Non so se qualcuno mi legge ancora, ma vorrei lo stesso ringraziare chiunque lo stia facendo ora e chiunque lo abbia fatto in precedenza; chi ha commentato, chi ha messo la storia per i preferiti, eccetera. In particolare vorrei ringraziare roxy_xyz per aver commentato il capitolo precedente :*
Che dire... Anche questa è andata. Sono soddisfatta, e penso che questa storia meritasse questa fine, tutto sommato.
A voi i commenti (che spero arriveranno)... E ancora, grazie.
Adrienne
Epilogo.
Due anni dopo.
Era un giorno soleggiato ed Harry Potter camminava per le vie Babbane di
Londra.
Era in ritardo e sapeva che lei l'avrebbe ucciso.
Accelerò il passo, facendosi spazio tra la folla scalpitante. Era dicembre: la gente
comprava i regali di Natale e si perdeva tra mille regalini, attività,
chiacchiere davanti a un thè delle cinque. Londra a Natale era veramente
stupenda, quasi magica; tutto era addobbato di lucine, festoni, alberi
scintillanti. In giro vi erano tanti Babbo Natale che distribuivano caramelle a
bambini ed adulti.
Qualche giorno prima aveva anche nevicato, ma uno strano e pur sempre timido
sole era spuntato da un paio d'ore ed ormai tutta la neve era sciolta, fatta
eccezione per qualche spauracchio che rimaneva agli angoli delle strade,
destinato anch'esso a sciogliersi molto presto. Harry aveva trovato quei giorni
davvero perfetti, speciali, ed era felice di esser lì proprio in quel periodo
dell'anno.
In cuor suo sapeva che nessun'altro posto sulla faccia della terra avrebbe
potuto eguagliare quella città, la sua città. Gli mancava da morire. Ancora non
si era completamente abituato a quella mancanza e se avesse potuto, avrebbe
fatto le valigie anche l'indomani e sarebbe tornato lì per rimanerci. Ma lui
non poteva, non poteva assolutamente rimanerci.
Era stato meglio così per tutti, come aveva immaginato. Avrebbe sbagliato
ancora una volta.
Dopo parecchie gomitate e piedi pestati, Harry arrivò all'ingresso di Hyde
Park.
Lei ovviamente era accanto ai cancelli che già l'aspettava da chissà quanto, le
braccia conserte sul petto, una smorfia a deformarle la bocca.
“Scusa,” ansimò Harry non appena le fu a pochi centimetri di distanza. Lo
sguardo di lei gettava saette nella sua direzione. “Ho dovuto prendere la
metropolitana. C'era una confusione assurda...” continuò a giustificarsi Harry.
Aveva praticamente corso e gli faceva male il fianco, così si piegò leggermente
sulle ginocchia riprendendo fiato, e con una mano fece segno a lei di
aspettare.
“Mi perdoni?” biascicò però, guardandola negli occhi e rivolgendole quello
sguardo che lui sapeva piacerle tanto, quello che le rivolgeva quando aveva
bisogno di un favore, quando doveva farsi perdonare di qualcosa - come in quel
caso.
“E' inutile che mi guardi così, Harry James Potter,” annunciò in modo
cristallino la voce squillante di Ginny Weasley, “Ti perdono.”
Lui le sorrise e ridacchiò. Il dolore al fianco era diminuito, così torno in
posizione eretta, riprendendo un contegno. “Vieni qui,” disse lui poi, aprendo
le braccia.
Lei rise e si gettò fra di esse. Si strinsero in un abbraccio, e Harry respirò
a lungo quel profumo di lavanda, quel profumo che aveva e avrebbe sempre
associato a lei. Quello che aveva respirato per tanto, tanto tempo fra le
lenzuola del letto sfatto, quello che nei suoi ricordi l'attanagliava di sensi
di colpa. Gli era mancata davvero tanto anche lei. Era da un po' che non si
vedevano ormai.
Harry la lasciò andare e Ginny gli regalò un sorriso a trentadue denti. Il
tempo non aveva mutato il suo aspetto, ma anzi sembrava sempre di più una di
quelle modelle d'alta moda che ogni tanto Harry incrociava alla tivù o sulle
riviste: Era snella ed alta, i lucenti capelli rossi le incorniciavano il volto
e gli occhi chiari erano truccati da un perfetto tratto nero di eyeliner sulle
palpebre. Le labbra erano leggermente rosse ed indossava un cappotto grigio e
una sciarpa nera; aveva una borsa di pelle sicuramente molto costosa e un paio
di stivali col tacco. Ai lobi dei semplici orecchini di perle. Era davvero
bellissima, e Harry pensò che qualsiasi ragazzo che passava in quel momento
accanto a loro si sarebbe potuto innamorare di lei, e che chissà quanti e quali
di essi lo avrebbero invidiato vedendola lì con lui.
“Beh, andiamo” disse lei improvvisamente, scrollando le spalle. Harry annuì ed
entrarono a Hyde Park. Cominciarono a passeggiare tranquillamente, camminando
l'una al fianco dell'altro. Nonostante il sole la giornata era fresca ma i
Londinesi non si lasciavano scoraggiare: c'era qualche famigliola che girava lì
attorno e dei coraggiosi ragazzi che andavano in bicicletta, quelle che si
potevano affittare giornalmente.
