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Autore: lalla    09/07/2004    5 recensioni
Anno 1794, primavera inoltrata. Nelle campagne del Campidano di Cagliari, un giovane gentiluomo e un vecchio contadino si scambiano le loro opinioni sui tempi che stanno cambiando...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
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SA DIE

SA DIE

Il 28 Aprile 1794, una rivolta popolare, guidata da alcuni influenti membri della borghesia,sull’onda lunga della Rivoluzione Francese, portò alla cacciata del Viceré da Cagliari. L’episodio, benché la libertà sia poi risultata un fuoco di paglia, è assurto a simbolo e lo si celebra ancor oggi come “festa dell’orgoglio sardo”. Nel dialogo tra il giovane gentiluomo infatuato delle idee rivoluzionarie e il vecchio contadino pessimista, ho fatto parlare quest’ultimo in dialetto. Ma non si spaventino i lettori: tra parentesi, ho messo la traduzione.

 

Erano passati sì e no un paio di giorni dal mio rientro a casa, l’occhio pesto e il sopracciglio spaccato mi facevano ancora male e la testa minacciava di scoppiarmi. Nelle mie condizioni,non sarei dovuto uscire a cavallo. Erano i primi di maggio ma faceva già parecchio caldo: in tutta franchezza, non ne potevo più delle ramanzine di mio padre. Quello che hai fatto è grave, ragazzo mio. E’ terribile. Ci infanga. Che t’importava d’imbrancarti con la marmaglia cagliaritana, di rischiare la vita e l’onore per quei due delinquenti, Cabras e Pintor, che se li hanno schiaffati in galera una ragione ci sarà? Si era parecchio adirato e aveva alzato la voce, vedendomi rientrare a casa, dopo che ero sparito per quattro giorni buoni; e avrebbe alzato su di me, ne sono sicuro,anche il suo bastone d’ebano e d’argento, non fosse stato per quella benda zuppa di sangue stretta intorno alla fronte e per i miei ventitré anni. Ero un uomo, ormai, mica un bambino che si possa battere per una marachella.

Che ti sei messo in mente di imitare i Francesi, quegli eretici scomunicati che hanno tagliato la testa al Re e rinnegato Santa Madre Chiesa? Dovresti inginocchiarti davanti al Crocifisso e rendere grazie che siamo stati capaci di ricacciarli in mare per intercessione della Beata Vergine del Carmelo e dei Santi Efisio e Saturnino martiri...Quanto tempo ancora mi avrebbe tormentato con quella maledetta solfa? Eppure, aveva sempre saputo che eravamo diversi, io e lui, che non può esserci niente in comune tra un giovane pieno di ideali, qual ero io, e un vecchio attaccato alle tradizioni come una cozza allo scoglio. Perché non si rassegnava? Il tempo non è roccia, e guai se così non fosse. Forse, se tutti quei santi fossero stati un po’ più distratti, le avremmo avute anche noi per mano dei Francesi (ma quali eretici, quali scomunicati, avevano soltanto capito da che parte soffia il vento della Storia) Libertà e Giustizia, prima che fosse tardi e rischiassero di farne le spese proprio quelli come noi. Invece...Invece il mondo avrebbe continuato a girare così come girava chissà ancora per quanto, pensavo infilando il piede nella staffa, il Re che comanda, i nobili che godono, la Chiesa che accumula ricchezze (ma non aveva predicato la povertà, Gesù Cristo?) e il popolo che tace e subisce, fosse dipeso da mio padre e da chi la pensava come lui. Ma io ero diverso, e non avevo esitato a metterli in gioco, la mia vita e il mio onore, il giorno che avevano cacciato i Piemontesi da Cagliari.

Era una bella giornata di sole caldo. Perché rimanermene chiuso in casa a sorbirmi le prediche di mio padre, l’angoscia della mia fidanzata, i sarcasmi degli amici di famiglia? Nessuno poteva costringermi a restare anche se, reprobo, meritavo di scontare la mia colpa con qualche giorno di forzata reclusione domestica. Ma, a ventitré anni, un uomo è un uomo, non un bambino che si possa costringere a fare quel che non vuole.

