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Autore: La neve di aprile    01/07/2007    1 recensioni
Ricordo la prima volta che ti vidi, Izzy.
È una scena che si è stampata nella mia memoria, un marchio che non vuole saperne di sbiadire.
Pioveva da giorni, non c’era stato un attimo di tregua. Nemmeno il più piccolo spiraglio di sole.
Il cielo continuava a vomitare pioggia sulla città, che scintillava.
Le luci dei lampioni, le vetrine, i grattaceli: si rifletteva tutto nelle strade coperte di pozzanghere.
E adesso che gli anni sono passati, che le cose sono cambiate, mi rendo conto che forse la mia vita, la tua vita, sarebbe stata diversa se le cose avessero preso una piega diversa.
Forse ci saremmo risparmiati tante cose, forse saremmo stati persone diversi.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa.
REVISIONE IN CORSO.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hand in glove'
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HAND IN GLOVE
#5 In a place outta sound



 

PARLA IZZY:

Il dolore è imprevedibile.
Arriva quando meno te lo aspetti, si aggrappa dove fa più male e non si scolla di lì neanche a pagarlo.
Si attacca, ti prosciuga, ti consuma, ti impedisce di pensare e ti trasforma nel surrogato di un essere umano.
Troppo dolore ti uccide, al lungo andare.
Spezza la tua volontà, fa di te il suo fantoccio, condiziona il tuo modo di essere, di fare, di pensare.
Ti manipola.
È il più subdolo tra i subdoli, non c’è modo di sfuggirgli: arriva sempre il momento in cui ognuno di noi si ritrova a combattere contro questo nemico che ha mille volti, mille nomi, mille aspetti.
Quello che conta, è il modo in cui se lo affronta, è questo che ci rende uno diverso dall’altro.
Il modo in cui affrontiamo il dolore è quello che ci rende unici.
C’è chi fugge.
Chi lo anestetizza, lo ignora, lo seppellisce in fondo al proprio cuore, nei meandri dell’animo, nella speranza che si esaurisca o si stufi, che torni da dove è venuto.
Ma non c’è modo di sfuggire al dolore, torna sempre a regolare i conti prima della fine.
E più passa il tempo, più il debito è alto.

 

 

Oh, instincts are misleading
You shouldn't think what you're feeling
They don't tell you what
You know you should want.
 

Death cub for cutie, Lightness.

 

 

LOS ANGELES, novembre 1987

Izzy fissava il vuoto, davanti a se.
Era seduto per terra, le mani affondavano nella soffice moquette della lussuosa stanza d’albergo dove si era rintanato per sfuggire al caldo torrido di fine novembre.
Non sapeva se fosse mattina o sera, aveva perso il conto dei giorni molto tempo prima: ancora un po’, e non sapeva nemmeno dov’era.

Accanto a lui, la sua chitarra era abbandonata vicino a un posacenare pieno di sigarette e spinelli, un blocco scribacchiato e una bottiglia di Jack Daniel’s.
Si sentiva insolitamente pesante, come se sul capo gli gravasse un macigno che lo spingeva verso il basso, facendogli ciondolare la testa, ma al tempo stesso era leggero, quasi stesse fluttuando in un mare di soffici nuvole.
I colori erano morbidi, soffusi nella luce dorata di una lampada accesa da qualche parte in quell’isola di notte artificiale che si era creato.

“Janis Joplin..” borbottò, allungando una gamba davanti a se e tenendo l’altra piegata.
Aveva l’impressione di essere dentro una canzone di Janis Joplin, ma non riusciva a ricordare quale: l’aveva ascoltata qualche sera prima a casa di Roxanne, avevano ballato assieme su quelle note malinconiche.
Lei aveva cantato piano, stringendolo forte, cullandolo con la sua voce e quelle note struggenti, al punto che quando la canzone era finita era stato come se gli avessero strappato via il cuore.
È poesia Izzy, aveva detto lei con quel suo sorriso un po’ storto ma estremamente dolce, è la poesia incarnata in un essere umano.
Avevano discusso di poesia, a quel punto, mentre quella voce continuava a cantare piano, abbracciandoli delicatamente.