Harry e Ginny non parlavano. Non avevano bisogno di farlo, nonostante quello
fosse il loro primo incontro dopo un certo periodo di tempo. Sapevano tutto.
Lei gli mise un braccio sotto al suo, e camminarono così, tenendosi a
braccetto, il rumore di due respiri a far loro compagnia.
Harry, due anni fa, aveva deciso di ritornare lo stesso a Dublino.
E da allora ci era rimasto.
Quando era tornato nella loro vecchia casa, Ginny gli aveva lanciato oggetti e
rivolto insulti spaventosi, proprio come Harry aveva pensato e temuto,
ignorando le sue scuse e le sue motivazioni. Gli chiedeva perché era tornato
con la coda tra le gambe, e in effetti neanche Harry lo sapeva con esattezza.
Ma qualcosa nel proprio istinto gli diceva che nonostante tutto aveva già
deciso di tornare a Dublino e ormai doveva rispettare quella promessa fatta a
sé stesso. Era chiaro che Londra l'aveva intossicato, gli aveva fritto il
cervello, e voleva staccarsene per un po'. Voleva staccarsi dalla famiglia
Weasley e, a malincuore automaticamente anche da lei, Hermione.
Ginny poi si era calmata, ed aveva dovuto accettare passivamente una convivenza
forzata con il suo ex fidanzato, finché almeno lui non avesse trovato una nuova
sistemazione e raccolto tutta la sua roba in grossi scatoloni.
Ma quella nuova sistemazione non era mai arrivata, dopo le prime ricerche di
Harry.
I due, sfogata tutta la rabbia e il nervosismo del loro rapporto ormai finito,
avevano cominciato ad essere più tranquilli, meno gonfi di risentimento e
dolore. Certo, Ginny ancora non gli perdonava quello che aveva fatto a tutti
loro, a lei per prima, ma evitavano l'argomento se potevano, e così non ne
avevano parlato più. Harry le voleva bene, e Ginny non aveva mai smesso di
amarlo.
Si trovarono a parlare tanto, a sfogarsi a vicenda sui loro sentimenti perché
erano ormai slegati da qualsiasi vincolo e perciò era più facile essere
sinceri, e con i giorni la rabbia di lei si affievolì fino a sparire. Si
trovarono a scherzare, a ridere insieme. Uscivano la sera, frequentavano vari
amici Dublinesi, facevano insieme la spesa, si erano perfettamente riabituati
l'uno ai gesti e al modo d'essere dell'altra, e la convivenza ormai si era
fatta piacevole in tutti sotto tutti gli aspetti. Ginny aveva smesso di
scrivere sul diario e non piangeva più, non gli urlava più contro, ma anzi si
scambiavano sempre grandi sorrisi. Sembrava che non fosse successo mai niente
di brutto tra loro. Per Harry era come se fossero tornati indietro nel tempo e
una sera, complice parecchio Whisky Incendiario e altro alcool Babbano, si
erano baciati di nuovo. Era stato lui, Harry, a farsi avanti per primo e lei
l'aveva assecondato immediatamente.
Solo l'indomani mattina Harry si era reso conto della grande cavolata che aveva
fatto. Temeva che lei provasse ancora qualcosa per lui e con quel bacio aveva
paura di averle dato di nuovo false speranze, di aver rovinato ancora una volta
tutto quello che erano riusciti a ricostruire.
Una volta ripresi dal dopo-sbornia, avevano deciso di parlarne e Ginny era
stata la prima a dirlo, con grande sorpresa di Harry:
“Non ho sentito nulla, davvero. Non credevo potesse succedere, con te. E' stato
solo un contatto fisico, nient'altro.” gli disse, schietta.
“Perché siamo amici, ormai” le rispose Harry con sincerità.
Era vero. Erano amici, e non volevano tornare indietro, né andare avanti.
Finalmente iniziavano a conoscersi davvero, a capirsi, a sapersi leggere, e
Harry si era reso conto di quanto Ginny potesse essere un'amica davvero
speciale, cosa che non aveva mai capito prima d'ora, perché non l'aveva mai
ascoltata veramente né, forse, si era mai sforzato di comprenderla a fondo. Non
erano più appesantiti dalle responsabilità del dover stare insieme ed entrambi
avevano aperto il loro cuore.
Quella sera, - quando preso dalla frenesia dell'alcool Harry aveva baciato di
nuovo Ginny - si era ubriacato in quel modo perché era profondamente triste. Il
motivo era che lei quella stessa mattina gli aveva rivelato che Hermione era
incinta.
Harry e Hermione, dopo quel giorno in cui avevano fatto l'amore – e per Harry
ricordarlo era insieme un dolore e un piacere – non si erano più sentiti né
visti. Lui aveva deciso di andare lo stesso a Dublino, e ai momenti dei saluti,
baciandola per l'ultima volta a fior di labbra, le aveva promesso che si
sarebbero rivisti presto, che avrebbero parlato, che avrebbero deciso cosa fare
con molta più calma, che quel tempo lontani avrebbe chiarito ancora di più le
cose. Lei, con i capelli arruffati e i vestiti sistemati alla bell'e meglio,
gli aveva sorriso e aveva detto: “Non voglio perderti.”
