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Autore: aniasolary    18/12/2012    22 recensioni
(Storia da revisionare)
Young Adult con elementi sovrannaturali e di Mistero.
In un pomeriggio assolato, le urla di una bambina oscurano il cielo; lei è un'arma, lei non potrà mai vivere, lei non può fare altro che nascondersi.
Anni dopo, un ragazzo trova la sua fotografia fra i documenti di suo padre. Un padre assente, troppo lontano da tutto e da tutti, così preso dai documenti fra cui c'è quella fotografia.
Sei appena venuto a conoscenza della presenza di un burrone. Vai a vederlo. Non ti aspetti che ci cadrai dentro.
Quella ragazza.
Quell'arma.
Quel ragazzo.
Il suo mondo.
Sogni spezzati.
L'amore difficile.
Vite in sospeso.
Amicizie distanti.
Vite rimaste indietro.
Vite in pericolo.
Buio.
Speranza.
Ed un uomo nell'ombra.
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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until 2

 

2.

La ragazza fantasma

 

C’è solo nero, qui.

Solo buio.

Scendo qualche scalino del pullman, per raggiungere la strada. Un passo, due passi, silenzio, immobile.

Sento che c’è qualcosa di diverso.

Il rumore di uno sciacquone mi immobilizza, seduta con le gambe a penzoloni, semplicemente ad aspettare che il tempo passi. Così, i ricordi vagano.

Alzo lo sguardo e ogni nervo, ogni cellula, ogni organello che forma il mio corpo si tende verso quel mondo opposto al mio che mi è di fronte. Alto, spalle larghe – tiene la mano stretta sul suo zaino –, felpa blu, capelli biondo scuro – il vento glieli fa muovere sulla fronte –, occhi verdi ombrati dal cappuccio, un filo di barba sul mento.

Mi sta guardando.

Il mio pranzo giace per terra nel pacchetto di carta in cui lo mette sempre mia nonna, ancora intatto, e il bagno è l’unico posto in cui posso stare da sola senza che nessuno mi noti. Me ne sto con gli occhi chiusi, a sentire il plin delle goccioline che cadono dalle tubature, il panno che striscia a terra trascinato da qualche bidello, i passi veloci di qualche ritardatario dalla palestra, lo schiocco di un bacio.

Mi irrigidisco. La mia paura di sempre ha le tenaglie, mi afferra gambe, braccia, e occhi e mi dice solo una cosa.

Non guardare.

Non parlare.

Non sentire.

Perché solo se non vivo non posso ferire.

Quando l’ultima ragazza lascia il bagno, apro la porta ed esco fuori. Il corridoio è ora pieno, ma nessuno bada a me. Abbasso il capo, metto le mani nelle tasche della felpa e cammino veloce.

Non era niente. Scuoto la testa.

Era solo un ragazzo sul bus.

Solo una persona.

«Ci vieni alla festa, stasera?»

«Non lo so, Yvonne…»

«E dai… non fare l’asociale.»

Risate. Sbuffi. 

Spinte. Sorrisi. 

Vorrei anche provare invidia ma non ci riesco, penso che quel sentimento si trovi su una piattaforma completamente opposta alla mia.

«Non sono asociale!»

Credo sia meglio. Credo che mi aiuti, a poco a poco, a non percepire davvero me stessa.

Sfioro il muro con il palmo delle mani, solo per rendermi conto di non essere davvero un fantasma che vaga nel mondo. Ho ancora  carne ed ossa a darmi una forma, non posso passare attraverso il cemento o il legno.

Quando apro la porta, l’odore acre della pittura e della creta bagnata mi arrivano alle narici. Respiro, mi riempio la pancia di fiato, lo faccio una, due volte.

Mi metto il grembiule bianco e comincio a giocare con tutto quello che trovo. La classe di Artigianato è facoltativa, ma è un’ora che aspetto con fervore per tutta la settimana. Da quando ho scoperto che il professor Morgan non chiude a chiave la porta, non c’è stata una volta in cui io abbia passato tutta la pausa pranzo chiusa qui.