Si, era come essere dentro quella canzone, era tutto un enorme e gigantesco contrasto.
Gli piacevano i contrasti, erano belli, forti, netti. Erano decisi, non avevano paura di esserlo.
Erano una voce roca su una melodia delicata, erano i suoni ovattati di un incubo terrificante, erano occhi scuri in un volto pallido.
Axl era un contrasto.
Piccolo come un folletto ma con la furia e la rabbia di un orso intrappolato, certe volte faceva quasi paura.
Slash pure: geniale e folle al tempo stesso, ma con la straordinaria capacità di intuire, di osservare e trarre silenziosamente le conclusioni più giuste.
La determinazione legata alla disperazione di un mondo da cui era fuggito.
Da cui tutti loro erano fuggiti, aggrappandosi a qualsiasi cosa per non farsi trascinare in chissà qualche inferno dai loro fantasmi.

Peccato però che l’inferno lo avevano creato poi con le loro stesse mani, gettando la chiave una volta dietro le sbarre.
Chiuse gli occhi, ascoltando il frenetico via vai delle macchine giù in strada, un concerto di clacson e insulti che lo avevano sorpreso, la prima volta, ma che ora quasi gli mancava quando era fuori città.
Si sentiva in pace con il mondo, in sintonia con l’universo: gli era mancata quella sensazione, decisamente.
Quando era con Roxanne al massimo riusciva a dare qualche sniffatina veloce, sapeva che lei detestava vederlo trafficare con aghi e siringhe, forse cercava di convincersi che aveva smesso. Che ci stava provando sul serio, quantomeno.

Izzy non era un bugiardo.
Non lo era mai stato, se non a fin di bene, e comunque –s i disse mentre afferrava il whisky e beveva un sorso - non le aveva mentito del tutto.
Ci aveva provato, a disintossicarsi, ci aveva provato seriamente.

La prima settimana.
Poi era tutto tornato come prima, ma per la prima settimana ci aveva provato seriamente.

Aveva messo via lacci emostatici e compagnia bella, buttandosi anima e corpo su spinelli e alcol per non pensare, per non ricaderci, e per un paio di giorni era andato tutto bene. Era rimasto pulito, complice anche la presenza della ragazza che gli faceva pensare ad altro e quei tre giorni trascorsi fuori città sotto il sole, all’aria aperta.
Erano state giornate fantastiche, solo loro due e il mare, la sabbia e il cielo limpido, senza nuvole.
Parlare, fumare, camminare mano nella mano al tramonto davanti a quel minuscolo paesino di pescatori dai volti rugosi, lontani dalla metropoli, dal gruppo, dal frenetico tram tram quotidiano. Era rientrato a Los Angeles trasformato, con un colorito quasi abbronzato e un sorriso sulle labbra.
Ed era andato tutto bene fino a quando non aveva visto Steven prepararsi una pera.
Mettere l’eroina sul cucchiaio, scioglierla con l’accendino.
Aveva chiuso gli occhi, combattuto: non poteva, non doveva, ne era perfettamente consapevole.
Ma dio, quanto voleva farsi.

Il batterista evidentemente aveva letto il desiderio sul suo viso e aveva sorriso, stordito dalla droga che si era appena iniettato in corpo, e gli aveva offerto la siringa, dopo averla accuratamente ripulita. C
osa vuoi che sia, per una pera
, si era detto stupidamente, tanto ormai ho smesso.

Ci era caduto dentro di nuovo, forse più di prima, spinto proprio dall’assurda convinzione di poter smettere quando voleva.
Buttò giù un altro sorso, mentre gli occhi gli cadevano sul piccolo forellino arrossato che gli segnava l’avambraccio e distolse lo sguardo, assaporando il sapore dolciastro del liquore che gli scaldava la gola e lo stomaco.
Barcollando vistosamente, si alzò in piedi e andò alla finestra socchiusa, posando la fronte contro il vetro.