Invece, Harry era stato preso dalla nuova vita a Dublino, dalla ricerca della
nuova casa, dalla risvolta del rapporto con Ginny e non c'era stata più
occasione, anche se lei gli mancava come non mai. Sapeva che Ron e Hermione non
si erano ancora lasciati ufficialmente, forse perché lui aspettava il momento
giusto per confessarsi e forse perché lei, invece, aspettava notizie da Harry.
Malgrado ciò, e nonostante quel tempo divisi senza alcun contatto, Harry non
aveva avuto bisogno di nessun chiarimento perché ormai era sicuro al cento per
cento su quello che provava e su quello che voleva fare: Voleva stare con Hermione.
Proprio il giorno in cui era libero dai suoi impegni dopo tanto tempo, ed aveva
già preso in mano una pergamena e una piuma per scriverle pagine e pagine su
quello che gli stava succedendo e per chiederle di vedersi, Ginny gli aveva
detto quella cosa.
“Ron mi ha detto che Hermione è incinta.”
Lo disse con tono serio ma anche grave. Non parlavano mai di Hermione, ogni
tanto parlavano di Ron e del signor Weasley ed era già tanto, ma Ginny sapeva
perfettamente quali erano i sentimenti di lui nei confronti della riccia. E
sapeva anche che quella sarebbe stata una coltellata al cuore per lui, perciò
lo disse con quel tono, calma e lenta.
E in quel momento, quando Ginny pronunciò quella frase, Harry lo seppe: Si
erano persi.
Si erano persi di nuovo, lui l'aveva persa, lei l'aveva perso.
Non si poteva più tornare indietro. E non sarebbero mai stati insieme, quella
volta per davvero.
Decise (da solo, stavolta) di troncare del tutto i rapporti. Ron non l'avrebbe
mai capito, era ovvio, l'avrebbe odiato. Ma Harry non poteva più farcela, non
dopo quella rivelazione, non l'avrebbe mai sopportato. Ginny provò a
parlargliene, a farlo ragionare, ma lui era ormai assolutamente fermo su questa
decisione.
Hermione gli scrisse una lettera, e Harry la gettò nella spazzatura senza
neanche aprirla, anche se la curiosità lo mangiava vivo. Non la voleva più
vedere, non la voleva più sentire.
L'aveva ucciso. Lei e Ron l'avevano ucciso, distrutto. Annientato.
Si era ubriacato perché voleva dimenticare quella terribile notizia e anche
tutto il resto. Sugli sgabelli di quel pub aveva osservato attentamente Ginny,
lì accanto a lui, col bicchiere in mano, che rideva e scherzava con tutti,
decisamente brilla anche lei. Aveva pensato a quanto Ginny fosse attraente e
simpatica in realtà, a quanto fosse felice di averla al suo fianco come amica,
di non aver perso anche lei alla fine di quella tremenda storia. Ma ancora una
volta si era chiesto perché diavolo Ginny Weasley non fosse Hermione Granger in
quel momento.
A quella conclusione le aveva preso il bicchiere tra le mani e l'aveva baciata
mandando al diavolo tutti e tutto, come se avesse potuto trasformarla solo con
quel bacio. L'aveva fatto pensando proprio a lei, Hermione, la ragazza che
amava, quella per cui stava soffrendo come un cane da un tempo incalcolabile
ormai.
Non era più successo niente del genere dopo quella volta, dopo che entrambi
erano arrivati alla conclusione di aver fatto un piccolo sbaglio e che non
avevano provato assolutamente niente in quanto a sentimenti, e tutto era
tornato alla normalità. Lui non aveva più toccato alcool.
Aveva detto a Ginny di non parlargli mai più di nessuno di loro, che non voleva
saperne niente, e meno che mai voleva alcuna notizia del bambino. Ginny era
ormai cambiata, era tornata quella ragazza solare e determinata di sempre,
aveva riallacciato i rapporti con la sua famiglia e ad intervalli regolari
andava a trovare tutti alla Tana o al San Mungo. Un giorno lui la trovò sul
divano, sorridente, ad ammirare delle foto che dovevano essere sicuramente del
bambino – bambina?, Harry non lo sapeva né voleva saperlo – perché quando entrò
nella stanza, lei le nascose dietro la schiena per oscurarle alla sua vista.
Harry le disse di riferire a tutti i Weasley che dopo essersi lasciati lei non
sapeva che fine lui avesse fatto, che chissà quale losca via aveva deciso di
intraprendere a causa del Ministero, e soprattutto le ordinò di cestinare tutte
le lettere da parte di Hermione per lui. Il secchio della spazzatura era colmo
ormai della sua calligrafia, di lei, delle parole scritte con il calore della
sua mano, della forza che reggeva la penna. Le disse inoltre di avvisarlo in
anticipo se loro avessero deciso di andarla a trovare lì a Dublino, perché lui
sarebbe sparito per tutto il tempo che era necessario. Si sentiva malissimo, ma
non poteva fare altrimenti. Non c'erano parole né scuse che tenessero, non
c'era niente da fare, non voleva saperne. Non avrebbe sopportato di recitare
ancora.
