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Autore: Liz_95    26/12/2012    2 recensioni
“Se è vero che la natura umana è fragile e contraddittoria, è vero allora che non si può fermare l’amore per ciò che ti fa sentire amata, ed io dopo tanto tempo ero di nuovo amata.”
Dopo quel giorno nella foresta, Edward se n’è andato e non è più tornato indietro.
Bella è rimasta da sola, abbandonata nelle macerie di un cuore ferito, con un corpo incapace di sentire di nuovo.
Con Jacob, il suo dolce e paziente Jake, la luce di una vita quasi dimenticata sembra tutto d’un tratto più vicina.
Non cedere al suo amore è quasi impossibile.
Ma che cosa succederebbe se in un giorno di pioggia Edward facesse ritorno nella cittadina di Forks? Come reagirebbe Bella, divisa tra la fedeltà al suo nuovo fidanzato licantropo e il suo indelebile amore per il vampiro?
Storia ambientata dopo i primi eventi di New Moon, la mia personalissima versione degli eventi che vedrà i nostri tre amati protagonisti impegnati in nuovo, complicato triangolo amoroso.
* EDIT: SISTEMATO PROBLEMA CON I CAPITOLI: ORA SI PUO' LEGGGERE IL PROLOGO.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Jacob Black, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Ciao a tutti.
Spero che il vostro Natale sia stato sereno e felice, che le vostre vacanze stiano procedendo al meglio; per adesso, le mie sono un vero disastro, ma non importa.
Mi sembra giusto scusarmi con tutti voi per il ritardo dell’aggiornamento, non so precisamente quanto tempo è passato dall’ultima volta, ma di sicuro è troppo.
Spero però che capiate quanto la scuola, soprattutto il penultimo anno di un liceo classico, sobbarchino di impegni e di compiti, così tanti che non ho avuto il tempo per scrivere, la mia valvola di sfogo che mi fa respirare.
Ora che c’è un po’ di spazio in più avrò la possibilità di portare avanti la storia, e con lo stallo di tutto Gennaio per permettere i recuperi, vi giuro che mi impegnerò ad essere più puntuale.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto e aggiunto tra i preferiti\seguiti, ma soprattutto chi ha recensito; lo so, lo so, sono ripetitiva e pesante, ma davvero, leggere i vostri commenti è qualcosa di così bello e speciale, scalda l’anima, e mi farebbe davvero tanto piacere se chi legge se la sentisse di darmi una sua opinione.
Ci conto ok?:)
Ci vediamo presto, giur giurello.
Buona lettura
Liz.

Capitolo 3.


“La paura del dolore l’aveva tenuta al suo posto.”
Ian McEwan
 

Il soggiorno è vuoto, non c’è nessuno.

Una casa intera tutta per noi.
Mi precipito vero le scale, faccio i gradini due a due.
E’ tornato, finalmente è tornato.
Ho bisogno di vederlo e dirglielo chiaro e tondo, che il mio corpo è inutile senza il suo da toccare, senza le sue labbra da baciare, che non è reattivo, non è sensibile a nulla come lo è alla sua pelle.
Che non ci può essere più vita senza di lui.
La porta della camera è socchiusa, dallo spiraglio di luce si diffonde leggero un vecchio pezzo per pianoforte.
Sorrido.
Mi ha sentito, mi sta dando il suo benvenuto.
Spalanco con forza lo stupido pezzo di legno che ci divide, ogni particella della mia pelle freme e trema; dio quanto mi è mancato.
Vuota.
E’ vuota, la stanza è vuota come lo è tutta la casa.
Non c’è nessuno.
Al centro del grande tappeto dorato, un pianoforte nero e lucido, di quelli che si vedono sotto i riflettori di un palcoscenico di teatro.
I tasti neri e bianchi si muovono da soli, spargendo nell’aria il loro muto messaggio.
“ Ah, Bella.”
Una mano, fredda come l’inverno, si posa sulla mia spalla.
Quello non è il suo profumo.
La chioma rosso fuoco e gli abiti strappati, Victoria tiene la mia spalla sotto la sua morsa ferrea, mi pressa le ossa come fossero argilla.
“Te l’avevo detto che se ne sarebbe andato.”
Un ghigno profondamente soddisfatto le apre le labbra sopra i canini affilati, mi afferra anche l’altra spalla, portandomi a pochi centimetri dal suo viso.
Davanti ai suoi occhi improvvisamente neri, persi in un futuro ormai deciso.
Davanti a degli occhi anche troppo familiari.
“ Io l’ho visto.”
E nelle iridi ambrate di Alice Cullen, Edward sparisce oltre la foresta.
