
impaurito tra le sue braccia, quelle che credeva fossero la sua casa,
quelle
che dovevano farlo sentire al sicuro.
Invece ora
si sente
una merda.
Ha paura. I sentimenti si sono
bloccati lì, in mezzo al cuore. Non si muovono, sono chiusi lì dentro e
non se
ne vanno, non si esprimono, non escono.
Ed è stato
Jonghyun, anche stavolta.
Come quelle
carte,
li ha buttati dentro ad uno scatolone e chiuso saldamente.
Però Kibum ci prova, ci prova
lo stesso, anche se fa male. Prova ad abbandonarsi a lui, ma tutto ciò
che
sente è solo un corpo pieno di muscoli contratti, un corpo che ora, in
questo
preciso momento, non sente il piacere di una carezza.
È un corpo
vuoto?
No, è pieno.
Pieno
di dolore.
Quando un dito entra, Kibum
prova a rilassarsi, ma fa male. Fa male il cuore, con quei dannati
sentimenti
bloccati.
Ed è lo stesso quando entra
lui. Il cuore fa più male di prima. Ci prova ancora, sforzandosi ancora
più di
prima, ma sente di nuovo dolore.
Jonghyun non
se ne
accorge.
Kibum pensa
che sia
colpa sua, perciò resiste.
“Questa è
una
punizione, è solo colpa mia!”
Lo pensa incessantemente
durante tutto il rapporto, lo pensa più volte al secondo per… per cosa?
Perché
non riesce a fare altro.
E pensa a
Taemin.
Si da la
colpa, ma
lui lo rende felice.
Il cuore è
leggero
lì, ma qui?
Stavolta si concentra di nuovo
e pensa al suo ragazzo, alla sua colpa e a quello che deve fare per lui
e
allora ci riprova. Non escono sentimenti, ma riesce in qualche modo a
camuffare
tutto, sentendo un po’ di piacere e soprattutto dando piacere a lui.
E quando
Jonghyun raggiunge
l’orgasmo, gli sembra quasi impossibile.
La sua colpa
è
stata espiata, lui ha sbagliato, ma ha pagato.
Diventerà
migliore,
e non si merita molto da Jonghyun.
Non si
merita ciò che
pretende, non merita niente.
Forse è
meglio non
ricevere nulla, è giusto così.
Ma… allora
perché?
“Mi
basteranno le briciole,
sarò felice solo con qualche dolce… niente più”
Ma pensa a
Taemin.
∞
Perché ci
penso?
Cosa vuol dire amore?