Avevano un figlio ormai, Ron e Hermione, ed era ovvio che non si sarebbero mai
più lasciati. Ron doveva essere tornato sui suoi passi, doveva essere
felicissimo di avere un figlio,
Pensava a Hermione spesso, ovviamente. Si chiedeva come stesse, e che cosa
pensasse di lui; arrivò alla conclusione che probabilmente doveva farle molta
pena. La notte, quando si svegliava e non riusciva più a prendere sonno, si
lambiccava disperatamente il cervello chiedendosi se anche a lei mancasse, se
fosse felice, se sentiva di appartenere di nuovo a Ron. E in particolar modo si
chiedeva se si sentisse davvero viva senza di lui, senza Harry.
Non erano solo le foto di suo o sua nipote che Ginny stava a guardare sul
divano. Harry aveva notato che molto spesso lei si portava a casa tante riviste
d'abiti di sposa Babbane e stava ore a guardarle, a studiarle, a sfogliare le
pagine aggrottando le sopracciglia e corrugando la fronte. Ma non era per quel
motivo degli ultimi anni che lei le comprava e le guardava: a Ginny interessava
la moda. Cominciò a scrivere e a disegnare in grandi blocchi da disegno con
matite e pastelli colorati, a prendere misure su di sé, a farsi foto da sola
allo specchio. Di punto in bianco lasciò la squadra di Quidditch, senza dare
molte spiegazioni alle sue compagne, senza alcun tipo di rimorso.
Una sera, a cena, diede ad Harry la grande notizia, sempre con quel tono delle
comunicazioni importanti.
“Voglio tornare a Londra, Harry. Devo tornare a Londra. Amo la moda,
voglio lavorare in quel campo.” gli disse, tra una forchettata di pasta e
l'altra.
Harry comprese e non ribatté. In fondo erano solo amici e lui non doveva né
voleva seguirla ovunque lei volesse, meno che mai in quel progetto. Sapevano
entrambi perfettamente che Harry, nonostante amasse Londra con tutte le sue
forze, doveva evitare quella città. Quindi capì la decisione della rossa e si
mostrò felice per lei e per quel grande cambiamento che sembrava entusiasmarla,
ma in realtà aveva paura. Aveva paura di restare ancora una volta solo.
Lei fece le valigie e dopo qualche mese partì, in cerca di fortuna, ma decisa nell'impegnarsi
in questa passione trovata e scoperta così, per caso, per sbaglio.
“A presto. Ci vedremo presto.” gli disse.
Harry non poteva esserne poi così sicuro.
Ginny cominciò a lavorare come modella. Era bella, questo era innegabile, e non
fu difficile per lei: non passava inosservata. La vita notturna Londinese
l'aiutò, poiché la notarono una sera, in un locale, mentre ballava su un tavolo
dopo un paio di drink. Quando Harry lo lesse in una delle sue tante lettere,
scoppiò a ridere. Poteva succedere solo a lei una cosa del genere.
Da quei pomeriggi sul divano Ginny non aveva mai smesso di disegnare abiti da
sposa. E un giorno, dopo tanta gavetta, sudore e lacrime, notarono anche i suoi
bozzetti. Li trovarono buoni e così Ginny, giovane e completamente estranea a
quel mondo (e soprattutto al mondo Babbano, a cui lentamente dovette abituarsi,
sforzandosi non poco) si ritrovò stilista di abiti da sposa.
Era un paradosso, proprio lei che tanto tempo prima aveva pianto su quelle
riviste, su quegli abiti candidi, sulle modelle che riteneva così felici e
spensierate. Harry era felicissimo per lei: se lo meritava. Meritava di essere
felice, questo l'aveva sempre pensato e sperato.
Non si erano più visti ed era passato parecchio
tempo. Hermione aveva smesso di scrivergli e l'unica corrispondenza che Harry
intratteneva era quella con Ginny.
Harry si abituò a stare di nuovo da solo, in quella grande casa che per anni
aveva condiviso con Ginny, e soprattutto si abituò a non contare su
nessun'altro a parte sé stesso. Quella fase della sua vita non fu tremenda come
aveva immaginato e piano piano la paura della solitudine prese a diminuire.
Usciva con gli amici, incontrava tanti maghi, si buttò a capofitto sul lavoro,
impegnandosi più di prima – ricevette addirittura una promozione. Cominciò ad
uscire con diverse ragazze, con qualcuna si spinse anche un po' più in là di
qualche semplice uscita, ma a lui non importava nulla di loro in realtà. Non si
sbilanciava e faceva intendere di non essere pronto ad alcun tipo di relazione,
che non voleva legami. Non era perché volesse essere cattivo con loro, ma la
realtà era che non riusciva per davvero a legarsi a nessuna, anche se ci
provava, addirittura si sforzava. Pensava che per tutta la vita avrebbe dovuto
convivere con quel tipo di dolore, quello che dentro di lui bruciava
ardentemente; pensava che i sentimenti per Hermione non sarebbero mai
svaniti, che non avrebbe mai incontrato nessuna come lei, e che se era con lei
che aveva provato tante forti emozioni e che se era di lei che si erano
innamorato veramente per la prima volta, allora non sarebbe più capitato niente
del genere con nessun'altra. Era rassegnato, ma abituato.