 
“ Bella, va tutto bene, sono qui con te.”
Dovevo per forza essere dentro casa, perché faceva caldo e i mie capelli erano di nuovo asciutti.
Il buio dentro la mia testa vorticava incessantemente, ogni punto di riferimento era stato cancellato.
Qualcosa ai confini della mente cercava di ritirarsi verso luoghi sempre più oscuri, non si voleva far vedere.
Un’indefinita sensazione di incompiuto si mescolava alla nausea acida che mi premeva in gola; non ero riuscita a fare quello che avrei dovuto.
“Bella, apri gli occhi, forza.”
Non ero abituata a questa confusione, non ero abituata al tremore che esplodeva ad intermittenza in tutti i muscoli.
Almeno, non lo ero più.
A livello fisiologico avevo imparato a gestire il mio corpo, e ormai esso non era altro che un mero strumento della mia mente, controllato in tutto e per tutto, senza una possibile via di fuga.
Probabilmente era una delle grandi utopie dell’uomo quella di annullare la libertà indomabile dei sensi, ma se avessero saputo  che l’unico sedativo in grado di avere successo era il dolore, probabilmente il prezzo da pagare sarebbe risultato fin troppo alto.
“ Bella avanti, torna da me piccola.”
Qualcosa di pungente irritò la pelle della mia guancia, la sentii scaldarsi e pizzicare.
Fiato caldo, odore di birra.
Aprì gli occhi di scatto.
“Bella!”
Affondai la testa in quella camicia morbida, la sua pelle sapeva di dopobarba al mentolo.
 “Charlie? ”
Era vivo, era vivo.
La corsa sotto la pioggia, la rivelazione di Jake, il ritorno di Victoria, il biglietto sopra il mobile del soggiorno …
“Sto bene, non ti devi preoccupare.”
I ricordi facevano a gara per invadere la mia mente, sotto le palpebre chiuse rivivevo le ultime ore passate come se fosse il film della vita di qualcun altro.
“ Cosa ti è saltato in mente Bella? Correre da sola fino alla stazione di polizia?  Grazie a dio uno degli amici di Jake si trovava da quelle parti, e appena ti ha visto ti ha riportata subito a casa …”
“Dove eri … non c’era … il giubbotto …”
Mio padre mi staccò dal suo petto e mi prese per le spalle, seduto sul bordo del divano accanto alle mie gambe.
“Bella, te l’ho scritto, ti ho lasciato un biglietto. La sig.ra Anderson aveva sentito dei rumori sospetti nel suo garage, e mi ha chiesto se andavo a dare un occhiata. Lo sai che vive da sola, e ormai ha più di ottant’anni.”
Si protese verso il piccolo tavolino della televisione e mi appoggiò vicino al petto un foglietto di carta, l’inchiostro nero tutto colato ai bordi, umido di pioggia.
“ Vedi? Ce l’avevi anche in mano, non capisco …”
Mi nascosi dentro l’abbraccio goffo di mio padre, protetta dalla barriera delle palpebre sugl’occhi brucianti. Tutti quei pettegolezzi, tutte quelle occhiaie malamente nascoste, tutti quei sospiri seccati, era stato così facile far finta di non vederli, dimenticarli indifferente.
Perché non mi era mai realmente interessato quello che gli altri pensavano, nemmeno se il soggetto dei loro “no” ero io, alcune volte avevo anche sorriso pensando a quanto dovessero essere miserabili le loro vite se perdevano tempo ad analizzare quelle degli altri.
L’unico mio pensiero era per Charlie, costretto a subire le false pacche sulle spalle dei suoi colleghi impietosi per la figlia malata, lui, un uomo così orgoglioso e tutto d’un pezzo, abituato a vedere la disperazione negli occhi degli altri, non riflessa nel suo sguardo.
Ma il dolore è egoista, e alla fine avevo deciso di fare ciò che era meglio per me, cieca ma protetta nella nebbia di giornate sfumate nell’infinito.
Adesso però il disgusto e il rimprovero non provenivano da vicine di casa impiccione o compagni di classe annoiati, era un boccone amaro che risaliva dalla gola, ed era solo e tutto mio.
Ero stata così ansiosa, persa, schiacciata, pazza, da vedere indizi e sicurezze lì dove c’era solo un biglietto e una vecchia ottantenne spaventata.
Il mio scopo dopo quella sera nel bosco era stato perdere la presa sulla realtà, ma non avevo preso in considerazione il fatto che avrei cominciato a vivere in una fantasia malata, fino a  perdere il controllo.
“ Bella, hanno bussato alla porta.”