Ancora non riusciva a ricordare il titolo della canzone che aveva ascoltato con Roxanne, per quanto si sforzasse aveva un buco nero al posto della parola della lo trasportava ad altri pensieri, ad altri folli ragionamenti senza capo né coda.
Sentì la risata sguaiata di Duff attraversare la parete della stanza, subito seguita da quella più roca di Slash e abbandonò ogni proposito di pensare o fare qualcosa di anche solo vagamente somigliante, mentre Axl intonava i primi versi del ritornello di Nightrain.
Un sorriso sbilenco gli si allargò sul viso, mentre ondeggiava verso la porta cercando di seguire un’immaginaria linea dritta davanti a se per raggiungere gli altri ragazzi: una cosa semplice, in teoria. Doveva solo attraversare la stanza, aprire la porta, altri due passi e un’altra porta.
Poi, il delirio.
Era un buon piano, si disse mentre avanzava quasi a tentoni, inciampando nei sui vestiti abbandonati per terra, nelle scarpe spaiate disseminate per la stanza, un ottimo piano! Si corresse aggrappandosi alla maniglia e rischiando di cadere faccia a terra nel corridoio.
Completamente sbilanciato, scoppiò a ridere e quasi rotolò nella camera attigua, ancora più disordinata della sua se possibile.
Quattro ragazzi, Erin e altre tre che non aveva mai visto prima si voltarono a guardarlo, attraverso la fitta cortina di fumo che colorava l’ambiente di un cupo e triste azzurro sporco.
Tabacco e erba si mescolavano in un nauseante odore dolce-amaro che lo stordì, mentre senza smettere di ridere si lasciava cadere su un divano, accanto a Duff.

“Beh, che avete da guardare rottinculi?” chiese annaspando per far arrivare un po’ d’aria ai polmoni.
Non sapeva perché, ma trovava tutta la situazione esilarante. E lo stesso doveva essere anche per gli altri, che proruppero in fragorose risate.

Axl gli si avvicinò, tenendo avvinghiata a se Erin, e gli diede una pacca sulla spalla.
“Mancavi solo tu, Stradlin,” biascicò.
Izzy sentì una zaffata di alcol raggiungergli il viso e si guardò attorno alla ricerca di una bottiglia. Il cantante riprese, dopo una breve pausa, mentre il chitarrista si faceva passare da Steven della vodka.
“Una festa non è una festa senza il nostro Izzy!”

“Troppo gentile” replicò il giovane mentre una delle tre ragazze gli si sedeva sulle gambe.
Capelli biondi, tinti, occhi scuri. Era carina, ma c’era qualcosa nei suoi lineamenti che la faceva sembrare sgraziata.

“E tu chi sei?” domandò lui, sbattendo le palpebre un paio di volte e ritraendosi impercettibilmente quando lei provò a passargli un braccio attorno al collo.
“Jenny” soffiò lei a qualche centimetro dal suo viso. Il suo fiato sapeva di gomma da masticare senza sapore e fumo. “E tu?”
“Izzy.” brontolò insofferente. Si rivolse al resto del gruppo “Chi ha una cicca?”
Jenny gongolò, porgendogli il suo pacchetto.
Camel. Lui storse il naso, disgustato.
Se c’era una cosa che non poteva sopportare era proprio fumare una Camel.
Tuttavia accettò, sforzandosi di non fare troppo smorfie.

“Di un po’, Izzy.” continuò lei, mentre il ragazzo guardava Slash che fissava il suo cilindro nero con aria stralunata “Sei un chitarrista, vero?”
Annuì distrattamente.
“Lo sai che si dice dei chitarristi?” Scosse il capo, mentre l’altro chitarrista apriva la bocca e boccheggiava come un pesce, apparentemente sconvolto.

“Che siano fottutamente bravi a scopare. Sai, tutta la storia della sensibilità alla dita...” la ragazza agitò una mano in aria e tacque, secondo un copione che gli era perfettamente noto: toccava a lui, a quel punto, prendere in mano le danze e risponderle per le rime, flirtarci un po’ e poi farsela, senza troppi problemi.
Erano mesi che la scenetta si ripeteva.
Lei lo sapeva perfettamente, ed era lì per quello.
Erano anche mesi che lui faceva sempre la stessa identica cosa.
Imbarazzato, consciò degli occhi verdi di Axl puntati su di lui come due fari, cercò di farsi venire in mente qualche valido motivo per rifiutarla senza dover raccontare di Roxanne.
Nonostante fosse stordito, non aveva dimenticato il suo proposito di tenerla fuori, di tenerla lontana da loro.
Anche perché, così facendo, avrebbe potuto continuare a tenere il piede in due scarpe. Per poco, indubbiamente, ma sempre meglio di nulla.
Tossicchiò, nell’esatto istante in cui Slash si lanciò su un ignaro Steven intento a chiacchierare con un’altra ragazza.