Non sarebbe mai finita, per lui, quindi tanto voleva abituarsi.
Ginny in tutte le sue lettere gli diceva di andarla a trovare, che stare a
Londra gli avrebbe fatto bene e che in fondo non era costretto a rivedere nessuno
che lui non volesse, che era curiosa di mostrargli la sua nuova vita lì e
che avrebbe potuto fargli conoscere tante modelle con le quali aveva stretto
amicizia. Harry ogni volta ci scherzava su ma rifiutava categoricamente. Non
era pronto, e chissà quando lo sarebbe stato. Però lei gli mancava, e gli
mancava quella città.
Ma un giorno, stressato da lavoro, stressato da mille altri pensieri e da una
ragazza che aveva conosciuto per caso e che ultimamente lo stava assillando,
scrisse a Ginny che aveva finalmente deciso di fare una capatina da quelle
parti. Lei gli rispose entusiasta, e una settimana dopo Harry prese un aereo e
partì. Era nervoso e, allo stesso tempo, triste. Non sapeva come prendere quel
viaggio, se positivamente o negativamente.
Ad ogni modo, prenotò un albergo e dopo qualche giorno di permanenza lì, quella
mattina aveva finalmente accettato l'invito da parte di Ginny.
Quest'ultima non aveva ancora mollato la presa sul braccio di Harry e sembrava
che lo stesse guidando in un punto preciso del parco; era lei a condurre le
danze. Harry sospirò profondamente.
“Più tardi andiamo a casa mia” disse all'improvviso Ginny spezzando il
silenzio, “Te la farò vedere e pranziamo lì a che ci siamo. Sono diventata
molto brava a cucinare. Ti piacerà.”
“Te la cavavi già abbastanza bene, mi farai trovare su un vassoio d'argento
un'aragosta che hai pescato personalmente e del caviale?”
Lei gli fece una smorfia. “Come siamo spiritosi.”
Harry rise. Gli era mancato il profumo di lavanda e il suono della sua voce.
Si chiese se un giorno si sarebbe potuto innamorare di nuovo – o meglio, se si
sarebbe potuto innamorare realmente e ancora una volta – di
Ginny. Non lo sapeva con certezza, la vita era imprevedibile, ma di certo in
quel momento gli sembrava proprio impossibile. Sapeva solo che ci teneva che
lei fosse una sua amica, che le voleva bene, e che gli piaceva averla accanto a
sé: questo gli bastava. E sopratutto si chiese se lei si sarebbe potuta
innamorare di nuovo di lui, se l'avesse mai ricambiato; l'aveva fatta soffrire
tanto, troppo. Da sempre poi lei aveva potuto avere tutti i ragazzi che voleva,
ora più che mai. Perché avrebbe dovuto scegliere di innamorarsi ancora una
volta di Harry?
Ma lo sapeva bene, lui: Non si può scegliere di chi innamorarsi. L'amore ti
travolge, e ti porta da chi gli pare.
“Comunque, mi chiedevo”, continuò Harry, “Perché mi hai portato qui? Non per
fare il solito guastafeste, ma non credo che oggi sia proprio una giornata
ideale per fare una passeggiata al parco. Cioè, è una bella giornata, ma ha
nevicato...”
Ginny inizialmente non rispose e cadde di nuovo il silenzio. Si erano ormai
inoltrati in una parte del parco dove c'erano tante altalene, varie giochi e
giostre per bambini e molte panchine affollate di genitori. Lì infatti c'era il
pienone: le famiglie dovevano sicuramente aver approfittato del timido sole di
quella giornata.
“Beh, vedi Harry... Devi promettermi una cosa.”
“Spara.”
“Sicuro?”
“Sì.”
“Devi promettermi che non mi odierai. E che continuerai a parlarmi e ad essere
mio amico.”
Harry si girò a guardarla sgranando gli occhi. “Ma che razza di...”
“Promettilo!” esclamò Ginny interrompendolo.
“Okay, okay. Anche se non capisco proprio perché dovrei prometterti una cosa
del genere, è chiaro che...”
“Ricorda che hai promesso ormai.”
“D'accordo.” tagliò corto Harry, che non capiva proprio dove volesse andare a
parare la rossa e si era stufato di quei messaggi in codice.
Ginny accelerò leggermente il passo e cominciò a guardarsi attorno, ma con
discrezione; Harry però se ne accorse lo stesso.
“Ginny, cosa stai...”
Approfittando del fatto che Ginny aveva ancora il braccio stretto a quello di
lui, si avvicinò alle famigliole e agli schiamazzi dei bambini trascinandolo
con sé, finché non inchiodò vicino a una panchina.
Ad Harry gli si mozzò il fiato e dovette sforzarsi di ricordarsi come si
respirava perché gli sembrava di non esserne più capace.
