Toni si era
preso la sua verginità,
sotto un albero di olive nella masseria di suo padre, senza alcun
merito e per
non far scontento nessuno Micaela aveva simulato, nelle volte
successive, un’inesperienza
che non convinceva fino in fondo ma che tutti accettavano senza
lamentarsi;
ogni volta che si trovava davanti il suo volto abbronzato e quel suo
vizio di
pizzicarsi il lobo dell’orecchio, Micaela si ricordava di
quel pomeriggio di Giugno
passato in campagna e di tutta la terra che le era rimasta attaccata
sui jeans
e sulla schiena, ma soprattutto si chiedeva se ne era valsa davvero la
pena, farsi
trattare in quel modo da un ragazzo più grande per sentirsi
finalmente capace
in qualcosa.
Certe volte le
passava per la mente,
come una nota discordante nella sua personale partitura, che Micaela
non era
nemmeno il suo vero nome e che se l’avessero saputo i suoi
genitori chissà che
ne avrebbero detto; Michela era un nome troppo comune per una che non
aveva
proprio nient’altro da offrire e siccome aveva sentito di
certi casi in cui
nomi legati alla tradizione religiosa – Concetta e
Addolorata, per citare i più
abusati – erano stati mutati in qualche cosa di meno patetico
come Connie e
Dolly, aveva deciso che di arcangeli e grotte non le importava
granché e si era
fabbricata un nuovo nome, inusuale e spavaldo, quasi che questo potesse
garantirle un passe-partout per scappare. Micaela l’aveva
sempre saputo di voler
andare via di lì, ma finché si trattava di
immaginose congetture di una
ragazzina di tredici anni i suoi piani potevano arricchirsi di tutte le
sfumature più ardite; i problemi cominciarono con
l’avanzare dell’età e la presa
di coscienza che, pur con tutte le possibili attenuanti, sapeva fare
poco o
niente.
Non era una
confessione falsamente
modesta, l’aveva raggiunta sulla base di dati concreti. Ci
aveva provato sul
serio: non le piaceva affatto studiare e pur volendo prendere in
considerazione
il suo tentativo d’impegno mostrato all’inizio,
sull’onda dell’entusiasmo, bisognava
riconoscere che i risultati erano stati esigui, per non dire scarsi;
niente da
fare, non era granché intelligente e portata per gli studi,
ma questo l’aveva
sempre saputo e perciò non se ne rammaricava troppo. Sperava
di trovare una via
d’uscita per qualche strada meno ripida, o meno battuta.
Non le andava
di cercarsi un impiego: le
faccende di casa l’annoiavano e le compiva sempre con
irritante superficialità;
non le interessava imparare a cucinare e non sviluppava alcun interesse
per
attività manuali quali il cucito o la realizzazione di
piccoli lavoretti
artigianali; di leggere non se ne parlava proprio, perché
dopo un po’ le veniva
mal di testa; passare tutto il giorno in un negozio a vendere vestiti
di bassa
qualità le sembrava perfino peggio che trascorrere la
domenica a rigovernare la
casa. La cosa più facile che le era riuscita di organizzare
era mettersi sugli
occhi dell’ombretto, scoppiare a ridere al momento giusto,
fingere innocenza e
aspettare; dai sogni di fuga maturati fra le pareti della sua stanza
passò a
una paziente ostinazione che l’accompagnò per
tutta l’adolescenza. Micaela aspettava
da ormai quattro anni e in fondo anche lei sapeva che, se fosse stato
così semplice,
non ci sarebbe voluto tutto quel tempo.
Quando al Bari
toccò giocare la partita
contro il Lecce i ragazzi organizzarono un pullmino per andare allo
stadio; a
Micaela di tutto quel trambusto non interessava nulla, ma ci rimase un
po’ male
quando si ritrovò a tre giorni dalla partenza senza aver
ricevuto nemmeno un
invito; il pomeriggio trascorso con Toni sembrava così
lontano che nemmeno
ricordava più con quale scusa lui l’avesse
respinta, una volta terminata
l’estate.
