2.
La ragazza
fantasma
C’è solo nero,
qui.
Solo buio.
Scendo qualche
scalino del pullman, per raggiungere la strada. Un passo, due passi, silenzio,
immobile.
Sento che c’è
qualcosa di diverso.
Il rumore di
uno sciacquone mi immobilizza, seduta con le gambe a penzoloni, semplicemente
ad aspettare che il tempo passi. Così, i ricordi vagano.
Alzo lo sguardo
e ogni nervo, ogni cellula, ogni organello che forma il mio corpo si tende
verso quel mondo opposto al mio che mi è di fronte. Alto, spalle larghe – tiene
la mano stretta sul suo zaino –, felpa blu, capelli biondo scuro – il vento
glieli fa muovere sulla fronte –, occhi verdi ombrati dal cappuccio, un filo di
barba sul mento.
Mi sta
guardando.
Il mio pranzo
giace per terra nel pacchetto di carta in cui lo mette sempre mia nonna, ancora
intatto, e il bagno è l’unico posto in cui posso stare da sola senza che
nessuno mi noti. Me ne sto con gli occhi chiusi, a sentire il plin delle
goccioline che cadono dalle tubature, il panno che striscia a terra trascinato
da qualche bidello, i passi veloci di qualche ritardatario dalla palestra, lo
schiocco di un bacio.
Mi irrigidisco.
La mia paura di sempre ha le tenaglie, mi afferra gambe, braccia, e occhi e mi
dice solo una cosa.
Non guardare.
Non parlare.
Non sentire.
Perché solo se
non vivo non posso ferire.
Quando l’ultima
ragazza lascia il bagno, apro la porta ed esco fuori. Il corridoio è ora pieno,
ma nessuno bada a me. Abbasso il capo, metto le mani nelle tasche della felpa e
cammino veloce.
Non era niente.
Scuoto la testa.
Era solo un
ragazzo sul bus.
Solo una
persona.
«Ci vieni alla festa, stasera?»
«Non lo so, Yvonne…»
«E dai… non fare l’asociale.»
Risate. Sbuffi.
Spinte. Sorrisi.
Vorrei anche provare invidia ma non ci riesco, penso
che quel sentimento si trovi su una piattaforma completamente opposta alla mia.
«Non sono asociale!»
Credo sia meglio. Credo che mi aiuti, a poco a poco, a
non percepire davvero me stessa.
Sfioro il muro
con il palmo delle mani, solo per rendermi conto di non essere davvero un
fantasma che vaga nel mondo. Ho ancora carne ed ossa a darmi una forma,
non posso passare attraverso il cemento o il legno.
Quando apro la
porta, l’odore acre della pittura e della creta bagnata mi arrivano alle
narici. Respiro, mi riempio la pancia di fiato, lo faccio una, due volte.
Mi metto il
grembiule bianco e comincio a giocare con tutto quello che trovo. La classe di
Artigianato è facoltativa, ma è un’ora che aspetto con fervore per tutta la
settimana. Da quando ho scoperto che il professor Morgan non chiude a chiave la
porta, non c’è stata una volta in cui io abbia passato tutta la pausa pranzo
chiusa qui.
Prendo un po’
di creta e la stendo sul tavolo da lavoro, ne faccio tante piccole palline.
Prendo, schiaccio, arrotolo, lascio scivolare sui palmi...
È l’unico
momento in cui posso permettermi di sentirmi.
***
«Biglietto o
abbonamento?»
Sono arrivata
presto, oggi. La ragazza davanti a me mostra il tesserino, Patrick annuisce.
Mi guarda. Sembra
Mangiafuoco dei film Disney, ma ha i capelli corti e una camicia a quadri rossa
che lo fa somigliare più che altro a uno zio un po’ in sovrappeso.
«Ciao,
Patrick.» dico, e tossisco subito dopo. Stare zitta tutto il giorno mi fa la
voce graffiata, come se fossi raffreddata.