Staccai le braccia dal collo di mio padre e lui si trascinò pesantemente fino alla porta.
“Ciao Russell.”
Una voce gutturale e profonda rimbombava dall’uscio di casa fino al soggiorno, i sospiri di Charlie erano rumorosi come eco di tempeste lontane.
“ Si, l’ha trovata un ragazzo della riserva. Di a tutti che possono tornare a casa, li ringrazierò domani.”
Qualche altro scambio di parole, poi il tonfo della porta che si chiudeva.
Sentii Charlie fermarsi in corridoio, silenzioso e immobile com’è solo quando è preoccupato.
“Ordino una pizza ok? Così non serve che cucini.”
Mi guardò negli occhi solo un attimo, appoggiato con una mano sull’appendi abiti di legno, 
poi girò la testa verso la cucina, per non mostrarmi il volto.
Ma quell’attimo bastò.
Perché quella era un’espressione che conoscevo troppo bene, anche se non la potevo più vedere. Le labbra strette, chiuse così forte l’una sull’altra da diventare quasi bianche per lo sforzo, gli occhi stretti in due fessure, non per la rabbia, ma in un estremo tentativo di arginare le lacrime, e la fronte, un’ inquietante distesa di grinze che premevano sulle sopracciglia, mentre la disperazione e l’inadeguatezza gli scavavano le guance.
L’avevo vista così tante volte, nella penombra della mia stanza, quando le mie urla ghiacciavano ancora l’aria, e mio padre soffriva, guardandomi perdere i sensi in una foresta nera d’addio.
Una foresta nera d’addio, piena solo del suo profumo.
Mi tolsi la coperta dalle spalle e barcollando corsi verso la porta.
“Bella? “
Le chiavi della macchina erano ancora sopra il mobile della cucina.
Mi misi anche le scarpe, fuori pioveva a dirotto.
“Dove credi di andare? Riesci a malapena a stare in piedi!”
La mia mente lavorava frenetica ora, ogni pezzettino si era finalmente unito e il puzzle che ne era riuscito aveva un solo, enorme pezzo mancante.
Avevo capito, dovevo vedere.
“ Non te lo permetto, rientra subito.”

Forse era meglio se prendevo anche le chiavi di casa; non ero sicura che mi avrebbe riaccolto  tanto facilmente, dopo.
Mio padre mi afferrò il braccio, e questa volta ogni poro della sua pelle grondava rabbia e divieto.
Lo avrei ferito ancora, ed ancora, ed ancora, all’infinito.
“ Lasciami.”
Mi agitai nella sua presa, forse urlai anche qualche parolaccia.
Doveva lasciarmi, dovevo andare.
Non era possibile.
“ Sono stanco di tutto questo Bella, sono stanco dei tuoi sbalzi d’umore e sono stanco di tutti questi segreti, di queste tue azioni insensate. “
Mollò la presa sul mio giubbotto.
“ Sono passati tre anni ormai Bells, e questa cosa …. questa tua depressione, non è normale. Hai bisogno d’aiuto, e non intendo più lasciar scorrere. Se uscirai da questa porta, non ti lascerò più entrare.”
Tanto tempo fa mi ero sentita forte, un pieno di coraggio e tenacia, seduta in mezzo a quella radura guardandolo brillare, ma dopo di lui non c’era stato più niente, più nessuno per cui valesse la pena di rischiare, così non ce la feci, da codarda non riuscì a guardare mio padre  negli occhi mentre lo lasciavo ancora da solo.
L’ultima volta mi ero ripromessa che sarebbe stata l’ultima, che mio padre non sarebbe stato mai più la vittima dei mie problemi, che nessun’altro si sarebbe fatto male perché non riuscivo a gestire la mia vita, ma avevo saputo fin da principio che era una menzogna.
Se ci fosse stata in futuro un’altra remota, improbabile e evanescente possibilità di riaverlo, sapevo che avrei pagato qualsiasi prezzo, senza riserve.
Il motore del pick up era freddo, quasi morto sotto la pioggia, e ci vollero più di tre tentativi per riportarlo in vita, ma alla fine misi in moto e partì, sotto lo sguardo bruciante di mio padre dalla finestra.
Com’era facile vanificare anni di sforzi, anni di autocontrollo, anni di dura disciplina; nulla, non erano serviti a nulla.
Percorsi il breve tratto di strada come se fosse naturale per me ritrovarmi lì, come se non fosse passato giorno senza che i miei occhi avessero visto il pino leggermente inclinato dopo il cartello verde, o il guardrail ammaccato sotto il palo della luce.
Dritto, dritto, dritto, sinistra e poi destra.
Senza dubbi, senza fermate.
