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Autore: Pichichi    13/12/2012    0 recensioni
Di come Micaela voleva scappare e invece finì col riprendersi il suo nome.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Annotazioni: Bomboniera è il nome che viene dato allo stadio S.Nicola di Bari.

 IDILLIO ALLA BOMBONIERA




Toni si era preso la sua verginità, sotto un albero di olive nella masseria di suo padre, senza alcun merito e per non far scontento nessuno Micaela aveva simulato, nelle volte successive, un’inesperienza che non convinceva fino in fondo ma che tutti accettavano senza lamentarsi; ogni volta che si trovava davanti il suo volto abbronzato e quel suo vizio di pizzicarsi il lobo dell’orecchio, Micaela si ricordava di quel pomeriggio di Giugno passato in campagna e di tutta la terra che le era rimasta attaccata sui jeans e sulla schiena, ma soprattutto si chiedeva se ne era valsa davvero la pena, farsi trattare in quel modo da un ragazzo più grande per sentirsi finalmente capace in qualcosa.

Certe volte le passava per la mente, come una nota discordante nella sua personale partitura, che Micaela non era nemmeno il suo vero nome e che se l’avessero saputo i suoi genitori chissà che ne avrebbero detto; Michela era un nome troppo comune per una che non aveva proprio nient’altro da offrire e siccome aveva sentito di certi casi in cui nomi legati alla tradizione religiosa – Concetta e Addolorata, per citare i più abusati – erano stati mutati in qualche cosa di meno patetico come Connie e Dolly, aveva deciso che di arcangeli e grotte non le importava granché e si era fabbricata un nuovo nome, inusuale e spavaldo, quasi che questo potesse garantirle un passe-partout per scappare. Micaela l’aveva sempre saputo di voler andare via di lì, ma finché si trattava di immaginose congetture di una ragazzina di tredici anni i suoi piani potevano arricchirsi di tutte le sfumature più ardite; i problemi cominciarono con l’avanzare dell’età e la presa di coscienza che, pur con tutte le possibili attenuanti, sapeva fare poco o niente.

Non era una confessione falsamente modesta, l’aveva raggiunta sulla base di dati concreti. Ci aveva provato sul serio: non le piaceva affatto studiare e pur volendo prendere in considerazione il suo tentativo d’impegno mostrato all’inizio, sull’onda dell’entusiasmo, bisognava riconoscere che i risultati erano stati esigui, per non dire scarsi; niente da fare, non era granché intelligente e portata per gli studi, ma questo l’aveva sempre saputo e perciò non se ne rammaricava troppo. Sperava di trovare una via d’uscita per qualche strada meno ripida, o meno battuta.

Non le andava di cercarsi un impiego: le faccende di casa l’annoiavano e le compiva sempre con irritante superficialità; non le interessava imparare a cucinare e non sviluppava alcun interesse per attività manuali quali il cucito o la realizzazione di piccoli lavoretti artigianali; di leggere non se ne parlava proprio, perché dopo un po’ le veniva mal di testa; passare tutto il giorno in un negozio a vendere vestiti di bassa qualità le sembrava perfino peggio che trascorrere la domenica a rigovernare la casa. La cosa più facile che le era riuscita di organizzare era mettersi sugli occhi dell’ombretto, scoppiare a ridere al momento giusto, fingere innocenza e aspettare; dai sogni di fuga maturati fra le pareti della sua stanza passò a una paziente ostinazione che l’accompagnò per tutta l’adolescenza. Micaela aspettava da ormai quattro anni e in fondo anche lei sapeva che, se fosse stato così semplice, non ci sarebbe voluto tutto quel tempo.

Quando al Bari toccò giocare la partita contro il Lecce i ragazzi organizzarono un pullmino per andare allo stadio; a Micaela di tutto quel trambusto non interessava nulla, ma ci rimase un po’ male quando si ritrovò a tre giorni dalla partenza senza aver ricevuto nemmeno un invito; il pomeriggio trascorso con Toni sembrava così lontano che nemmeno ricordava più con quale scusa lui l’avesse respinta, una volta terminata l’estate.