Prendo un po’ di creta e la stendo sul tavolo da lavoro, ne faccio tante piccole palline. Prendo, schiaccio, arrotolo, lascio scivolare sui palmi...

È l’unico momento in cui posso permettermi di sentirmi.

***

«Biglietto o abbonamento?»

Sono arrivata presto, oggi. La ragazza davanti a me mostra il tesserino, Patrick annuisce.

Mi guarda. Sembra Mangiafuoco dei film Disney, ma ha i capelli corti e una camicia a quadri rossa che lo fa somigliare più che altro a uno zio un po’ in sovrappeso.

«Ciao, Patrick.» dico, e tossisco subito dopo. Stare zitta tutto il giorno mi fa la voce graffiata, come se fossi raffreddata.

«Buongiorno, Sarah.» Mi sorride.

Io no.

Non ne sono capace.

Rumore di passi.

Qualcosa sbatte sul vetro.

Il ragazzo del bus si sistema lo zaino su una spalla. Piove ancora, fuori, e qualche goccia gli ha lasciato il ricordo di se stessa sulla felpa, sulla pelle su cui scivola fino a bagnargli la maglietta.

Mi guarda.

Accade in un millesimo di secondo in un mondo fatto da migliaia di secondi e minuti e ore e giorni, anni. Non conta questo. Gli zigomi alti, la bocca ferma in un’espressione che non conosco. Occhi verdi. Pagliuzze grigie.

Fisso lo sguardo fuori dal finestrino.

Troppo tardi.

Ho incontrato i suoi occhi.

Si siede nella mia direzione, nella fila opposta. Chiudo gli occhi. Non riesco nemmeno a prendere il taccuino, ho messo la borsa dal suo lato. 

Non lo guarderò.

Poggio la fronte sul finestrino e sento il sapore del sangue, mi sto mordendo la guancia dall’interno.

Mi sta guardando. 

Lo so che mi sta guardando.

Smettila.

Mi sta guardando. 

Alzo lo sguardo sul finestrino, lo vedo. Ci è appoggiato di schiena, il suo profilo diritto crea un’ ombra sul grigio del sedile. Respira, le sue spalle larghe si alzano ogni pochi secondi, i suoi occhi sono una macchia di verde che si riflette nel vetro.

Mi guarda.

Smettila.

Mi alzo all’improvviso, proprio quando il bus si ferma per quella che deve essere la seconda fermata.

Scendo dal pullman e non guardo più indietro.

Se mi guarda c’è solo un motivo.

Trattengo a stento le lacrime.

Sa che sono un mostro.

***

Martin

Google.

La risposta ai quesiti più difficili di Fisica, alla ricerca di gnocche su cui sbavare e video delle canzoni dei Nirvana. 

Google.

Lampeggia nella sua scritta blu e verde.

Sarah.

Oggi è scesa alla seconda fermata, come se si fosse ricordata improvvisamente di qualcosa. Come se si fosse accorta di me.

Il suo nome è una luce fissa, mi brucia gli occhi.

Sarah.

Non riesco a scrivere. Mi sembra squallido, da stalker e maniaci. Non posso scendere tanto in basso con una ragazza. Ma ehi, non è che lei sia una ragazza qualunque… è la ragazza per cui…

«Martin? » È una delle poche volte in cui mio padre entra in camera mia. Sussulto, il portatile quasi mi salta da sopra le gambe, non è cosa da tutti i giorni sentire la sua voce. Mi sento leggero di un’emozione che è la stessa di quando ti rivolge la parola una persona importante, forse perché non succede quasi mai. «Stai facendo i compiti?»

«Mhm. Sì… una ricerca.»

«Va bene.» Si sistema la cravatta della giacca, nera opaca, come i suoi capelli e la barba. «E a scuola… tutto ok?»

«Faccio quello che posso.»

«Certo.»

«Sì.»

Mi dondolo sul letto. Una volta, due volte. Mio padre si passa una mano fra i capelli, guarda un po’ dappertutto, sedia sommersa di magliette, scrivania con i libri aperti, l’armadio aperto con il poster di Miranda Kerr. «Dovresti mettere un po’ più in ordine.»