La percezione
di quanto potesse essersi
rivelato fallimentare il suo sogno di andar via di lì
l’ebbe quando venne a
trovarla Nino, il fratello minore di Toni. Nino era la sua brutta
controfigura:
alto e dinoccolato, troppo magrolino per i lavori di campagna cui si
sottoponeva il fratello, le guance rosse come due pomodori pronti per
essere
macerati. La sua voce non era troppo ferma, tuttavia
dimostrò di possedere più
audacia che senno: le domandò, con molti giri di parole, se
per caso non le
andasse di guardar la partita assieme a lui.
«Ma
tu lo sai chi sono io?» gli aveva
domandato Micaela, la prima a stupirsi di quella proposta originale.
Quando lui
aveva risposto di sì con
aria un po’ più coraggiosa, le era venuto da
ridere. Poi si era accorta che
Nino non aveva paura di tenerla per mano quando uscivano insieme e che
avrebbe
senz’altro creduto di essere stato il primo a sdraiarsi con
lei sotto le
coperte, nella sua camera da studente piena di libri e matite. Pur
conscia della
pochezza della faccenda, Micaela pensò che era sempre meglio
che ritrovarsi
sudata e sporca in mezzo agli uliveti – la tresca col
fratello restò
naturalmente segreta alle orecchie di Nino – e che dopotutto
era piacevole
avvolgersi in una coperta di lana dal motivo infantile e guardarlo
imparare a
memoria cose di cui, ne era certa, anche lui capiva ben poco.
Scoprì
che era bello poter parlare con
lui di cose importanti.
«Perché
non ti fai più chiamare
Michela?»
«Perché
è bruttissimo. Non vuol dire
niente.»
«Be’,
a me piace. Non è che i nomi
devono dire qualcosa.»
«Lo
dici tu.»
«Lo
dico io, Bernardo.»
Il padre di
Nino lo aveva chiamato così
per omaggiare il santo da cui prendeva il nome una delle parrocchie
più grandi
del paese, sperando di aggiudicarsi vantaggio nella corsa verso un
qualche
ipotetico regno eterno; anche suo fratello Antonio aveva subito lo
stesso
trattamento e Micaela lo riteneva profondamente ingiusto.
«Comunque
ti chiamerò Michela.»
«Te
lo puoi proprio sognare!»
«E
non m’importa, ti devi abituare!»
Capì
subito che non sarebbe stato
facile convincerlo del contrario e di lì a poco smise di
accampare pretese sul
proprio nome di battesimo. Tornò ad essere una Michela
più ragionevole.
«Sì,
però non voglio chiamarti
Bernardo» gli disse, dopo averci pensato un po’ su.
«Ma
se è questo il mio nome…»
«Ma
non ti dà fastidio?»
«Che
cosa?»
«Che
ti chiami Bernardo.»
«No.
Perché?»
«Perché
se un giorno tu vai a lavorare
in una città e ti chiedono come ti chiami e tu rispondi
Bernardo», cominciò,
l’aria seria, «si capisce subito che vieni da qui,
è come se…»
Si interruppe,
cercando di formulare al
meglio il concetto. Era chiaro che fosse una cosa sulla quale aveva
rimuginato
per molto tempo.
«Come
se ce l’hai scritto in fronte,
come se ti porti dietro un peso. Anche se te ne vai, resti sempre
attaccato qui.»
«E
perché, tu dove vuoi andare?»
domandò lui, stupito.
Micaela si
sarebbe lanciata in
appassionati discorsi, mentre Michela si zittì. Fu la prima
a stupirsi di non
avere nulla da ribattere. Il suo viso si fece meno animoso;
poggiò la testa
sulla mano e commentò:
«Hai
ragione, scusa. Da nessuna parte.»
Bernardo
l’abbracciò forte e le diede
un bacio, mentre lei pensava che era proprio il caso che cominciasse ad
abituarsi. Il suo posto era proprio quello.