“Brutto coglione!” ruggì furibondo, spintonandolo per terra “Mi hai rovinato il capello, razza di stronzo!”
Il batterista sgranò i suoi enormi occhi azzurri mentre impattava con la schiena a terra, le mani di Slash saldamente strette sulla sua maglietta.
“Il-- il tuo cilindro?” chiese boccheggiandosi per respirare. L’altro non mollò.
“Si, il mio cilindro, razza di stupido! Lo hai rovinato, tu e le tue fottute mani-impugna-bacchette!”
Il biondino ci mise qualche attimo a capire, gli occhi che vagavano sistematicamente dal viso dell’amico contratto per la rabbia e il cappello abbandonato per terra.
“Ma se ne hai altri sette uguali!” protestò alla fine, rinunciando a capire come avesse potuto rovinarlo.
Il resto del gruppo scoppiò a ridere. Tutti tranne Izzy, che colse la palla al balzo e, mentre il chitarrista strattonava l’altro per la maglietta quasi soffocandolo, si scrollò di dosso la finta bionda, precipitandosi tra i due.

“Ehi, ehi!” biascicò, facendo fatica a mantenere l’equilibrio in quella stanza che aveva preso a vorticare furiosamente. “Datevi una calmata!”
In tutta risposta, il gomito del batterista gli si conficcò nello stomaco e lo fece piegare in due dal dolore con un tempismo perfetto per ricevere sul naso il pugno di Slash, che sarebbe dovuto arrivare al biondino, con gli occhi chiusi e già pronto a ricevere il colpo.
Non si rese conto di altro se non del dolore, che lampeggiò davanti ai suoi occhi furiosamente prima di spegnersi in un confortante e silenzioso buio.


 

“..zy! Izzy!”
Mugolò infastidito, mentre mano poco gentili gli tiravano leggeri schiaffetti sulle guance, e fece per girarsi su un fianco.
Non voleva svegliarsi, stava così bene in quello stato di totale e assoluta incoscenza che avrebbe fatto carte false per poterci rimanere ancora un po’.
Ma la voce e le mani non gli davano tregua: aprì gli occhi.
Sbatté le palpebre un paio di volte, senza riuscire a vedere altro che un macchia pallida, sfuocato, in mezzo a un mare biondo-rosso.
Ci mise qualche secondo a riconoscere Axl e a collegare la sua faccia a una evidente preoccupazione.
E immediatamente dopo, una zaffata che sapeva di vomito gli fece storcere il naso e gli fece contrarre lo stomaco.
Fece per mettersi seduto, ma la mano del cantante lo tenne giù.

“Buono, Stradlin, o va a finire che vomiti l’anima una seconda volta.” gli intimò gentilmente, togliendogli dalla fronte quella che sembrava una pezza bagnata.
Il ragazzo disteso gemette, mentre un’ondata di nausea e mal di testa minacciava di farlo capitolare.

“Ma che è successo?” chiese cercando di avere la meglio sul suo stomaco.
Gli sembrava di essere appena sceso dalle montagne russe. Dopo tredici giri consecutivi a stomaco pieno.

La risata bassa dell’amico gli fece capire che era dall’altra parte della stanza e si stava avvicinando.
“E’ successo che sei piombato in camera mia completamente fatto, merdaccia, hai detto di no a un’adorabile puttanella con cui adesso se la sta spassando Duff e ti sei preso un’esemplare gomitata dello stomaco da Steven, nonché un magistrale pugno di Slash dritto sul naso. Una scena piuttosto comica, in effetti, sono curioso di vedere che bel livido avrai domani.”
“Ah.” si limitò a commentare laconico, cogliendo una sottile vena di sincera preoccupazione nel tono spensierato e scanzonatorio del front-man.
Era fatto così, Axl Rose. Parlava di quello che lo preoccupava o spaventava come se stesse raccontando di un pic-nic al parco in una domenica di sole.

“E non è tutto,” proseguì posandogli nuovamente la pezza umida sulla fronte, “perché sei mezzo svenuto dopo il pugno e ti sei ripreso solo per vomitare” scosse il capo, passandosi una mano tra i capelli rossastri “Izzy, Izzy, quando imparerai che non devi mai mangiare spaghetti di soia prima di farti? In tutti questi anni, pensavo avessi capito che ti fanno rimettere tutto quello che hai dentro!”
Stupidamente, si ritrovò a chiedere come facesse a sapere che aveva mangiato spaghetti si soia: l’occhiata che ricevette, non aveva bisogno di essere accompagnata da parole. Axl sospirò, sedendosi su una sedia e appoggiando i gomiti alle ginocchia.
“Stradlin, cosa dobbiamo fare con te?” gli chiese guardandolo dritto negli occhi.
“Riguardo cosa?” biascicò l’altro, chiudendo gli occhi.
La luce bianca che illuminava la camera gli dava particolarmente fastidio e la sua mente archiviò quel fastidio come causato dalla fine della dose che si era fatto qualche ora ora prima.

