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Autore: La Mutaforma    17/12/2012    2 recensioni
“La cosa che più mi fa rabbia è che non riesco ad odiarti completamente. Ho paura di essermi innamorata come una stupida”
Altair tacque, e la osservò. “Nessuno si innamora in modo intelligente”
[...] La nave non giungeva e fuori la pioggia si versava sui tetti e sulle persone. Non era un bel giorno per cominciare il suo viaggio. E allora rimandava. E ogni volta che rimandava Altair la osservava in silenzio, chiedendosi quanto ancora sarebbe durato.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad, Maria Thorpe
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Di nuovo mi assilla Eros,

che scioglie le membra

dolceamara, invincibile creatura

-Saffo, frammento 130

 

 

Passarono altri due giorni.

Umidi, freddi giorni ventosi. La nave attraccò e ripartì, ma Maria ritornava ogni volta a casa, come se avesse solo fatto una passeggiata al mercato.

E forse l’aveva fatta davvero, ma Altair capiva quanto mentiva. Perché la immaginava al porto, con i gomiti piantati nelle gambe per appoggiare il mento sulle mani, e guardare lontano, con quello sguardo prigioniero che già le aveva visto quel giorno di pioggia, sul davanzale della sua finestra.

E allora taceva e si chiedeva per quanto ancora sarebbe durato.

A quel punto ogni istante era prezioso.

Ogni sguardo era l’ultimo. Ogni parola prima che sgusciasse dalla porta era un addio.

Altair si prese il viso in una mano, e sospirando stancamente si chiese come sarebbe stata la vita senza vedere più i suoi occhi.

L’avrebbe vista inerme allontanarsi sulla sua nave, quando sarebbe stato troppo tardi per amarla.

Troppo tardi per capire di averla persa per sempre.

 

“Oggi parto”

Quella dichiarazione fu accolta con silenzio. Altair strinse le labbra, pensando che in fondo non aveva nessun diritto su di lei. Era una donna libera.

“Buon viaggio”

“Non ho detto adesso parto

“Non ha molta importanza”

Maria fece un sorrisino, e si sedette sullo scranno di legno dove stava scrivendo. Altair ebbe solo il tempo di trattenere un gemito sorpreso, spostando i suoi scritti.

“Spero di non aver urtato la tua sensibilità da assassino” fece lei, provocatoria.

“Anche se lo avessi fatto, non lo avrei dato a vedere” rispose il siriano, con un’innaturale distacco, come se la cose davvero non gli importasse. Maria sorrise.

“Però in questo modo non saprei se l’avessi fatto o meno”

“La cosa continua a non avere alcuna importanza” borbottò l’uomo, scuro in volto. Maria dondolò le gambe davanti a sé, e pensò a quando era bambina, e giocava nel grigiore della sua casa, in Inghilterra.

A volte le succedeva. Succede un po’ a tutti di ripensare alla propria casa. Anche se quella non era mai stata casa per lei. A distanza di anni, Maria continuava a pensare a quel luogo come il teatro dei suoi fallimenti.

“Ho sentito che faranno una festa in città”

Altair non rispose.

“Penso che andrò lì prima di partire”

La sua voce si ancorò al medesimo silenzio.

“Forse dovresti venire anche tu. Insomma, sei stato tu a liberare Cipro dai templari, isn’t it?”

Ancora una volta l’assassino rimase in silenzio, con la voce che gli si era raggomitolata in qualche angolo buio tra le corde vocali.

Per quanto fosse stato contrario, Altair non emise un suono, né mutò espressione; non davanti agli occhi azzurri di Maria.

 

La templare aveva ragione, la città era in festa.

Era la prima volta che Maria gli camminava davanti, e lui la seguiva quasi a stento, per non perderla di vista nella folla, gli occhi puntati sulla crocchia color castano intenso sul capo. Per le strade tutti cantavano, ognuno nella sua lingua; alcuni in arabo, altri in greco, molti in dialetto cipriota.

La folla si era riunita davanti la chiesa. C’era musica, le donne ballavano.

