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Autore: _Rockstar_    15/12/2012    1 recensioni
Che cosa sarebbe successo se i 76esimi Hunger Games fossero stati istituiti veramente? Cosa sarebbe successo se la ghiandaia imitatrice non avesse ucciso la Coin e il loro malvagio progetto fosse andato a buon fine? Cosa sarebbe successo se ventiquattro ragazzi di Capitol City fossero stati gettati in una nuova arena soltanto per vendetta da parte degli altri distretti? Attenzione: Spoiler de "Il canto della rivolta".
Genere: Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo XX – Resa dei conti


Per un secondo chiusi gli occhi. Sentivo il mio cuore battere forte, più del solito, bum e poi ancora bum;  sentivo il calore che si diffondeva dal mio petto e si riversava nel mio corpo; sentivo il sangue che scorreva veloce nelle vene, sintomo di vita. E tutto ad un tratto il freddo, più gelido del vento in una notte invernale. Era come essere colpiti da migliaia di pugnali, o forse peggio. Avevo provato una sensazione simile quando ero ancora piccola. Avevo forse cinque anni e insieme a mio padre mi ero recata al lago che si estende per decine di chilometri al di fuori dei confini della capitale. Quel giorno aveva deciso che mi avrebbe insegnato a nuotare. Non era mai stato un padre apprensivo e sensibile e di certo non si limitò a tenermi stretta mentre cercavo di galleggiare ma mi prese in braccio e senza che me l’aspettassi mi gettò nel lago, da sola. Non capii mai perché lo fece ma ora forse potevo comprenderlo. Non mi aveva lasciata da sola in acqua perché non era abbastanza affezionato a me da insegnarmi davvero a nuotare ma sapeva che anche senza il suo aiuto ce l’avrei fatta. Lui credeva in me. E rimasi lì, trasportata dalla corrente e immersa in quell’acqua cristallina. Avevo quasi abbandonato la speranza quando, per la seconda volta, rividi la luce. Spuntai in superficie e fu allora che finalmente ebbi abbastanza coraggio per aprire gli occhi. Ma non mi trovavo nel lago al confine della mia città e non mi trovavo in paradiso, ero ancora intrappolata nel mio peggiore incubo. Avevo perso la mano di Declan, quello fu il mio primo pensiero. L’onda ci aveva separato, forse per sempre. Chiamai il suo nome e lo cercai disperata ma di lui nessuna traccia. Nuotai fino alla riva dove mi sedetti e mi presi la testa fra le mani, riuscivo a respirare a fatica. Poi mi vennero in mente le parole di Senan, quelle che non ero riuscita a comprendere qualche giorno prima. “Spero che tu sappia…” nuotare, ecco cosa aveva cercato di dirmi. Solo ora lo capivo. Si era esposto a chissà quali torture soltanto per avvertirmi di ciò che mi sarebbe successo e io nemmeno l’avevo ascoltato. Ringraziai mio padre per avermi così crudelmente gettato in quel gelido lago, senza di lui non sarei mai sopravissuta. Mi sdraiai sull’umido prato verde, appoggiando il braccio sul mio volto. Rimasi lì ferma per qualche secondo fino a quando, dal piccolo lago che si era venuto a formare proprio a miei piedi non sentii provenire un rumore. Mi alzai immediatamente e avvicinandomi quasi a carponi verso la riva osservai attentamente il punto dai cui ora vedevo lo specchio d’acqua gorgogliare . Poi una chioma nera corvino riemerse dall’acqua. Non attesi altro tempo, sapevo a chi appartenevano quei capelli e non avrei mai voluto trovarmi lì quando Nita sarebbe riemersa. Feci retromarcia e senza pensarci due volte scappai. Proprio alle mie spalle, si mostrò una piccola porta, l’uscita. Percorsi senza nemmeno pensare quell’oscuro corridoio, seguendo quella lontana luce, che per un secondo pensai di stare inseguendo la morte. Mi risvegliai poco tempo dopo, o forse era quello che credevo. Avevo perso la condizione del tempo da un lungo periodo ormai. Non ero più certa di molte cose, poteva essere passato un giorno così come secoli. Mi trovavo nell’ormai solito lettino e continuavo ad essere accecata da quel luminoso colore bianco. Le mie ferite erano state del tutto curate, ora rimanevano soltanto le cicatrici: i segni permanenti che per tutta la vita mi avrebbero ricordato quell’orribile incubo. Mi misi a sedere ed incrociai le gambe. Mi guardai le mani pallide: erano anch’esse piene di graffi più o meno profondi mentre le unghie quasi ormai inesistenti avevano perso quel tipico colore rosastro. Mi girava la testa e il mio stomaco brontolava, forse non mangiavo da almeno due giorni. La porta si aprii e nuovamente dall’uscio spuntò il solito Senan, lui, a differenza di me, non era cambiato.
– Rose, cara – esordì.
Ero così felice di sapere che non gli era stato fatto nulla, per il momento almeno. Mi abbracciò ma mi sembrava di non avere la voce nemmeno per rispondere, mentre la mia fame si faceva sentire, eccome.
– Devi essere affamata – affermò passandomi un bicchiere d’acqua e una pagnotta di pane che mangiai avidamente, in pochi minuti. 
Senan sorrideva, quella scena doveva sembragli davvero patetica.  Appoggiai il bicchiere di vetro vuoto sul tavolino di metallo al mio fianco e incrociai le dita, non sapevo davvero cosa dire, niente sembrava più importante ormai. Ormai conoscevo a memoria tutto il nostro repertorio di battute e risposte, lui avrebbe detto qualcosa del tipo “E’ bello rivederti.” E io avrei risposto “Si, sono felice di rivederti anche io” e lui avrebbe continuato “ Ti senti bene?” oppure “Sei stata bravissima” ma nessuna di quelle frasi ci sembrava giusta.
– Cosa farò ora? – gli chiesi fievolmente.
La sua espressione non variò ma sapevo che dentro di lui, in quel momento, si stesse chiedendo che cosa avessi voluto dire con quelle parole.
– Qualunque cosa tu voglia fare – mi disse semplicemente, quella era l’unica risposta che non avrei voluto ricevere.
Mi aiutò ad alzarmi e a vestirmi. Mi misi una semplice canotta nera, sulla quale era stata fissata la mia spilla e una giacca a vento nera. Ero arrivata fino a lì e sapevo che oltrepassata quella porta avrei potuto non rivedere più la luce. – Grazie per il suggerimento – gli confessai poco prima di salire sulla piattaforma di lancio. Se quella semplice frase gli sarebbe costata la vita volevo che sapesse che mi era tornata utile, anche se magari non era stato così. Senan sorrise. Presi un respiro profondo. Ero alla resa dei conti.