«Ok.»

Spengo il computer e lo guardo. «Papà… va tutto bene a lavoro? »

Gli si inarcano le sopracciglia. «Sì… perché?»

«Niente, così.» Alzo le spalle. So che non me lo dirai mai. Apro il quaderno di Biologia e prendo un foglio con delle scritte stampate. Glielo porgo. «Ah, papà… devi firmarmi questa autorizzazione. Il Cinema per la scuola.»

Mio padre tira fuori dal taschino la sua penna con la sigla JS, Joseph Scott, se non lo conoscessi potrei pensare che sia il nome di un nuovo cantante rapper. Jey ass… sì.

Cantante di una canzone stonata che è la mia vita. Si mette la penna nel taschino e si avvicina alla porta. «Tra mezz’ora parto, Martin. Torno fra una settimana, ricordati…»

«Di spegnere tutte le luci. »

Sorrido e sento il rumore del mio fiato. 

Ma qui non c'è nessuna felicità.

 

È notte. La strada è illuminata solo dai lampioni, la loro luce cade in trasversale sull'asfalto nero, lucido. Una bambina piccola, con un grembiulino bianco, ci cammina al centro, dondolando.

È pericoloso. Mi avvicino a lei, Ehi, attenta, perché sei qui sola? Lei continua a camminare, senza voltarsi, mentre io la seguo, cammino, comincio a correre, non riesco a raggiungerla.

È sempre più lontana.

Ho l’affanno, mi fermo sul marciapiede e mi appoggio ad un lampione. Un ronzio mi trafigge i timpani nel momento esatto in cui poso la mano sulla plastica nera. La ritiro subito, e mi viene fuori un gemito. Credo di aver preso una scossa. Respiro, respiro, respiro, la luce del lampione a cui mi sono appoggiato si spegne, poi si accende di nuovo e così via, mentre io vago lo sguardo sulla strada e la vedo. Si è fermata.

Sbatto gli occhi.

La ragazza che mi sta guardando ha i capelli lunghi, si muovono allo stesso vento gelido che mi spinge verso di lei. Mi muovo. Ha gli occhi dello stesso colore del cielo d’inverno, un sottile strato di nuvole intorno alla pupilla. Le sue ciglia sono lunghe e dorate, sembrano i fili delle spighe di grano. Resta ferma, delle lacrime le nascono dagli occhi e sono gocce grandi come quando piove forte. 

Sarah.

Sento un rombo. Una macchina si sta avvicinando, e noi siamo in mezzo alla strada. Vieni, sei in pericolo. La mia voce sembra un’eco lontano, le prendo la mano, la stringo. Lei si scosta.

Sarai tu, ad essere in pericolo.

 

La chitarra elettrica che fa da suoneria al cellulare mi fa aprire gli occhi. La canzone continua, ma io resto immobile, ancora a letto, con l’ultima immagine ancora incastrata nella mente.

Sarah che incrocia i miei occhi. Spenti. Una luce ci passa attraverso.

Sarah che si alza all’improvviso e scende dal pullman.

Sarah che cammina in una strada buia.

«Pronto?» rispondo, e la mia voce è impastata di sonno.

«Mi stavi sognando, ammettilo.»

Mi rigiro fra le coperte e scalcio via il lenzuolo. «Mi hai svegliato.»

«Sono le sei del pomeriggio, nullafacente.» Mi passo una mano fra i capelli, poi sulla fronte e sul resto del viso. Sono sudato. «Comunque, stasera alle dieci c'è una festa, me l'ha detto quella ragazza bionda che ti ha scartato come un chupa-chupa con gli occhi, ci stai?»

Deglutisco.

Posso ancora sentire la pelle liscia di Sarah come se l’avessi toccata veramente.

***

Chiudo la portiera della Ferrari e mi aggiusto il colletto della camicia. Cameron fa il giro dell’auto e ci si ferma davanti.