Maria le guardava con occhi estasiati.

“Sai” disse, poggiandogli la mano sul braccio “Quando ero bambina non mi piaceva ballare. Le danze inglesi sono noiose, si ripetono sempre negli stessi movimenti. Il giorno del mio matrimonio” pronunciò quella parola con un’infinta amarezza “Mi sentivo soffocare. Non potevo sopportarlo”

I suoi occhi seguirono i movimenti di una bella cortigiana vestita di porpora. Altair provò ad immaginare quel giorno, ma non disse nulla.

“Adesso resterei qui a fissarli per ore, mentre ballano. Sono felici” rifletté “Si può essere felici, Altair?” chiese poi, con smarrimento quasi infantile.

Lui sorrise, con pari amarezza. “Si può provare, Maria”

Alcune danzatrici si avvicinarono all’assassino, che d’impulso si ritrasse, nascondendo il viso nel cappuccio. Si accorse rapidamente che l’obbiettivo non era lui, ma la templare, che trascinarono via in un turbinio di gonne e di veli trasparenti orlati di monete e corallini. Maria sussultò, e si voltò istintivamente verso Altair, alla ricerca dei suoi occhi, della sua mano che la aiutasse.

Ma lui sorrise, quasi beffardo. E lei, presa da un’incontenibile frenesia, cominciò a ballare, nella cerchia delle danzatrici.

Saltava, e ballava con gli occhi chiusi, stretti, con un tiepido sorriso sulle labbra. Perché sentiva che la folla cantava, che la gente batteva le mani, e Altair la guardava sogghignando leggermente.

Sentiva che il popolo era felice, e questo le metteva gioia.

Danzava, e probabilmente in modo sgraziato e scoordinato, ma lei non lo vedeva e non le importava. Non importava a nessuno. Avrebbe davvero potuto non smettere.

 

Fu un tuono. I ciprioti alzarono gli occhi al cielo, e quando la pioggia cominciò a cadere, la folla si disperse come uno stormo di piccioni spaventati. Improvvisamente in piazza, sotto un cielo sempre più livido, rimasero solo Maria, che ancora danzava sotto la pioggia, e Altair.

Lei rise, e oscillò verso di lui, priva di equilibrio, e si mantenne sulla sua spalla. Il siriano, statuario, la bloccò per un braccio e l’aiuto a reggersi in piedi.

“Credevo che non avrei più smesso, assassino”

Il sorriso le morì sulle labbra, e si liberò dalla sua mano, voltandogli le spalle, con rabbia. Maria era strana, imprevedibile. Volubile come il mare.

Il mare. Una tempesta.

“Maria”

La ragazza si gettò sulle ginocchia, prendendosi la testa tra le dita.

“Maria, andiamo a casa, sta piovendo a dirotto” disse lui, prendendole delicatamente una spalla. Invece la ragazza si liberò della sua stretta, e afferrò un sasso da terra, per scagliarlo contro di lui.

Altair non si spostò nemmeno, e la pietra colpì con un sibilo un’abitazione poco distante. La cosa dovette darle un vago senso di soddisfazione, perché prese un’altra pietra, e stavolta la lanciò verso l’alto.

E poi un’altra, e un’altra ancora. Come se volesse lapidare il cielo.

Altair cercò di avvicinarsi con cautela, e strinse le labbra, non riuscendo a capire se stesse piangendo, o se fosse solo la pioggia che le bagnava il viso. Le scivolò alle spalle, e la avvolse tra le sue braccia, sussurrandole all’orecchio per calmarla. Lei gridava, rabbiosa, disperata.

E piangeva. Anche se entrambi avrebbero preferito non saperlo.

La voltò tra le sue braccia per guardarla negli occhi, stringendole le mani sulle spalle per immobilizzarla.

“Maria” cominciò lui, con voce ferma ma non severa “Maria calmati, sta calma”

Un lampo le illuminò per un istante il viso; riprese a respirare.

La luce le diede tregua. O forse fu solo l’acqua che le colava dai vestiti, il freddo che la faceva rabbrividire, oppure la stanchezza di tutto quel continuo gridare.