“Sei mica frocio, Izzy?” gli chiese a bruciapelo l’altro, con una certa e inquieta paura che sfuggì allo spirito di osservazione del chitarrista, ancora troppo stordito e in balia di altri pensieri.
Tuttavia, la domanda non lo lasciò indifferente: si sollevò di scatto a sedere, con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata.

“E cosa cazzo te lo fa pensare?” domandò a sua volta, dopo aver boccheggiato a vuoto per qualcosa come venti secondi circa, senza trovare la voce per dar forma alle sue parole.
“Beh sai...” il cantante sembrava veramente imbarazzato, come mai lo aveva visto in vita sua “Non c’è verso di farti scopare una ragazza che sia una da qualche mese a questa parte.”
“Ah.” commentò laconico, perdendo espressivita e nascondendosi dietro una maschera di fredda e calcolata indifferenza.
“Stra--- Izzy, non c’è nulla di cui vergognarsi, eh!” proseguì l’altro, fraintendendo la sua espressione “E’ una cosa che possiamo sistemare, cosa credi? Non ti ricordi di quel tizio, quel Johnny vattelapesca, a scuola. Il frocetto. Ti ricordi di come è andata a finire? Gli abbiamo fatto cambiare idea e adesso pare che sia più etero di me, Steven, Slash e Duff messi assieme!”
“Axl, frena.” lo interruppe Izzy, portandosi una mano alla testa per frenare quel ritmico e doloroso pulsare dietro la sua fronte “Non sono gay.” lo guardò dritto negli occhi, ripetendo la frase lentamente, facendo attenzione a scandire bene le parole “Non-sono-gay.”
Il front-man si concesse una pausa e il chitarrista intuì che stava cercando un collegamente tangibile tra le sue parole e i fatti che aveva a portata di mano e memoria.
Lo vide aprire la bocca e sollevare una mano per replicare, bloccandosi a metà del gesto e tornando a rimuginarci sopra.
Lo lasciò fare, chiamando a raccolta tutta la sua poca lucidità per mettere in piedi una spiegazione esauriente ma vaga al tempo stesso, non si sentiva ancora pronto di raccontare di Roxanne, voleva tenerla tutta per se ancora per un po’ di tempo.
“Ma...” Axl finalmente riprese a parlare e lui aprì di nuovo gli occhi, fissandoli in quelli verdi dell’amico. Li vedeva colmi di sospetto e imbarazzo.

“Ma...?”
“Ma allora perché non scopi mai?”
“E cosa ti fa pensare che non scopo?” replicò con semplicità, scrollando le spalle.
“Non vai mai con le ragazze che ti presentiamo.” protestò il ragazzo sulla sedia, rassegnato a quella che per lui era una schiacciante ed evidente verità: il suo amico di sempre, il suo migliore amico, era gay.
“Bill, ma ti è mai passato per la testa che forse ho un motivo – che non deve per forza coincidere con l’essere frocio - per non andare con quelle ragazze?”
Gli occhi verdissimi di Axl lo guardarono senza capire e senza dar segno di fastidio per il modo in cui l’aveva chiamato.
Tra tutte le persone che conosceva e aveva conosciuto, era l’unico che poteva permettersi di farlo. Izzy proseguì.

“Tipo, tanto per nominarne uno, che non mi va di andare a puttane.” ignorò lo sguardo sconvolto dell’amico “O che non mi piacciono fisicamente.” aveva un po’ l’impressione di bestemminare pesantemente davanti al Papa, ma andò avanti “O che non ho voglia di restare inculato con qualche malattia venerea. O che magari ho una ragazza.”
“Non occorre che racconti balle, rimani uno del gruppo anche se sei gay.” mormorò piano il cantante dopo qualche minuto di silenziosa riflessione.
Il chitarrista roteò gli occhi, spazientito.