«Quando vorrei che fossi mia.» dice alla mia auto.

Non ho nemmeno la forza di ridere.

La accarezza con la mano, si china e la camicia gli esce dai pantaloni. «Ferrie, amore mio.»

«Sono belle parole, Cam. Scrivitele.» Mi sistemo anche i polsini. Lui prende il cellulare e digita qualcosa… non ci posso credere, le sta scrivendo davvero.

Sono circondato da ragazze. Certe non riesco nemmeno a guardarle in faccia, ma hanno gonne e vestiti corti, e scollature senza senso perché potevano anche non esserci, si muovono morbide e a scatti e io mi perdo a guardarle.

Sarah

Luccichii, liquori, risate, corpi sudati e Sarah si muove piano, forse nemmeno l’aria percepisce la sua presenza. 

Mi passo una mano fra i capelli. 

La percepisco io.

Sospiro. Devo smettere di pensare a lei. Sul tavolino davanti a me c’è una bottiglia di Vodka, farà compagnia alla birra che ho appena ingurgitato. Sarah ha gli occhi di acqua, acqua agitata, tempesta, acqua chiara, le onde si schiantano. Mando giù l’alcol, mi passa attraverso la gola e brucia, scoppia qualcosa. Ha le mani piccole. Sfogliano il taccuino, tengono la matita con due dita, si fermano sulla sue labbra in un sospiro che fa un po’ rumore, la stessa voce del vento.

Mi viene fuori un respiro soffocato, apro gli occhi e stringo la bottiglia fra le mani. Cerco un altro sorso. Ha un giubbino nero, di quelli imbottiti, forse di piuma d’oca, forse di qualcos’altro per tenersi al caldo. Si volta verso il vetro, è bella. Lei... 

Un altro sorso.

«Non ti sembra da egoisti tenertela tutta per te?» Qualcuno mi toglie la bottiglia dalle mani. Non riesco a vedere bene: nel buio della casa, vanno e vengono le luci a intermittenza del salotto dove tutti ballano su una musica che non ha parole.

Sbatto gli occhi. Due labbra carnose e rosse baciano l’orlo della bottiglia, i miei occhi continuano a vagare e trovano il suo collo inarcato, una goccia le scende dal mento e carezza la sua pelle, le raggiunge qualcosa che non posso vedere.

«Mhm. Buono.» Poggia la bottiglia sul tavolino e si scrolla i capelli lunghissimi e biondi in una specie di onda.

Mi sorride. «Io sono Yvonne.» Mi porge la mano… no, si appoggia a me e scoppia in una risata tiratissima, le viene fuori un singhiozzo.

È ubriaca.

«Martin.» Mi si stringe contro e cerco di levarmela di dosso, la testa mi pulsa, il sangue mi pulsa, la gola mi pulsa.

«Ti ho già visto... veeero?»

«Non mi ricordo.» biascico.

«Io mi ricordo sempre dei ragazzi sexy.» Mi mette le braccia intorno al collo, sento il respiro affannoso, un rivolo di sudore mi scivola sulla schiena, lo sento.

«Ehi!» Riesco a staccarmela di dosso. Prendo dell’altra Vodka e la scolo, la sua voce è un’eco lontanissimo, dice cazzate, cazzate, cazzate, e la gola mi brucia, e Sarah va via, è una nuvola, diventa tutta bianca, non riesco a immaginarla. Anche i suoi occhi scompaiono.

«Sei un ingordo.» Di nuovo la voce della ragazza.