Poi lo vidi in lontananza, il piccolo sentiero che si infiltrava nel fogliame, solitario e scuro come lo era sempre stato.
La vegetazione era leggermente più folta, qualche ramo scendeva a toccare il suolo, creando un pittoresco arco intrecciato.
Un filo di vecchie lucine bruciate era ancora tutto aggrovigliato al primo tronco che dava sulla strada.
In quella ultima notte, aveva illuminato di rosa il mio compleanno.
Misi la freccia, e cambiai carreggiata senza neppure controllare se ci fossero macchine dietro.
Un attimo prima eccomi quasi lì, all’imbocco deserto, e un attimo dopo eccola lì, vestita di marrone e verde come il paesaggio alle sue spalle.
Inchiodai a qualche metro dalle sue gambe, ma lei non si mosse, immobile.
L’abitacolo si riempì dei miei sospiri affannati, il finestrino si appannò diventando bianco.
Restammo a fissarci per qualche minuto, divise da un parabrezza sporco di smog.
Poteva essere l’ennesimo frutto della mia immaginazione impazzita, poteva svanire in pochi secondi e lasciarmi più amareggiata di prima, poteva farmi uscire di senno e farmi cadere completamente, ma ondate di calore si riversavano dalla mia anima in tutto il corpo, e non volevo svegliarmi.
Lei era così fredda, cristallizzata nella sua eternità, e io ero così …
Io ero così disgustata da me stessa.
Ero così felice.
Non si preoccupò nemmeno di mantenere le apparenze umane, vinse la forza di gravità e nel giro di un battito di ciglia mi aprì lo sportello, l’aria fredda mi investì incollandomi al sedile.
Sollievo.
Si, principalmente ero mossa dal sollievo, perché quando mi gettai addosso a lei, gli ultimi tre anni della mia vita le rimbalzarono addosso, e io me ne liberai tutto d’un fiato.
Per un attimo cedetti ogni più piccola particella di me stessa al vuoto, e restò solo il suo profumo, i suoi capelli morbidi sulla mia spalla, e nient’altro che lei.
Di nuovo lei.
“ Avevo visto che saresti andata addosso all’ultimo albero del vialetto, ho pensato che sarebbe stato meglio risparmiartelo.”
Quelle che cadevano dai miei occhi dovevano per forza essere lacrime, e sentendole bagnarmi le guance, mi misi a ridere estasiata.
Lacrime, stavo piangendo.
Le salutai come vecchie amiche, e godetti della sensazione rigeneratrice di quelle piccole perle salate, che discrete ripulivano la mia anima di ogni pezzettino di rancore, odio, paura, dolore, e le riversavano sulla sua maglietta leggera.
Non piangevo più da tanto, tanto tempo.
“ Vieni.”
Mi prese in braccio e mi posò sul sedile posteriore della macchina, poi si sedette accanto a me, accarezzandomi la schiena.
Io piangevo, piangevo e ridevo tra le lacrime, assorbendo ogni particolare del suo viso, come se ce ne fosse bisogno, come se fosse cambiata.
Le stesse guance piene, gli stessi capelli color dell’ebano, gli stessi occhi dorati, lo stesso naso piccolo e all’insù.
“Alice.”
Mi tenne stretta a sé, ignorando i brividi del mio corpo, come se neppure lei potesse sopportare l’idea di lasciarmi andare.
Non mi importava di tutte le conseguenze che avrei dovuto subire, in quel momento, di nuovo tra le braccia della mia migliore amica, sembravano lontane ed insignificanti, senza peso.
Per la prima volta, mi godetti il presente, e basta.
“ Bella, smettila di piangere, o ti disidraterai.”
“ Non ci riesco.”
Più che un lamento, la sua fu una risata nascosta tra i sospiri.
Udire la sua risata squillante, poterla toccare, abbracciare, parlarle, sembrava tutto così simile ai miei sogni, tutto così inquietantemente meraviglioso.
“Mi sei mancata così tanto.”
La strinsi a me, e lei mi lasciò fare, fingendo di non essere nettamente più  forte e controllata di me, senza il minimo cenno di disagio o esitazione mentre premevo il suo viso sulla mia pelle.
I suoi occhi restarono dorati e liquidi.
“ Hai freddo.”
Si allungò fino al posto di guida e accese il riscaldamento.
La ventola prese a girare rumorosa, tossicchiando aria calda dalle bocchette.
Restammo in silenzio, Alice rivolta verso il finestrino, io in lotta contro tutti i ricordi che la sua pelle fredda mi trasmetteva ad intermittenza, cercando un modo per evitare di parlare, di chiedere, di sapere.