«Buongiorno,
Sarah.» Mi sorride.
Io no.
Non ne sono
capace.
Rumore di
passi.
Qualcosa sbatte
sul vetro.
Il ragazzo del
bus si sistema lo zaino su una spalla. Piove ancora,
fuori, e qualche goccia gli ha lasciato il ricordo di se stessa sulla felpa,
sulla pelle su cui scivola fino a bagnargli la maglietta.
Mi guarda.
Accade in un
millesimo di secondo in un mondo fatto da migliaia di secondi e minuti e ore e
giorni, anni. Non conta questo. Gli zigomi alti, la bocca ferma in
un’espressione che non conosco. Occhi verdi. Pagliuzze grigie.
Fisso lo
sguardo fuori dal finestrino.
Troppo tardi.
Ho incontrato i
suoi occhi.
Si siede nella
mia direzione, nella fila opposta. Chiudo gli occhi. Non riesco nemmeno a
prendere il taccuino, ho messo la borsa dal suo lato.
Non lo
guarderò.
Poggio la
fronte sul finestrino e sento il sapore del sangue, mi sto mordendo la guancia
dall’interno.
Mi sta
guardando.
Lo so che mi
sta guardando.
Smettila.
Mi sta
guardando.
Alzo lo sguardo
sul finestrino, lo vedo. Ci è appoggiato di schiena, il suo profilo diritto
crea un’ ombra sul grigio del sedile. Respira, le sue spalle larghe si alzano
ogni pochi secondi, i suoi occhi sono una macchia di verde che si riflette nel
vetro.
Mi guarda.
Smettila.
Mi alzo
all’improvviso, proprio quando il bus si ferma per quella che deve essere la
seconda fermata.
Scendo dal
pullman e non guardo più indietro.
Se mi guarda
c’è solo un motivo.
Trattengo a
stento le lacrime.
Sa che sono un
mostro.
***
Martin
Google.
La risposta ai quesiti più difficili di Fisica, alla
ricerca di gnocche su cui sbavare e video delle canzoni dei Nirvana.
Google.
Lampeggia nella sua scritta blu e verde.
Sarah.
Oggi è scesa alla seconda fermata, come se si fosse
ricordata improvvisamente di qualcosa. Come se si fosse accorta di me.
Il suo nome è una luce fissa, mi brucia gli occhi.
Sarah.
Non riesco a scrivere. Mi sembra squallido, da stalker
e maniaci. Non posso scendere tanto in basso con una ragazza. Ma ehi, non è che
lei sia una ragazza qualunque… è la ragazza per cui…
«Martin? » È una delle poche volte in cui mio padre
entra in camera mia. Sussulto, il portatile quasi mi salta da sopra le gambe,
non è cosa da tutti i giorni sentire la sua voce. Mi sento leggero di un’emozione
che è la stessa di quando ti rivolge la parola una persona importante, forse
perché non succede quasi mai. «Stai facendo i compiti?»
«Mhm. Sì… una ricerca.»
«Va bene.» Si sistema la cravatta della giacca, nera
opaca, come i suoi capelli e la barba. «E a scuola… tutto ok?»
«Faccio quello che posso.»
«Certo.»
«Sì.»
Mi dondolo sul letto. Una volta, due volte. Mio padre
si passa una mano fra i capelli, guarda un po’ dappertutto, sedia sommersa di
magliette, scrivania con i libri aperti, l’armadio aperto con il poster di
Miranda Kerr. «Dovresti mettere un po’ più in ordine.»
«Ok.»
Spengo il computer e lo guardo. «Papà… va tutto bene a
lavoro? »
Gli si inarcano le sopracciglia. «Sì… perché?»
«Niente, così.» Alzo le spalle. So che non me lo
dirai mai. Apro il quaderno di Biologia e prendo un foglio con delle
scritte stampate. Glielo porgo. «Ah, papà… devi firmarmi questa autorizzazione.