Avevo portato con me il cane e il fucile: mi si fosse presentata l’occasione, avrei tirato volentieri a qualche pernice, così, tanto per non perdere l’abitudine. La campagna era deserta e silenziosa, il levriero grigio mi precedeva, la piccola testa di serpente tesa ad annusare l’aria. Gli unici rumori, erano quello dei campanacci e l’abbaiare iroso dei grossi, irsuti e feroci cani dei pastori. Sono giorni che in giro tira aria brutta, diceva mio padre. Ma che potevo avere da temere, quando non la pensavo come lui, quando avevo messo la vita e l’onore a repentaglio perché le cose cambiassero? Nessuno mi avrebbe fatto del male, lo sapevo, anche se ero “Signoriccu”, il figlio di Don Antonio, il Padrone, quello che non  sputa il sangue sulle zolle e il raccolto è suo, che non trema sotto la sferza della pioggia e l’impeto del maestrale e le bestie sono le sue, che non veglia tutta la notte aspettando la volpe al varco e gli agnelli sono i suoi...I nostri contadini probabilmente mi conoscevano poco (il mio scarso amore per la campagna e il fatto che preferissi  il palazzo di famiglia in Castello* alla proprietà era un’altra delle colpe che mio padre mi rinfacciava ad ogni piè sospinto), ma in un villaggio dove ognuno sapeva tutto di tutti, compreso quel che avevo combinato e come ciò avesse mandato in bestia il mio nobile e austero genitore, mi avrebbe messo al riparo dalla loro acrimonia, almeno quanto il fatto che in giro non si vedesse un’anima.

Un grosso cane nero mi si parò davanti ringhiando e feci fatica a trattenere il cavallo. Chissà da dove era sbucato, mi domandai tendendo le redini. Avevo rischiato seriamente una caduta  e qualche probabile morso, il che, a posteriori, finì con lo spaventarmi ben oltre il dovuto, malgrado in verità non mi fosse capitato niente di serio: ma la rabbia, soprattutto tra i cani randagi, non era rara, e costituiva, per uomini e animali, una gran brutta morte, sicuramente la peggiore.

- Acchiettadì, o Su Conti! (A cuccia, Conte!)

Aveva chiamato col nome di Conte il suo cane. Mio padre si sarebbe offeso, se avesse potuto sentire. Ma a me importava solo che quella bestiaccia avesse un padrone a cui ubbidiva e non fosse rabbiosa.

-Assiccau sind’estj, Signoriccu? (Vi siete spaventato, Signoriccu? )

Uno di quei contadini che sapevano tutto di me, mentre io non sapevo nulla di loro. Il sole mi batteva sugli occhi e gli confondeva i lineamenti. Aveva, notai solo questo  prima che una nuvola velasse il sole e mi permettesse di vederlo meglio, i capelli lunghi e una gran barba bianca. Dimostrava una sessantina d’anni, ma poteva averne molti di più o molti di meno, niente è difficile come azzeccare l’età di un contadino.

-Seu tziu Licu, su sotzu de Vossignoria su Conti, su babbu ‘e Fustei.(Sono tziu Licu, il fattore di vostro padre).

La faccia era una ragnatela di rughe, le mani scure e nodose abbrancavano forte un bastone di nocciolo. Non potevo dire di conoscerlo bene,ma sapevo che mio padre lo reputava un galantuomo, che era vedovo e che la minore dei suoi molti figli, l’avevo incontrata qualche volta in paese, era un’autentica bellezza. Nient’altro. Non doveva aver ricevuto alcuna istruzione e parlava solamente in dialetto, ma  non avrei avuto problemi a capirlo, il sardo lo parlavo anch’io, e pure piuttosto bene, se non altro per far dispetto a mio padre che non voleva.

-Cabissindi de cuaddu Signoriccu:  tengu paj e casu in su carrettoni, e  una croccoriga da binu bonu de sa bingia de is bacusu. Chi Vossignoria no estj cumplimentosu...(Scendete da cavallo, Signoriccu. Nel carro ho pane e formaggio buono, e una zucca piena di vino forte. Se non siete schizzinoso...)

Sbocconcellai il pane pesante, il formaggio salato. Bevvi una lunga sorsata di vino, che mi bruciò nella gola, e lo ringraziai.

-T’adi tentu a cuss’ogu? Balla, cicchissì de ddu sus pottaj bej, is ogusu, Signoriccu...Deus si n’di campidi de essi zurpu e de bivi in su scuriu.No n’c’estj nudda ki ballada prusu de biri sa luxi. A chini toccada su dannu leggiu de si zurpai, zurpu abarrada de  candu Kuss’Omini Mannu Ki sanàda dogna mobadia no àndada prusu a peis in terra...(Che avete fatto all’occhio? Teneteli dacconto, i vostri occhi, Signoriccu. Nessuno è da compatire più di un cieco, e niente è più prezioso della vista. Se la perdi, nulla può rendertela, da quando Chi guariva i ciechi non cammina più sopra la terra.)