La percezione di quanto potesse essersi rivelato fallimentare il suo sogno di andar via di lì l’ebbe quando venne a trovarla Nino, il fratello minore di Toni. Nino era la sua brutta controfigura: alto e dinoccolato, troppo magrolino per i lavori di campagna cui si sottoponeva il fratello, le guance rosse come due pomodori pronti per essere macerati. La sua voce non era troppo ferma, tuttavia dimostrò di possedere più audacia che senno: le domandò, con molti giri di parole, se per caso non le andasse di guardar la partita assieme a lui.

«Ma tu lo sai chi sono io?» gli aveva domandato Micaela, la prima a stupirsi di quella proposta originale.

Quando lui aveva risposto di sì con aria un po’ più coraggiosa, le era venuto da ridere. Poi si era accorta che Nino non aveva paura di tenerla per mano quando uscivano insieme e che avrebbe senz’altro creduto di essere stato il primo a sdraiarsi con lei sotto le coperte, nella sua camera da studente piena di libri e matite. Pur conscia della pochezza della faccenda, Micaela pensò che era sempre meglio che ritrovarsi sudata e sporca in mezzo agli uliveti – la tresca col fratello restò naturalmente segreta alle orecchie di Nino – e che dopotutto era piacevole avvolgersi in una coperta di lana dal motivo infantile e guardarlo imparare a memoria cose di cui, ne era certa, anche lui capiva ben poco.

Scoprì che era bello poter parlare con lui di cose importanti.

«Perché non ti fai più chiamare Michela?»

«Perché è bruttissimo. Non vuol dire niente.»

«Be’, a me piace. Non è che i nomi devono dire qualcosa.»

«Lo dici tu.»

«Lo dico io, Bernardo.»

Il padre di Nino lo aveva chiamato così per omaggiare il santo da cui prendeva il nome una delle parrocchie più grandi del paese, sperando di aggiudicarsi vantaggio nella corsa verso un qualche ipotetico regno eterno; anche suo fratello Antonio aveva subito lo stesso trattamento e Micaela lo riteneva profondamente ingiusto.

«Comunque ti chiamerò Michela.»

«Te lo puoi proprio sognare!»

«E non m’importa, ti devi abituare!»

Capì subito che non sarebbe stato facile convincerlo del contrario e di lì a poco smise di accampare pretese sul proprio nome di battesimo. Tornò ad essere una Michela più ragionevole.

«Sì, però non voglio chiamarti Bernardo» gli disse, dopo averci pensato un po’ su.

«Ma se è questo il mio nome…»

«Ma non ti dà fastidio?»

«Che cosa?»

«Che ti chiami Bernardo.»

«No. Perché?»

«Perché se un giorno tu vai a lavorare in una città e ti chiedono come ti chiami e tu rispondi Bernardo», cominciò, l’aria seria, «si capisce subito che vieni da qui, è come se…»

Si interruppe, cercando di formulare al meglio il concetto. Era chiaro che fosse una cosa sulla quale aveva rimuginato per molto tempo.

«Come se ce l’hai scritto in fronte, come se ti porti dietro un peso. Anche se te ne vai, resti sempre attaccato qui.»

«E perché, tu dove vuoi andare?» domandò lui, stupito.

Micaela si sarebbe lanciata in appassionati discorsi, mentre Michela si zittì. Fu la prima a stupirsi di non avere nulla da ribattere. Il suo viso si fece meno animoso; poggiò la testa sulla mano e commentò:

«Hai ragione, scusa. Da nessuna parte.»

Bernardo l’abbracciò forte e le diede un bacio, mentre lei pensava che era proprio il caso che cominciasse ad abituarsi. Il suo posto era proprio quello.

   
 
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