Hermione era seduta su quella panchina. I capelli riccissimi erano molto più
corti: adesso arrivavano alle spalle. Le ciglia lunghe le incorniciavano gli
occhi, aveva un cappotto candido e una sciarpa rossa; non aveva con sé nessuna
borsa. Il suo aspetto era semplice ma sempre molto piacevole, e quando alzò lo
sguardo e li vide di fronte a loro, Harry capì una cosa, una cosa che forse
aveva sempre saputo ma che di certo non poteva più ignorare perché lo in
quell'istante lo capì perfettamente e si rassegnò. Aveva incontrato molte
ragazze nella sua vita, e capì che nessun'altra gli aveva mai provocato quello
che il sorriso di Hermione gli stava scatenando dentro in quel preciso istante.
Hermione sorrideva loro e lo stomaco gli si accartocciò tutto. Anche Harry
stesso avrebbe voluto accartocciarsi a palla e buttarsi nel più vicino cestino
della spazzatura.
“Sei una stronza.” mormorò a Ginny, e in quel momento gli parve la cosa più
giusta ed intelligente che potesse riuscire a dire o che potesse dire in
generale.
“Ricorda che hai promesso,” gli ripeté Ginny, e gli lasciò finalmente il
braccio. Fece dei passi verso Hermione, che ormai si era alzata dalla panchina
e continuava a sorridere.
Ma cosa diavolo c'era di tanto bello, si chiese Harry? Per cosa e perché doveva
sorridere? Rimase lì inchiodato, immobile, e si rese conto che stava stringendo
i pugni, così tanto che sentì le sue unghia corte arrivare alla carne. Perché
Ginny gli aveva fatto questo? Perché aveva deciso di tornare a Londra? Quanto
era stupido in una scala da uno e dieci? Non si sarebbe mai aspettato un tiro
meschino del genere da parte di Ginny, mai. Rimase lì fermo perché non riusciva
a muoversi, gli tremavano le gambe, e perché non sapeva come avrebbe reagito
quando si sarebbe mosso. Avrebbe cominciato a urlare? Sarebbe scappato a gambe
levate?
Ma Ginny e Hermione risolsero i suoi dubbi decidendo di raggiungerlo e dopo
essersi scambiate qualche parola che Harry non si sforzò di comprendere, si
mossero verso di lui.
Quando Hermione gli fu vicinissima, si sentì il cuore scoppiare. Ricordava
benissimo tutti i particolari del suo viso, dei suoi capelli, e delle sue
labbra e rivederli così vicini fu un colpo.
“Bene ragazzi,” disse Ginny allegra, battendo le mani, “Io adesso vado, credo
sia meglio lasciarvi soli.” Scoccò un'occhiata a Harry e disse ancora: “Con te
ci vediamo dopo, ovviamente. Ti aspetto all'entrata del parco.”
Harry la guardò come assente, senza dire né fare nulla, non preoccupandosi di
farle capire che aveva recepito il messaggio. In quel momento la stava odiando
praticamente con tutte le sue forze e non aveva voglia di mostrarsi gentile, e
di certo lei non poteva aspettarsi che le sarebbe saltato addosso
ringraziandola per quel gesto. Ginny sospirò e fece dietrofront, dopo avergli
lanciato un ultimo sguardo che Harry interpretò come un “Non fare cavolate”.
Poi Harry si voltò a guardare Hermione, in piedi accanto a lui, nonostante una
parte di sé non volesse farlo. Deglutì sonoramente, e sciolse i suoi pugni, che
ormai gli stavano facendo male.
“Davvero commuovente,” commentò Harry in un patetico tentativo di mostrarsi
forte e cattivo, “Tu e Ginny siete di nuovo migliori amiche. Così tanto che
avete architettato questa messa in scena. E io che avevo creduto che lei
volesse rivedermi veramente. Immagino che lei ti avrà detto tutto...
Complimenti.”
Hermione lo guardò attentamente negli occhi e Harry si pentì immediatamente di
quella frase.
“Non essere sciocco, Harry,” disse lei, e quando parlò Harry sentì tutte le sue
già deboli difese crollare miseramente, “Lo sai anche tu che non è così. Non
capisco di cosa tu stia parlando: Ginny non mi ha detto nulla. Io avevo... Io
avevo dei sospetti, sapevo che eravate ancora in contatto in qualche modo, ed
evidentemente i miei sospetti erano giusti. Le ho solo chiesto di fare in modo
che noi due potessimo rivederci.”
“Perché?” le chiese subito Harry, in un modo quasi disperato. “Cosa vuoi
da me? Perché vuoi farmi ancora del male?”
Hermione non riuscì a sostenere il suo sguardo e lo distolse per un attimo. “Io
non ho mai voluto farti del male.”
Harry si mise le mani nelle tasche, non smettendo di guardarla. Anche se il
cuore nel petto gli tamburellava ancora furiosamente e anche se lo stomaco gli
si stava praticamente disintegrando, stava iniziando a riprendere il controllo
di sé. “Eppure è successo. A proposito... auguri.”
Lei non lo ringraziò e una piccola ruga le passò sulla fronte. “Questo
atteggiamento alla Malfoy non ti si addice minimamente, Harry. Vuoi smetterla?”
Lui alzò un po' la voce. “Cosa dovrei dirti, Hermione? Cosa dovrei fare? Avrei
dovuto riabbracciarti e baciarti come se niente fosse?”