Altair la riaccompagnò a casa sorreggendola per le spalle; per tutto il tragitto non smise di piovere, né Maria riuscì a smettere di piangere.

 

Altair aprì con violenza la porta dell’abitazione, e la spinse delicatamente al coperto.

L’acqua gocciolò fitta dai loro vestiti; ai suoi piedi si formò una larga pozzanghera scura. Avrebbe potuto chinarsi e osservare il suo riflesso distorto.

Nell’acqua e negli occhi di Maria.  

L’assassino tacque, e poggiò la schiena alla porta; fuori la pioggia batteva con violenza sulle pietre del lastricato della strada, come se non volesse smettere, come se ormai fosse tardi per sperare di vedere il sole.

Maria sembrava frustrata, pur non piangendo, e si slacciò gli stivali con una violenza tale da farsi male. Si sciolse il mantello, lasciandolo affogare nel lago che si era creato ai suoi piedi, poi la cintura in vita e i calzoni scuri.

Altair provò a ribattere, chiedendole almeno di andare nella sua stanza. Maria gli lanciò contro la cintura, soffocando un mezzo grido di stizza. Lui non fece altro che afferrarla prontamente con la mano.

La fibbia gli colpì il moncherino, ma faceva più male guardarla soffrire in quel modo. Come un gabbiano che si dibatteva, a cui avevano tagliato le ali.

Non meritava quel dolore.

“Cosa c’è, Assassino? Non hai mai visto le gambe di una signora? La cosa ti imbarazza?!”

Lo mandò al diavolo prima che potesse anche solo considerare l’idea di rispondere, mentre la vedeva voltargli le spalle e sbattere la porta della sua stanza.

Dentro, l’assassino la sentì gridare, lamentarsi, bestemmiare, e tirare calci al letto.

Con un sospiro, ripensò a quando era bambino, quando catturava i colombi bianchi sulle mura di Masyaf. E li teneva tra le mani, stretti, mentre si dimenavano per liberarsi.

Maria non era molto diversa.

Cercò di scacciare quel pensiero, mentre si slacciava la cintura e si sfilava la lunga tunica grondante d’acqua.

Aveva paura di stringere troppo la presa e farla soffocare tra le sue dita.

 

A che prezzo posso tenerti con me? Come posso amarti se sono la causa del tuo soffrire?

 

Esitò sulla porta, poi bussò educatamente con le nocche sulla porta.

Preferì mostrarsi con un contegno deciso; magari avrebbe dato sicurezza anche a lei.

Spinse la porta.

“Maria”

La ragazza era seduta su una sponda del letto, e gli dava le spalle. Altair trattenne il fiato; avrebbe potuto giurare di riuscire a contare la miriade di gocce d’acqua sulle spalle e tra i lunghi capelli scuri.

“Maria. Ti ho portato qualcosa con cui asciugarti”

“Mettilo da qualche parte” rispose lei, senza voltarsi. Altair strinse tra le dita il panno di lino, incerto, poi si avvicinò cautamente, come avrebbe fatto un gatto. I suoi passi non fecero rumore, nemmeno quando si inginocchiò davanti a lei e le scostò i capelli al viso, asciugandole le guance.

Sperò che non fossero davvero lacrime. Non poteva vantare molta esperienza sul campo consolatorio; non avrebbe potuto fare nulla per farla star bene.

“Maria”

Le accarezzò il viso pallido con il lino, asciugandole la tempia.

“Non dire nulla. Non sopporto che tu mi veda così” fece lei, scostando il viso di lato, per non incontrare i suoi occhi scuri che sembravano vedere ogni cosa.

“Anche io non lo sopporto”

Le asciugò il collo e la spalla con delicatezza, ma non senza strapparle qualche gemito pieno di rabbia.

“Vai via Altair, sei l’ultima persona che vorrei vedere in questo momento”

L’assassino la scrutò in viso, e si sentì quasi affogare in quegli occhi cristallini in cui non scorgeva sincerità.