Erba, fu la prima cosa che vidi. Erba verde ai miei piedi e all’orizzonte. Il vento era lieve ma freddo, stavo tremando e gli occhi, per nessun preciso motivo, cominciavano a lacrimare. Non che fossi triste o distrutta, certo lo ero ma non avrei mai permesso alle telecamere di riprendermi in quello stato, non avrebbero mai scalfito il mio orgoglio. Strinsi i miei pugni gelidi e alzai il volto. Di fronte ai miei occhi si ergeva luccicante e maestosa la cornucopia. Alla mia destra, più agguerrito che mai e purtroppo ancora in vita, Fallon, alla mi sinistra, con gli artigli pronti a fendere, Nita. A due postazione più avanti di me non potei fare a meno di notare la chioma rossa e ribelle di Abby, quanto fui felice di vederla. Il suo sguardo incontrò il mio e per qualche secondo entrambe fummo felici di esserci conosciute. Proprio accanto a lei, per mio grande sollievo, incontrai gli unici occhi scuri che avrei riconosciuto tra miliardi, quelli di Declan. Il suo volto si girò verso di me e come se conoscesse a perfezione i miei pensieri, mi suggerì di non correre alla cornucopia, non con Nita e Fallon alle calcagna. Ma io ero scappata per troppo tempo. Il conto alla rovescia finì e senza aspetta un attimo di secondo saltai giù dalla mia piattaforma e corsi spedita verso il vero e proprio centro della cornucopia. Non avevo paura dei due favoriti, non mi avrebbero fatto niente senza armi. Entrambi sapevano, soprattutto Nita, che in una lotta corpo a corpo me la sarei potuta cavare egregiamente. Afferrai l’arco luccicante e le relative frecce. Mi voltai di scatto, proprio giusto il tempo di vederli combattere contro un altro tributo a mani nude e scappai prendendo uno zaino. Ero quasi al limite della foresta quando, voltandomi una seconda volta vidi arrivare contro di me un pugnale di Nita. Caddi a terra ma in qualche modo riuscii a non farmi colpire. Quella ragazza stava perdendo colpi, non le diedi il tempo di prendere nuovamente la mira che mi ero già immersa in quella macchia di alti e fitti alberi. Sapevo esattamente di che Arena si trattasse e comprendevo anche il motivo per cui l’avessero tenuta per ultima. Il ricordo della settantaquattresima edizione non erano un affronto contro di me, ma contro di lei, Katniss. Mi fermai per respirare. Non sapevo dove andare o cosa fare. “Cosa farò ora?”…“Qualunque cosa tu voglia fare”. Scivolai lungo il tronco dell’albero a cui ero poggiata appoggiando la testa alle ginocchia. Perché mi trovavo lì? Perché qualcuno, là in alto, se l’era presa così tanto con me? Che cosa avevo fatto di male? Presto l’avrei scoperto. Sentii qualcosa muoversi alle mie spalle. Per un primo momento non mi mossi, mi balzò in testa quella pazza idea di tenere chiusi gli occhi e accettare il fatto che avrei potuto non aprirli più e forse sarebbe stato meglio così. Alzai il volto e silenziosamente allungai la mano sinistra verso l’arco. Con una mossa repentina mi alzai e incoccai per poi scagliare soltanto un attimo dopo in direzione di quel suono. La freccia scomparve tra i fitti cespugli.
– Avresti potuto uccidermi! – urlò una voce femminile da dietro i cespugli.
In un certo senso, quello era lo scopo degli Hunger Games… La ragazza fece due passi avanti verso di me. Avrei riconosciuto i suoi capelli rossi e le sue lentiggini ovunque.
– Abby… - le risposi sconsolata abbassando l’arco.
– Non dovevi spaventarmi in quel modo – continuai abbracciandola.
Lei mi allungò la freccia che le avevo appena scagliato.
– Fa niente, Rose. Scusa – rispose lei.
Le sorrisi, da quanto tempo  non riuscivo a parlare con lei senza essere interrotti da qualcosa che avrebbe potuto ucciderci.
– Come mi hai trovato? – le chiesi mentre ricominciammo a camminare insieme
– Ti ho seguita – Annuì. Io non me n’ero nemmeno accorta. Per fortuna che era soltanto lei e non qualcun altro.