“Axl, porca di quella puttana che ti ha messo al mondo con un cervello così incredibilmente sottosviluppato che fa quasi paura la tua completa mancanza di logica, lo vuoi capire che non sono gay? Sono quasi tre mesi che mi scopo una ragazza e ci scopo da dio e ci scopo pure parecchio, se proprio vuoi saperlo, e il fatto che non vado più a puttane vuol dire che non ne ho bisogno!”
Quasi urlò quelle parole, che sembrarono investire Axl con la stessa forza di uno tsunami che si abbatte sulla costa, devastando tutto quello che incontra.
Seguì qualche lento minuto di silenzio, mentre la tensione di smorzava impercettibilmente e Izzy ricadeva sulla schiena, vinto dalla nausea e dal mal di testa.

“...hai una ragazza, quindi.” Ripeté il cantante, con voce sommessa.
“Si.”
“Quindi non sei gay.”
“Si.”
“Da tre mesi, dici.”
“Si.” chiuse gli occhi, invocando silenziosamente la fine di quell’interrogatorio privo di senso.
“Ah.” concluse Axl “Va bene. Meglio!” abbozzò un sorriso pimpante, alzandosi in piedi e battendo le mani con aria gioiosa “Questa è buona notizia, si.”
Non si prese la briga di rispondere, mentre l’altro ragazzo si muoveva nella stanza apparentemente inquieto, per poi bloccarsi davanti alla porta.
“Che ne dici di tornare a far festa di là?” gli chiese con un sorriso che Izzy percepiva luminoso nonostante gli occhi chiusi.
Suo malgrado, il chitarrista era sollevato: il solo fatto che gli avesse chiesto se voleva tornare di la era la prova lampante che non ricordava più un tubo della conversazione appena conclusa, né tantomeno che come fossero finiti lì. Poco male, si dosse, un problema di meno.

“Dai, Jeff! Dai dai dai!” lo incitò, con lo stesso entusiasmo di un bambino che vuole provare un giocattolo nuovo.
“Non mi sembra di essere nelle condizioni per reggere altra roba, Axl.” osservò per nulla sorpreso dalla mancanza di tatto dell’amico che, come sempre, una volta esaurita la preoccupazione dimostrava la stessa sensibilità di un bradipo ai problemi altrui.
“Ah già” commentò brevemente, fermo sulla soglia della camera “Beh, ci vediamo domani allora Izzy!” lo salutò allegramente, scivolando nel corridoio.
Il chitarrista hiuse gli occhi, mentre il tonfo secco della porta che veniva sbattuta gli perforava la testa dolorosamente. Ma non si sorprese.
Del resto, era di Axl Rose che si stava parlando.


 

Ain't no use in being faithful,
I see you lookin' at the sky.
I know what's in it make you happy there,
But it only make you cry.
 

Janis Joplin, As good you’ve been to this world.

 

Sorse un’alba dai colori metallici, cosa piuttosto insolita per la stagione e il cielo era limpido, di un grigio freddo e impenetrabile nonostante l’aria calda, carica di un’umidità.
Izzy aprì gli occhi mentre il sole iniziava a disegnare la lenta parabola che lo avrebbe portato all’apice, al centro perfetto della volta celeste, sovrano di ogni cosa al di sotto di lui in un mondo privo di ombre.

La testa continuava a pulsargli violentemente, accompagnata da un forte dolore al volto.
Si toccò delicatamente il naso, sentendolo gonfio sotto i polpastrelli che scivolarono leggeri lungo tutta la sua lunghezza, constatando che, per fortuna, per lo meno non era rotto.
Si mise seduto sul letto, guardandosi attorno nella fioca luce dell’aurora: era nella stanza, su quello non c’erano dubbi.
Ma era sempre rimasto lì la sera prima?
Non aveva modo di scoprirlo, i suoi ricordi erano pressoché inesistenti.
Tuttavia, a giudicare dal dolore al naso, qualcuno doveva essere andato a fargli visita e non era stato un incontro amichevole.

Non ebbe tempo di pensare, però, perché un malessere che aveva già sperimentato più volte lo avvolse nel suo abbraccio di sudore gelido.
Era come se mille aghi lo stessero punzecchiando contemporaneamente, tormentando i suoi sensi particolarmente sensibili.
Ogni singolo suono proveniente dalla strada aveva moltiplicato la sua intensità, i colori si erano fatti tutti molto più accesi e il rosso prevaleva su tutti, dandogli la sensazione di avere una coltre di sangue davanti agli occhi, aveva caldo nonostante il sole fosse poco più di un mezzo cerchio in lontananza, sopra i tetti, e si sentiva la gola secca. Non aveva più una sola goccia di saliva in bocca, le mani era in preda a un tremore che non riusciva a controllare.
Sbatté le palpebre più volte, cercando di mettere a fuoco la finestra aperta.