Il Cinema per la scuola.»
Mio padre tira fuori dal taschino la sua penna con la
sigla JS, Joseph Scott, se non lo conoscessi potrei pensare che sia il
nome di un nuovo cantante rapper. Jey ass… sì.
Cantante di una canzone stonata che è la mia vita. Si
mette la penna nel taschino e si avvicina alla porta. «Tra mezz’ora parto,
Martin. Torno fra una settimana, ricordati…»
«Di spegnere tutte le luci. »
Sorrido e sento il rumore del mio fiato.
Ma qui non c'è nessuna felicità.
È notte. La
strada è illuminata solo dai lampioni, la loro luce cade in trasversale
sull'asfalto nero, lucido. Una bambina piccola, con un grembiulino bianco, ci
cammina al centro, dondolando.
È pericoloso. Mi avvicino a lei, Ehi, attenta, perché sei qui sola? Lei continua
a camminare, senza voltarsi, mentre io la seguo, cammino, comincio a correre,
non riesco a raggiungerla.
È sempre più
lontana.
Ho l’affanno,
mi fermo sul marciapiede e mi appoggio ad un lampione. Un ronzio mi trafigge i
timpani nel momento esatto in cui poso la mano sulla plastica nera. La ritiro
subito, e mi viene fuori un gemito. Credo di aver preso una scossa. Respiro,
respiro, respiro, la luce del lampione a cui mi sono appoggiato si spegne, poi
si accende di nuovo e così via, mentre io vago lo sguardo sulla strada e la
vedo. Si è fermata.
Sbatto gli
occhi.
La ragazza che
mi sta guardando ha i capelli lunghi, si muovono allo stesso vento gelido che
mi spinge verso di lei. Mi muovo. Ha gli occhi dello stesso colore del cielo
d’inverno, un sottile strato di nuvole intorno alla pupilla. Le sue ciglia sono
lunghe e dorate, sembrano i fili delle spighe di grano. Resta ferma, delle
lacrime le nascono dagli occhi e sono gocce grandi come quando piove
forte.
Sarah.
Sento un rombo.
Una macchina si sta avvicinando, e noi siamo in mezzo alla strada. Vieni,
sei in pericolo. La mia voce sembra un’eco lontano, le prendo la mano, la
stringo. Lei si scosta.
Sarai tu, ad
essere in pericolo.
La chitarra
elettrica che fa da suoneria al cellulare mi fa aprire gli occhi. La canzone
continua, ma io resto immobile, ancora a letto, con l’ultima immagine ancora
incastrata nella mente.
Sarah che
incrocia i miei occhi. Spenti. Una luce ci passa attraverso.
Sarah che si
alza all’improvviso e scende dal pullman.
Sarah che
cammina in una strada buia.
«Pronto?»
rispondo, e la mia voce è impastata di sonno.
«Mi stavi
sognando, ammettilo.»
Mi rigiro fra
le coperte e scalcio via il lenzuolo. «Mi hai svegliato.»
«Sono le sei
del pomeriggio, nullafacente.» Mi passo una mano fra i capelli, poi sulla
fronte e sul resto del viso. Sono sudato. «Comunque, stasera alle dieci c'è una
festa, me l'ha detto quella ragazza bionda che ti ha scartato come un
chupa-chupa con gli occhi, ci stai?»
Deglutisco.
Posso ancora
sentire la pelle liscia di Sarah come se l’avessi toccata veramente.
***
Chiudo la
portiera della Ferrari e mi aggiusto il colletto della camicia. Cameron fa il
giro dell’auto e ci si ferma davanti.
«Quando vorrei
che fossi mia.» dice alla mia auto.
Non ho nemmeno
la forza di ridere.
La accarezza
con la mano, si china e la camicia gli esce dai pantaloni. «Ferrie, amore mio.»