-Ci sono cose per cui vale la pena mettere a repentaglio non solo gli occhi, ma anche la vita e l’onore. La Libertà. La Giustizia. Non molto lontano da qui, in un Paese chiamato Francia...

-Sa Franza estj s’inferru, d’a nau su Vicariu in sa predica..(La Francia  è l’inferno, l’ha detto il parroco nella predica).

-Così vogliono far  credere a te e a tutti quelli come te. Ma io so che l’inferno è l’ingiustizia in mezzo a cui ti costringono a vivere pur di non perdere i loro privilegi. Non si può continuare a invocare Dio per imbavagliare la ragione, per lasciare che le cose restino quelle che sono, pochi a dividersi ricchezze e potere, un’infinità a spartirsi la miseria. Non solo non è giusto che sia così, ma neppure è inevitabile, anche se hanno cercato di fartelo credere. Come che il potere del re venga da Dio. Chi è re, lo è per un semplice caso del destino che l’ha fatto nascere in un palazzo invece che in una capanna di falaschi, e non ha nessun senso continuare a chinare la testa e a ubbidire a qualsiasi suo capriccio. No, tziu Licu, la Francia non è l’inferno e i Francesi non sono il diavolo: hanno  solo capito in quale direzione soffia il vento, come l’ho capito io e quelli che l’altro giorno  erano con me. “A forasa is Strangius”. Libertà.  Giustizia. Indipendenza...Già, indipendenza. Molto tempo prima che Gesù Cristo camminasse sopra la terra, dal mare sono venuti i Fenici e i Cartaginesi a portare via le nostre ricchezze, a sacrificare i nostri bambini ai loro dei, a ridurre in schiavitù i nostri uomini e a disonorare le nostre donne. E noi siamo stati capaci soltanto di fuggire e di nasconderci in mezzo ai boschi, come bestie inseguite dai cacciatori. Per secoli e secoli, il mare ci ha portato soltanto malaria e invasori: Romani, Vandali,Bizantini, Mori, Pisani, Aragonesi, Spagnoli, Piemontesi...E noi ancora a scappare nei boschi, perché erano loro a tenere il coltello dalla parte giusta e noi temevamo di tagliarci le mani, se avessimo cercato di strapparglielo via. Poi, finalmente, abbiamo capito che non c’è giustizia senza libertà e abbiamo messo in gioco tutto, pur sapendo cosa rischiavamo. E da quel momento, niente sarà più com’era prima, ne sono sicuro.

Il cagnaccio continuava a fissarmi con i suoi occhi accesi e feroci; anche il vecchio mi guardava, indifferente al mio farneticare di libertà e giustizia. Gran brutta cosa, l’ignoranza, pensai.

-Innuj estj passendi Vossignoria deu ddui appu giai appattillau e po imbatti innui seu arribbau deu, Signoriccu, de passusu ndi tejdi de ndi ponni ancora medasa. Po no isciri ni liggi ni scriri, sciu kommenti girada custu mundu e cannosciu sa beridadi e is frabasa (Ho già avuto la vostra età, Signoriccu, e voi non avete ancora la mia. Non sarò andato a scuola, ma so come va il mondo, e distinguo la verità dagli imbrogli).

Cercai invano di sbirciare nel fondo di quei suoi  piccoli occhi impenetrabili, neri come due schegge d’ ossidiana, infossati nelle orbite e ombreggiati da sopracciglia altrettanto cespugliose di quelle del suo cane.

-Su ki Vossignoria  narada funti bellusu fueddusu e forzisi finzasa giustusu, ma estj cummenti e su latinu de sa Missa, imbiau ki du cumprendidi.E timmu ka de beridadi no n’d’appada. Po innanti cosa, cussusu ki n’c’eisi bogau ant’a torraj: ki no estj oj ad’essi krasi, e ki no estj krasi ad’essi a cabudu de tempu, candu ad’essi no ddu sciu. Ma ant’a torraj.(Quello che dite sicuramente è  bello, forse è anche giusto, ma è come il latino della Messa, beato chi lo capisce. E ho proprio paura che non ci sia niente di vero. Tanto per cominciare, quelli che avete cacciato via torneranno: tra due giorni, un mese, un anno, dieci anni, questo non lo so. Ma torneranno).