E poi più niente. Anzi, qualcosa c’è, rosso, giallo, blu, nero, verde… tutti i colori, proprio tutti… la testa fa un male cane, adesso tutto si oscura, tutto si annebbia. Non ho il controllo dei miei occhi quando li apro, non ho il controllo del braccio che Ivy... Ivy?… non mi ricordo il nome tira per farmi spostare. È ancora più buio qui, sento un formicolio che mi prude le gambe, le braccia, il viso. Mi sta baciando e le mani che si posano sulle sue spalle per mandarla via scendono sulla sua schiena, non so perché. Smette di baciarmi. Non ho il controllo delle labbra umide che si posano sulle sue, delle lingua che le entra dentro la bocca. Non ho il controllo della mano che lei guida sotto la gonna… sembra molto più lucida ora. Le piace, stronza. Mi sta chiedendo qualcosa. No. Sta chiamando qualcuno che deve essere Martin ma Martin è a casa a dormire, davanti a un libro di Chimica che non capirà mai, a ignorare il mondo. Martin è qui, fra le gambe di questa tizia che non guarda nemmeno in faccia mentre spinge. Non capisco. Geme. Non capisco. Questi capelli, queste braccia, questa bocca, tutto è estraneo. Urla un’ultima volta. Ogni rifugio è estraneo e freddo, questo è il primo che ho trovato. Mi accascio su di lei, mi morde le labbra. Sarah si morde le labbra e guarda fuori dal finestrino. «Fanculo.»

Mi alzo i pantaloni, trovo la cinta, mi abituo alla luce e vedo una camera da letto rosa e squallida, una ragazza qualunque… Ivy… non lo so e mi dispiace. Vaffanculo. Recupera le mutandine, ride, è ubriaca. Io no, non così tanto. Perché se così fosse starei bene. Invece vado via e mi viene solo da vomitare. Vomitare, vomitare, vomitare… che c’è che non va, ho soldi, una bella macchina, una bella casa… ho tutto quello che voglio, me la cavo sempre …

È un freddo che punge, quello che sento. Mi entra dentro come tanti piccoli stuzzicadenti di legno, mi affonda nella carne e mi lacera da dentro. Vomito. Forse così se ne va il marcio di me stesso.

La puzza è il mio buongiorno, quello che mi fa aprire gli occhi un po’ più consapevole. È la mia macchina, quella a cui sono appoggiato? Qualcosa mi impedisce di cadere.

«Ehi, hai fatto una bella sbronza, eh?» Mi aiuta a rimettermi in piedi, sono peggio di un neonato, ci manca solo Doreen con il passeggino come quando avevo tre anni. «Stasera guido io, no problem.»

«Cazzo.»

«È tutto ok.» Non ho nemmeno la forza di lanciargli le chiavi. Mi apro la giacca e lascio che intuisca lui… mi sento più leggero, le ha prese. «Fortuna che tuo padre è fuori città.»

«Mhm.» Mi viene fuori.

Sento la sua pacca sulla spalla e mi sembra una pugnalata. Quando riesco a distinguere più o meno i contorni di tutto questo, il suo viso familiare riesce a farmi deglutire senza rimettere un’altra volta. Mi trascino in auto. Cameron mette in moto, accende la radio e prende a canticchiare una canzone. Niente domande, niente risposte.

Solo io ci sono e tu ci sei.

Scuoto la testa e abbasso il finestrino. Lo stomaco mi si contrae e non è per quello che è appena successo. È una sensazione simile a quando il professore ti interroga e non c’è il tuo amico di sempre a suggerirti, e sai che così ti verranno tagliate le gambe.

Sarai tu, ad essere in pericolo

Mi passo una mano fra i capelli.

Forse lo sono già.

*

*

*

*

Ciao a tutti <3 Eccomi qua con un aggiornamento, scusatemi per il ritardo, purtroppo lo studio mi toglie tantissimo tempo. Io cercherò comunque di essere puntuale, perché la storia di Martin e Sarah si sta evolvendo, nella mia testa, ed io non vedo l'ora di raccontarvela :))) In questo capitolo abbiamo avuto due diversi POV, in particolare sappiamo più cose su Martin, e su Sarah forse dovreste avere ancora più domande :p Spero tanto che vi piaccia e che vi stia incuriosendo! 

Spero tanto che mi lascerete un parere <3 Sono così emozionata!

Grazie davvero, a tutti voi <3

Un bacio

Ania <3
p.s ci sono due nuove storie nel fandom di Twilight che consiglio assolutamente! Si tratta di questa e questa <3

   
 
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