– Alleate, allora? – le chiese allungandole la mano
– Ma certo! – mi rispose lei evidentemente emozionata abbracciandomi.
Per quel giorno avevo avuto abbastanza contatto umano per i miei gusti.
– Ti ho vista correre verso la cornucopia e ho subito pensato “questa è pazza! Si farà uccidere!”, poi ti ho visto afferrare l’arco e correre via. Poi Nita ti ha quasi ammazzata e io ho pensato “Oddio, la devo salvare!”, così ti ho seguita, ma tu correvi così forte e ti ho persa di vista e allora sono andata nel panic… -
Oddio, quanto parlava quella ragazza!
– Ok, ho afferrato, Abby – la interruppi toccandole la spalla.
Avevo smesso di ascoltarla circa alla terza parola, in un attimo mi mancarono i tempi passati da sola. Il sole stava cominciando a calare e ci restava poco tempo per cercare un rifugio.
– Sai salire sugli alberi Abby? – le chiesi guardando in alto cercando un nascondiglio perfetto.
– Non è la mia attività preferita, ma posso provarci – confessò.
Posizionarla lassù fu una delle imprese più faticose della mia vita, lei era magra ma aveva impiegato tutto il suo impegno per essere un peso morto. Quando finalmente riuscii a riprendere fiato non potei fare altro che bere tutta la mia boraccia o almeno quasi e mangiare qualche boccone. Il cielo si era ormai completamente oscurato e pochi minuti prima di crollare dal sonno, sopra le nostre teste apparve lo stemma di Capitol City e risuonarono le relative note dell’inno. Non ne seguirono nemmeno un volto. Quel giorno non era deceduto nessuno e non sapevo se questo era un bene o un male. Declan era ancora vivo e di sicuro, in quel momento mi stava cercando. Entrambe ci svegliammo il giorno dopo ancora più riposate e in piena forza. Il vento continuava a soffiare freddo ma il sole nel cielo risplendeva. Scendemmo giù dall’albero e in pochi minuti ci rimettemmo in marcia. Non sapevamo dove andare, un’ uscita non esisteva o almeno sarebbe esistita soltanto per uno di noi. Avevamo entrambe terminato l’acqua proprio il giorno prima e la nostra priorità fu quella di trovare un fiume. Avevo visto un lago affianco alla cornucopia ma quasi sicuramente quello sarebbe stato la zona d’attacco di Nita e Fallon e quindi era fuori discussione. Stavamo vagando senza meta da molte ore quando Abby con il suo pugnale ci ritagliò un passaggio verso un corso d’acqua. Stendemmo i nostri abiti bagnati al sole e per qualche ora restammo lì stese a goderci qualche attimo di calma. La nostra pace fu interrotta molto preso purtroppo. Ci eravamo appena rimesse gli abiti ormai asciutti quando da lontano cominciammo a sentire delle risate e delle voci. Qualcuno stava arrivando. Indietreggiammo di qualche metro, nascoste dai cespugli ed osservammo. Per primo vidi lei, Nita e la sua chioma di capelli neri che odiavo così tanto. Insomma erano perfetti, anche dentro a quella stupida Arena, ma come faceva? Subito dopo lui, Fallon, il suo compagno inseparabile. Al loro seguito, con mia grande sconforto vidi Declan, anche lui pieno di gioia. Si era unito al loro gruppo. Mi aveva tradita. Poi, abbassando lo sguardo la vidi. La mia spilla, la ghiandaia imitatrice, era lì a terra dove poco prima l’avevo lasciata per pulire gli abiti. Dovevo riprendermela, senza di quella era spacciata.  

Risposta dell'autore:
Benvenuti al terz'ultimo capitolo di questa prima parte della mi fan fiction. Si, avete capito bene! Sono molto positiva sul fatto di scrivere, come possa chiamarlo... un seguito, una seconda serie? Beh, comunque la scriverò. In più, visto che siamo quasi a Natale e mi sento molto buona, scriverò prima di pubblicare i primi capitoli anche dei missing moments che credo essere molto importanti.

 

  
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