Hermione non rispose. I bambini giocavano sulle giostre ridendo e
rincorrendosi. I genitori accanto a loro stavano in piedi a fumare sigarette o
a discutere, altri erano appollaiati sulle panchine ad osservare i propri
mocciosi, ed Harry non poté fare a meno di notare che avevano attirano
l'attenzione di qualche curioso.
“Non c'era motivo che ti rivedessi, oggi,” continuò lui, “Né in qualsiasi altro
giorno. Non ho niente da dirti. Non abbiamo niente da dirci, è andata come è
andata e sappiamo perfettamente entrambi perché. Penso tu sia abbastanza
intelligente per capirlo. Io non devo avere più niente a che fare con te e con
nessuno di voi, ho scelto così. E tu oggi stai rovinando tutto, tutto
quello che ho fatto negli ultimi anni per provare a vivere solo, e soprattutto
per provare a vivere senza te accanto. Okay?”
La riccia annuì. Si guardarono ancora negli occhi e sostennero a lungo lo
sguardo.
Harry si sentiva meglio per quello che aveva detto. Dopo lo shock iniziale, non
pensava di poter essere tanto determinato e si scoprì fiero di sé stesso.
Credeva davvero a tutto quello che le aveva appena detto, in modo particolare
era fermamente convinto che quell'incontro non avrebbe mai portato da nessuna
parte. Non aveva alcun senso. Neanche lei poteva aspettarsi un'accoglienza
calorosa da parte sua.
“Hai perfettamente ragione, Harry. Potrebbe non esserci nient'altro da dire.
Infatti non voglio parlare e dire qualcosa che potrebbe suonarti falsa e
terribilmente banale. E' per un altro motivo che ho chiesto a Ginny di poterti
vedere oggi... Voglio che tu veda una cosa. ” annunciò lei.
E tutto d'un tratto, come se avesse pronunciato un incantesimo non verbale, una
piccolissima figura corse verso di lei, fermandosi ai suoi piedi ed poggiandosi
sulle sue gambe. Hermione se ne accorse e in un batter d'occhio si inginocchiò
verso la figura, per abbracciarla leggermente e capire cosa avesse bisogno.
Harry si costrinse ad abbassare lo sguardo. Si costrinse a guardare e il
respiro gli si bloccò di nuovo in gola.
Una piccolissima figura che poteva avere un anno e qualcosa, quasi due, era ai
piedi di Hermione e biascicava qualcosa, con una voce squillante ed infantile:
era una bambina. Hermione le pulì le manine, sporche di sabbia o di terra, e le
disse qualcosa per tranquillizzarla. Le sistemò il cappellino colorato che la
bambina portava in testa, dal quale spuntavano dei capelli castani, come quelli
della madre. Harry non riusciva a capire cosa si stessero dicendo, perché aveva
completamente spento l'audio tutt'attorno, si stava concentrando solo sulle
immagini che aveva davanti a sé. Però qualcosa di insolito la percepì: un nome,
Rose. Delicato, così delicato che quando Harry lo ripeté dentro la sua testa
tante volte temette di poterlo rovinare.
Così il bambino di Hermione era in realtà una bambina e il suo nome era Rose.
Non seppe il motivo né che cosa lo spingesse a farlo, ma anche Harry decise di
inginocchiarsi sulle gambe, arrivando alla stessa altezza di entrambe. Forse
voleva solo guardarla in viso, vedere se era bella, com'era il suo naso,
com'erano rosse le sue guance. Quando lo fece, la bimba si accorse di lui e gli
puntò addosso lo sguardo. Lo guardò con dei grandi, disarmanti occhi verdi.
E anche in quel preciso istante, quando l'osservò veramente da vicino, quando
sentì quello sguardo dentro i propri occhi, anch'essi verdi, Harry capì una
cosa.
Harry capì quella cosa che Hermione gli disse dopo che Rose tornò a giocare lì
accanto, e lo fece con un tono assolutamente sereno, come se gli stesse dicendo
che quel giorno era martedì e mancava poco a Natale.
“E' tua figlia.”
Anche se era tornato in piedi, Harry perse l'equilibro. Le gambe gli tremavano
di nuovo, ma questa volta molto più pericolosamente. Si fece forza e si
trascinò fino alla panchina di prima, che era rimasta vuota. Hermione lo
raggiunse, ed Harry poteva scorgere una sfumatura preoccupata nel suo sguardo.
Poteva immaginarlo, del resto.
Quando Harry finalmente si sedette si rese conto d'essere veramente esausto.
Come se un peso incredibile gli fosse finito sulle spalle, come se avesse
percorso tanta strada a piedi senza mai fermarsi, come se avesse giocato tre
partire di Quidditch di fila.
Non disse nulla per un bel po', l'audio era ancora disattivato. Si portò le
mani alle tempie, si tolse gli occhi, si stropicciò gli occhi, inforcò
nuovamente gli occhiali. Quando le gambe sembravano essere tornate stabili
decise di riattivare l'audio. Decise anche di sforzarsi di non guardare Rose,
quella bambina, la sua bambina, sua figlia, troppo a
portata di vista.