E che ne sai tu? Se torneranno li cacceremo in mare una, cento, mille volte, finché capiranno e non ci proveranno più. Della libertà e della lotta non ne sai niente, tu conosci solo il corso del sole e il susseguirsi delle stagioni, tu sai solo che le nuvole portano la pioggia, che il vento freddo soffia dal nord e grandine e cavallette vogliono dire fame. Gliel’avrei detto, ma tacqui, perché anche se era solo un contadino, mi avevano insegnato a rispettare chi porta i segni del tempo incisi sulla faccia e dipinti nei capelli.

-E mancaj no torrinti, penzada Vossignoria c’ ad’a cambiaj cancuna cosa? De kandu esistidi mundu, c’estj ki estj nasciu po kummandaj e kini tirada su carru. Kussusu commenti e a mimmi ant’essi is ki furìanta, genti k’adi sempri indulliu sa skina marrendi terra de is attrusu abituada a ingolli sobi forti,acqua a siccia, baska e friusu a fattu de is brebeisi.Poidi cambiaj su sonadori, ma su ballu cussu estj, Signoriccu.Tempu po andaj a iscolla no n’d’appu tentu mai, no seu litterau comment’a Fustei e is fueddusu ki mi nada du sus  kumprendu pagu e nudda. Ma cumprendu su friusu e sa kallentura candu ti cancarada is ossusu e si toccada a trabballaj a su propriu posinuncasa no podeusu pappaj; cumprendu s’esattori ki si suidi su sanguni, a nos’attrusu poveritteddusu; e su landiri gei si vaidi cumprendi, kandu tzerpiada su ki eusu arau, e accittottu sa pesti kandu sperdidi su bestiamini. Kumprendu su prantu de is fillasa nostasa kenza prus onori po kruppa de is sennorisi ki n’di fainti su ki ojnti, kandu, misereddasa,s’akkodranta a illagru e ommu po si podi bivi, e ki su meri malladittu siada sardu o furisteri, mi crettada, no cambiada nudda.Cumprendu su cucch’e caj ciuexiu cun scetti de landiri, ki ti ddu pappasa e abarrada in su stogumu po tre disi, e su fammini ki boccidi is nozzentisi e a nosu s’abarrada scetti de prangi o de frastimmaj.Poid’essi ki su mundu de Vossignoria pozzada kambiaj,ki is strangiusu no torranta prusu.Su mundu de tziu Licu ad’essi sempri su ki estj stettiu: mundu de merisi e de serbidorisi. (E anche se non tornassero, credete che cambierebbe qualcosa? Da che il mondo è mondo, c’è chi è nato per comandare e chi per tirare la carretta. Quelli come me continuerebbero a essere quel che sono sempre stati, a spaccarsi la schiena nei campi, a prendersi il sole, la pioggia, il vento, il caldo e il freddo appresso alle pecore. Cambierebbe solo il nome di chi comanda e di chi c’imbroglia, Signoriccu. Io non sono andato a scuola e le parole che dite le capisco poco. Però capisco il freddo e la febbre che ci spacca le ossa, ma si deve lavorare  lo stesso, altrimenti non si mangia; capisco l’esattore delle tasse che succhia il sangue a noi poveracci, capisco la grandine che distrugge i raccolti e il carbonchio che ammazza le pecore. Capisco le nostre figlie disonorate dai signori quando sono costrette a guadagnarsi da vivere lontano da casa, e che il signore sia sardo o forestiero credetemi, non fa nessuna differenza. Capisco il pane di ghiande impastate con l’acqua e la fame che ammazza i nostri bambini, e noi  non possiamo farci niente che non sia piangere o bestemmiare. Può darsi che il vostro mondo cambierà, se non torneranno. Il mio resterà quello che è sempre stato, non mi faccio illusioni).

Montai in sella, lo salutai con la mano. E un po’ mi vergognai di me stesso, ripensando a tante cose: il mio palazzo e la sua catapecchia col tetto di canne, il modo in cui, tante volte, avevo guardato la sua bella figlia...E la sua disillusione, le sue parole cariche di amarezza. Guardai il carro trainato da due piccoli buoi scuri e macilenti allontanarsi sollevando la polvere rossa del viottolo e spronai il cavallo. Si era fatto tardi, a casa mi aspettavano per la cena.

 

*Il più antico quartiere di Cagliari, nel quale i nobili avevano i loro palazzi.

FINE

 

 

La versione in sardo trexentese dei dialoghi di Tziu Licu è stata curata da Vincenzo Lai.

Grazie di cuore, Vincenzo.

 

   
 
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