Per un attimo, un attimo soltanto, fu preso dal panico: l’ondata di paura lo attraversò da capo a piedi, raddoppianto il suo malessere e offuscandogli del tutto la mente, dove un unico pensiero lampeggiava furiosamente.
Droga.
Aveva un disperato bisogno di iniettarsi in corpo una dose, se voleva far smattere quella tortura.
Si impose di alzarsi in piedi, mentre all’innaturale caldo si sostituivano brividi freddi che gli gelarono il sudore addosso mozzandogli il fiato, mentre la sua mente mandava messaggi contraddittori al corpo.
Si aggrappò alla cassettiera dove aveva sistemato alla meno peggio le sue cose e aprì uno dopo l’altro i quattro cassetti, gettando camice e dio solo sapeva che altro alla rinfusa nella stanza, fermandosi solo quando fu certo di avere tra le mani un astuccio di cuio accuratamente chiuso.
Si lasciò cadere per terra, esattamente dov’era, e aprì la cerniera con le dita che tremavano vistosamente.
Tra le gambe gli caddero una siringa e un cucchiaio, assieme a diversi quadratini di carta stagnola. Ne afferrò uno a caso, aprendolo e versandone il contenuto – una minuscola quantità di polverina bianca sottilissim a- sul cucchiaio, sotto il quale piazzò la fiamma del suo accendino.
E mentre la droga si scioglieva, strinse il laccio emostatico attorno al suo avambraccio con tanta forza che la pelle sbiancò e un reticolo di vene azzurrine si disegnò in rilievo fino alle sue dita.
Inspirò a fondo.
Sapeva cosa fare: doveva solo infilare l’ago in una di quelle vene e premere lo stantuffo, fino in fondo.
Ma lo voleva davvero? Voleva davvero restare in balia di quella sostanza che alterava la realtà, che gli impediva di pensare e ragionare lucidamente?
Voleva davvero continuare quella farsa, continuare a mentire a Roxanne e a se stesso, illudendosi di poter controllare il problema? Lo voleva davvero?

Rimase immobile per una manciata di secondi, la siringa sospesa sopra il suo avambraccio.
Sentiva il cuore battere furiosamente nelle sue orecchie e nel suo petto, il sangue che fluiva veloce per tutto il suo corpo e le scariche di dolore che gli offuscavano la vista.
Poi, si decise.

La droga entrò immediatamente in circolo e tornò a galleggiare in quel nulla artificiale che continuava a ricordargli quella canzone di Janis Joplin.
Ma per quanto si sforzasse, il titolo continuava a sfuggirgli dalle dita, come sabbia nel vento.

E mentre il dolore si affievoliva e una patina di incoscenza gli calava davanti agli occhi attenuando l’intensità dei colori, ricordò come Janis Joplin fosse morta e si chiese se non fosse quello, il suo destino, se non avesse trovato il modo di cambiare le cose.
Una domanda che non smise di tormentarlo per molto tempo.

 

 

PARLA IZZY:

Per quanto mi riguarda, l’unico modo che avevo per affrontare il dolore era annullarlo.
Cancellarlo, renderlo innocuo.
Si, in un certo senso imbrogliavo, è vero: truffavo, giocavo il suo stesso gioco per allontanarlo in fretta.
Del resto, in Vietnam stordivano i soldati prima di amputare loro una gamba.
Il dolore cancella il dolore.
Se aggiungi dolore al dolore, questo si esaurisce per inerzia.
Non è fantasia, è fisica: un corpo si dice in equilibrio solo quando la risultanto delle forze che agiscono su di esso è uguale a zero.
Aggiungi dolore al dolore e troverai equilibrio.
Ma l’ho già detto, più il tempo passa e più il prezzo da pagare è alto: trovare altrettanta sofferenza non è sempre facile. Nel mio caso, si rivelò pressoché impossibile.
La via che presi, fu l’ultima che avrei dovuto prendere temo.
Ero un codardo, Roxanne, questa è la verità.
Scappai dal dolore, è vero.
Ma lungo la strada, persi anche te.
E in nome di cosa, mi chiedo adesso: l’equilibrio che raggiunsi è andato perduto quando mi resi conto che per ottenerlo avevo commesso un clamoroso errore.
Il dolore per la tua perdita si dimostrò infinitamente superiore a quello che volevo sciogliere.
Fui un perfetto idiota.

   
 
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