“Perché n-non... Non me l'hai...” iniziò a dire Harry, ma non ci riuscì bene.
Si schiarì la voce. “Perché non me l'hai.... detto prima?”
“Ho provato a dirtelo, ma...” disse Hermione, accanto a lui, con la voce
leggermente spezzata. Anche lei non era rimasta impassibile a quel momento.
Lui ricollegò subito, precedendola. “Le lettere...”
“Sì.”
“Non le ho mai aperte. Manco una...”
“Lo so.”
Calò il silenzio. Harry la guardò.
Non sapeva cosa dire, non sapeva cosa fare. Era stato preso in contropiede. Non
poteva crederci.
“Mi dispiace.” disse alla fine, e quella frase gli venne fuori senza che lui
potesse controllarla.
Hermione scrollò le spalle e scosse piano la testa. “No. Non c'è niente di cui
tu debba dispiacerti. Va bene così. Pensavo... Pensavo dovessi sapere... Che
dovessi vedere. Che dovessi vederla.”
Harry spostò lo sguardo di nuovo su Rose, attentamente la studiò. Non riusciva
davvero a realizzare, non del tutto. Il cervello era un po' sconnesso.
“Harry, non lo saprà mai nessuno.” disse lei ancora.
“Ma Ginny...”
“Non sa nulla, come ti ho già detto sa solo che oggi volevo vederti. Sarà il
nostro segreto, Harry.”
“Nessuno ha mai...”
“Nessuno.”
Ancora una volta Harry la guardò. Si perse in quegli occhi. C'erano tremila
cose che voleva dire, che voleva dirle; stava provando così tante cose e voleva
che lei le sapesse tutte.
Ma non c'era bisogno di parlare. Hermione in quel momento lo guardava di rimando
ed era come se stessero parlando. Gli lesse nella mente e capì tutto, come
sempre, come aveva sempre fatto.
In un secondo Harry la baciò piano, a fior di labbra, e poi si alzò dalla
panchina.
Sapevano che era arrivato il momento dei saluti.
“Le parlerò di te, quando incontrerà il tuo nome sui libri di scuola,” gli
disse Hermione, sorridendo, ma Harry sapeva che stava lottando per impedire che
le lacrime sgorgassero dai suoi occhi, “Le parlerò di te e capirà quanto sei
fantastico, che amico fantastico eri. Saprà chi sei. In un modo o nell'altro.”
Harry le sorrise. Le fece un sorriso vero, a trentadue denti.
“Grazie.” le disse soltanto, sincero. Hermione annuì e si guardarono ancora per
un'altra volta. Harry temeva di non riuscire più a scollarsi da quello sguardo
tanto amato, ma si impose d'esser forte.
Dunque si voltò, dandole le spalle, ed iniziò a correre.
Non voleva camminare lentamente, perché non voleva vedere, e perché temeva che
quella lentezza avrebbe potuto insinuare in lui delle indecisioni e dei ripensamenti.
Era meglio scappare, andare via, lasciarsi tutto indietro. In quei momenti si
concentrò solo sullo slancio delle gambe e nella strada a ritroso verso
l'uscita non pensò assolutamente a nulla. Non che lo facesse di proposito: La
mente era come annebbiata.
Arrivò all'ingresso di Hyde Park con il fiatone.
Ginny, seduta lì vicino su un muretto, lo vide arrivare e si alzò di scatto.
Harry le si parò davanti e lei individuò il suo sguardo sconvolto, ma non fece
domande. Lui si fermò respirando a grandi boccate, per riprendersi, e non seppe
né cosa dire né cosa fare, di nuovo. Ma fu lei a decidere per lui. Gli sorrise
e disse:
“Vieni, andiamo via da qui.”, offrendogli la propria mano.
Lui la prese e strinse forte quelle dita sottili fra le sue. Non se la sentiva
ancora di ricambiare il sorriso. Insieme, mano per mano, si allontanarono da
quel parco.
“Non sono sicuro di voler mangiare.” annunciò Harry, e si sentì proprio un vero
idiota.
Ginny rise. “Ma quanto sei stupido?”
Parecchio, pensò lui.
Sul marciapiede chiuse leggermente gli occhi mentre camminava, riuscendo di
nuovo a pensare.
Si sarebbe perso tante cose. Gli sarebbero mancate per sempre, tantissimo.
Hermione.
Non l'avrebbe mai più dimenticata. Mai, mai più.
Rose.
Lei avrebbe saputo chi era. In un modo o nell'altro. Già.
E poi tutti gli altri.
Harry decise di concentrarsi sulle mano di Ginny, e riaprì finalmente gli
occhi. Londra gli si apriva davanti, e lui era lì. Con lei.
Si voltò a guardarla e finalmente decise che era venuto il momento di ricambiare
il sorriso di prima.
QUESTA è la canzone dalla quale ho preso spunto per il titolo: http://www.youtube.com/watch?v=HClZwFNNMKs
Mentre QUESTA è la canzone dalla quale è partito TUTTO, che mi ha ispirato e che mi ha accompagfnato durante la scrittura. Vi consiglio di cercare la traduzione: http://www.youtube.com/watch?v=aPbcXiSSLg4
:) <3