«Sono belle
parole, Cam. Scrivitele.» Mi sistemo anche i polsini. Lui prende il cellulare e
digita qualcosa… non ci posso credere, le sta scrivendo davvero.
Sono circondato
da ragazze. Certe non riesco nemmeno a guardarle in faccia, ma hanno gonne e
vestiti corti, e scollature senza senso perché potevano anche non esserci, si
muovono morbide e a scatti e io mi perdo a guardarle.
Sarah.
Luccichii,
liquori, risate, corpi sudati e Sarah si muove piano, forse nemmeno
l’aria percepisce la sua presenza.
Mi passo una
mano fra i capelli.
La percepisco
io.
Sospiro. Devo
smettere di pensare a lei. Sul tavolino davanti a me c’è una bottiglia di
Vodka, farà compagnia alla birra che ho appena ingurgitato. Sarah ha gli
occhi di acqua, acqua agitata, tempesta, acqua chiara, le onde si schiantano.
Mando giù l’alcol, mi passa attraverso la gola e brucia, scoppia
qualcosa. Ha le mani piccole. Sfogliano il taccuino, tengono la matita con
due dita, si fermano sulla sue labbra in un sospiro che fa un po’ rumore, la
stessa voce del vento.
Mi viene fuori
un respiro soffocato, apro gli occhi e stringo la bottiglia fra le mani. Cerco
un altro sorso. Ha un giubbino nero, di quelli imbottiti, forse di piuma
d’oca, forse di qualcos’altro per tenersi al caldo. Si volta verso il vetro, è
bella. Lei...
Un altro sorso.
«Non ti sembra
da egoisti tenertela tutta per te?» Qualcuno mi toglie la bottiglia dalle mani.
Non riesco a vedere bene: nel buio della casa, vanno e vengono le luci a
intermittenza del salotto dove tutti ballano su una musica che non ha parole.
Sbatto gli
occhi. Due labbra carnose e rosse baciano l’orlo della bottiglia, i miei occhi
continuano a vagare e trovano il suo collo inarcato, una goccia le scende dal
mento e carezza la sua pelle, le raggiunge qualcosa che non posso vedere.
«Mhm. Buono.»
Poggia la bottiglia sul tavolino e si scrolla i capelli lunghissimi e biondi in
una specie di onda.
Mi sorride. «Io
sono Yvonne.» Mi porge la mano… no, si appoggia a me e scoppia in una risata tiratissima,
le viene fuori un singhiozzo.
È ubriaca.
«Martin.» Mi si
stringe contro e cerco di levarmela di dosso, la testa mi pulsa, il sangue mi
pulsa, la gola mi pulsa.
«Ti ho già
visto... veeero?»
«Non mi
ricordo.» biascico.
«Io mi ricordo
sempre dei ragazzi sexy.» Mi mette le braccia intorno al collo, sento il
respiro affannoso, un rivolo di sudore mi scivola sulla schiena, lo sento.
«Ehi!» Riesco a
staccarmela di dosso. Prendo dell’altra Vodka e la scolo, la sua voce è un’eco lontanissimo,
dice cazzate, cazzate, cazzate, e la gola mi brucia, e Sarah va via, è una
nuvola, diventa tutta bianca, non riesco a immaginarla. Anche i suoi
occhi scompaiono.
«Sei un
ingordo.» Di nuovo la voce della ragazza.