Si alzò e lasciò la stanza in silenzio, come solo un assassino avrebbe potuto fare.

 

Ora dormiva.

Era già successo altre volte che entrasse nella sua stanza; la sera, quando il mondo era più calmo, e meno caotico.

Solo i pensieri non trovavano pace, vorticandogli intorno e materializzandosi in mille immagini. Silenziosi come spine, riuscivano a tenerlo agitato, quando invece c’erano tante cose a cui pensare.

Allora è proprio vero che gli innamorati non dormono? Che i loro occhi ciechi non sanno chiudersi? Che il loro cuore non conosce riposo?

Scivolò senza far rumore dietro la porta, strisciando nelle ombre accanto al suo letto.

Maria lasciava sempre una candela accesa, e sotto quella tenue luce, l’assassino riusciva a vedere i suoi lineamenti morbidi, quel viso imbronciato anche nel sonno. Era sicuro che stesse sognando, e avrebbe voluto sapere a cosa pensasse.

Avrebbe voluto maledirsi, perché ogni volta si riprometteva che sarebbe stata l’ultima.

Invece tornava, silenzioso come un incubo, e avrebbe potuto guardarla tutta la notte; lei, i suoi lunghi capelli color della terra, le sue mani che stringevano il lenzuolo.

E allora si sentiva il cuore caldo, e stringeva con rabbia le labbra, per convincersi che quello non era solo il semplice capriccio di ragazzino alla prima cotta.

Allungò le dita verso il suo viso, senza riuscire a trattenerle. La sua guancia era morbida, liscia e calda. Pensò che se Maria lo avesse saputo, si sarebbe arrabbiata.

Molto.

Eppure quella consapevolezza non fu sufficiente ad allontanarlo.

Altair lasciò vagare i polpastrelli sulla candida pelle della ragazza, scivolando sulla piega del collo. Avvertì il suo respiro caldo, regolare, tranquillo, e si morse il labbro, come a volersi infliggere una nuova cicatrice.

Sono davvero… questo? Un folle e disperato carceriere che si rallegra del dolore della sua prigioniera? Da dove nasce questa follia? Da dove nasce questo sadismo?

Maria si voltò verso di lui, e i suoi occhi brillarono nella luce della candela.

Da lei? Da …me? Dai miei sentimenti?

Lui tirò indietro la mano, come se avesse sfiorato una lingua di fuoco.

“Maria!”

Lei non sembrava stupefatta.

“Ho freddo. Vieni qui” mormorò lei, facendogli spazio nel letto. Altair rimase interdetto per alcuni istanti, poi si sollevò dal pavimento e si sedette accanto a lei.

“Levati le scarpe idiot! Spero sinceramente che ti sia lavato le mani” fece la donna, stizzita ma con voce assonnata, voltandogli le spalle. Se prima era stato indeciso sulla sua identità, adesso non stentava a riconoscerla, e questo gli strappò un sorriso. Era lei, era Maria.

Cosa c’è di puro nell’amore se si ama in questo modo? Invece di elevarci al cielo questo sentimento ci fa soffrire, ci fa disperare. Ci fa perdere la ragione.

L’amore è davvero un dono degli dei? Oppure è l’espressione del caos nella nostra vita?  

Rimase immobile, come in attesa, poi cominciò a slacciarsi le fibbie degli stivali.

Non aveva addosso nient’altro se non un paio di calzoni che aveva trovato in una cassa, l’unica cosa asciutta che potesse indossare.

Non disse altre parole, e scivolò sotto le lenzuola, stringendo delicatamente la ragazza a sé.

“Dimmi che non mi ami e che saremo nemici per sempre” sussurrò lei, tra i capelli e il guanciale. L’assassino la avvolse tra le sue braccia con più convinzione e le poggiò la guancia asciutta sulla spalla.

“Per te, Maria, qualsiasi cosa”

“Allora dillo. Me ne convincerei”

“Sognalo. E fa finta che lo abbia detto per davvero”

Era la prima volta per Maria che divideva il letto con un uomo per dormire.

 


 

   
 
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