E poi più
niente. Anzi, qualcosa c’è, rosso, giallo, blu, nero, verde… tutti i colori,
proprio tutti… la testa fa un male cane, adesso tutto si oscura, tutto si
annebbia. Non ho il controllo dei miei occhi quando li apro, non ho il
controllo del braccio che Ivy... Ivy?… non mi ricordo il nome tira per
farmi spostare. È ancora più buio qui, sento un formicolio che mi prude le
gambe, le braccia, il viso. Mi sta baciando e le mani che si posano sulle sue
spalle per mandarla via scendono sulla sua schiena, non so perché. Smette di
baciarmi. Non ho il controllo delle labbra umide che si posano sulle sue, delle
lingua che le entra dentro la bocca. Non ho il controllo della mano che lei
guida sotto la gonna… sembra molto più lucida ora. Le piace, stronza. Mi
sta chiedendo qualcosa. No. Sta chiamando qualcuno che deve essere Martin ma
Martin è a casa a dormire, davanti a un libro di Chimica che non capirà mai, a
ignorare il mondo. Martin è qui, fra le gambe di questa tizia che non guarda
nemmeno in faccia mentre spinge. Non capisco. Geme. Non capisco. Questi
capelli, queste braccia, questa bocca, tutto è estraneo. Urla un’ultima volta.
Ogni rifugio è estraneo e freddo, questo è il primo che ho trovato. Mi accascio
su di lei, mi morde le labbra. Sarah si morde le labbra e guarda fuori dal
finestrino. «Fanculo.»
Mi alzo i
pantaloni, trovo la cinta, mi abituo alla luce e vedo una camera da letto rosa
e squallida, una ragazza qualunque… Ivy… non lo so e mi dispiace. Vaffanculo.
Recupera le mutandine, ride, è ubriaca. Io no, non così tanto. Perché se così
fosse starei bene. Invece vado via e mi viene solo da vomitare. Vomitare,
vomitare, vomitare… che c’è che non va, ho soldi, una bella macchina, una bella
casa… ho tutto quello che voglio, me la cavo sempre …
È un freddo che
punge, quello che sento. Mi entra dentro come tanti piccoli stuzzicadenti di
legno, mi affonda nella carne e mi lacera da dentro. Vomito. Forse così se ne
va il marcio di me stesso.
La puzza è il
mio buongiorno, quello che mi fa aprire gli occhi un po’ più consapevole. È la
mia macchina, quella a cui sono appoggiato? Qualcosa mi impedisce di cadere.
«Ehi, hai fatto
una bella sbronza, eh?» Mi aiuta a rimettermi in piedi, sono peggio di un
neonato, ci manca solo Doreen con il passeggino come quando avevo tre anni.
«Stasera guido io, no problem.»
«Cazzo.»
«È tutto ok.»
Non ho nemmeno la forza di lanciargli le chiavi. Mi apro la giacca e lascio che
intuisca lui… mi sento più leggero, le ha prese. «Fortuna che tuo padre è fuori
città.»
«Mhm.» Mi viene
fuori.
Sento la sua
pacca sulla spalla e mi sembra una pugnalata. Quando riesco a distinguere più o
meno i contorni di tutto questo, il suo viso familiare riesce a farmi deglutire
senza rimettere un’altra volta. Mi trascino in auto. Cameron mette in moto,
accende la radio e prende a canticchiare una canzone. Niente domande, niente
risposte.
Solo io ci
sono e tu ci sei.
Scuoto la testa
e abbasso il finestrino. Lo stomaco mi si contrae e non è per quello che è
appena successo. È una sensazione simile a quando il professore ti interroga e
non c’è il tuo amico di sempre a suggerirti, e sai che così ti verranno
tagliate le gambe.
Sarai tu, ad
essere in pericolo
Mi passo una
mano fra i capelli.
Forse lo sono già.
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Ciao a tutti <3 Eccomi qua con un aggiornamento, scusatemi per il ritardo, purtroppo lo studio mi toglie tantissimo tempo. Io cercherò comunque di essere puntuale, perché la storia di Martin e Sarah si sta evolvendo, nella mia testa, ed io non vedo l'ora di raccontarvela :))) In questo capitolo abbiamo avuto due diversi POV, in particolare sappiamo più cose su Martin, e su Sarah forse dovreste avere ancora più domande :p Spero tanto che vi piaccia e che vi stia incuriosendo!
Spero tanto che mi lascerete un parere <3 Sono così emozionata!
Grazie davvero, a tutti voi <3
Un bacio