Mentii a me stessa, feci finta che non mi interessasse, seppellì sotto strati di nuovo ritrovato equilibrio quell’insidiosa e tremenda domanda che mi pungeva il cervello, senza sosta, lasciandosi dietro bubboni pulsanti e ferite sempre aperte.
 “ Fra poco farà buio, non è il caso di restare qui. “
Non avevo ancora riaperto gli occhi, ma mi bastò avvertire l’improvvisa rigidità nei suoi muscoli per ricostruire il suo sguardo indagatore nel futuro.
“Dai, ti riporto a casa.”
Chiusi di scatto la bocca.
“Alice, in realtà non credo che Charlie …”
“Tranquilla, non ti parlerà per una settimana, ma poi gli passerà.”
Non le chiesi neppure come facesse a sapere della mia litigata, da tempo ormai avevo smesso di meravigliarmi della sua onniscienza.
Si mise al posto di guida, e prima che accendesse il motore, scavalcai il sedile e mi sedetti davanti, appoggiando la testa sulla sua spalla.
Lei si limitò a sorridermi, tenendo gli occhi fissi sulla strada.
Il ticchettio della pioggia faceva da colonna sonora al nostro silenzio, e io decisi di lasciare che Alice mi convincesse che andava tutto bene, che l’ansia nascosta sotto la gioia fosse solo passeggera, trascurabile.
Così neppure la vista di Jacob, immobile sull’uscio di casa mia, riuscì a far riaffiorare la tristezza, e tutto ciò a cui riuscivo a pensare è che in qualche modo avrei sistemato le cose.
“Chi è quello?”
“Un amico.”
Aspettai che Alice scese dalla macchina, e mi incamminai verso il vialetto con il suo fiato profumato sul collo.
Jacob rimase impassibile e rigido alla vista della nuova ospite, come se non la conoscesse, o non gli importasse di chi era, di cosa rappresentava.
“Ciao Jake.”
Fu il suono della mia voce a rompere la facciata che si era costruito con tanta cura, e tra i tremori del suo corpo scorsi le tracce d’una imminente trasformazione dove potersi liberare della rabbia e del dolore.
“ Ah, adesso capisco tutto.”
Alice rimase tesa al mio fianco, il naso arricciato in una smorfia di disgusto, ma lo sguardo concentrato sul viso di Jacob, illuminato da una rivelazione.
Mi si avvicinò e parlò concitata, mettendomi un braccio intorno alla vita, come a proteggermi.
 “In questo periodo ho cercato di tenerti sotto controllo, so benissimo quanto tu sia propensa a finire nei guai, anche se avevo giurato…ma non sono mai stata brava a mantenere le promesse. Ogni volta però che cercavo di vedere oltre, qualcosa mi bloccava, enormi buchi neri impossibili da aggirare. Ti vedevo pulire la vasca, preparare lo zaino, cucinare per Charlie, ma niente di più.”
Poi indicò con la mano Jacob, fisso sui nostri corpi allacciati come se avesse davanti il più nauseante degli spettacoli.
“ Adesso ho capito che è tutta colpa del tuo amico, evidentemente non sono in grado di vedere quelli della sua specie…”
La bloccai meravigliata.
“Come fai a sapere…”

Alice si sfiorò il naso con un dito.
“Diciamo che i licantropi non hanno un buon…odore.”
Jacob si mosse impercettibilmente verso di me, l’aria attorno a lui vibrava di disgusto.
“Lo stesso vale per me, succhiasangue.”
Alice,controllata e sicura dopo i primi momenti di smarrimento, cercò di guidarmi dentro casa, ignorando i ringhi furiosi di Jacob.
“Andiamo Bella, ci sarà il momento per le spiegazioni. Charlie sta per uscire.”
Mi lasciai trascinare, ma quando passai vicino a Jacob mi attaccai alla sua maglietta.
Lo avevo trattato così male, eppure lui era tornato a proteggermi.
“ Ti chiamo ok? Non ti preoccupare, va tutto bene.”
Lui prese le mie mani tra le sue, se le portò alle labbra come faceva sempre per riscaldarmele.
Avevo dimenticato quanto fossero morbide, quanto fossero belle.
“ Bella, ti prego, non entrare. Non è sicuro.”
La presenza di Alice premeva invitante dietro di me, ma quello di Jacob era il viso al quale mi ero abituata negli ultimi tre anni, e la mia fronte finì accanto alla sua come attratta da una corrente magnetica, invisibile.
“Ho bisogno che ti fidi di me, non accadrà nulla.”
Non ero abituata a rincuorarlo, era sempre stato suo il compito di rassicurare, di riportare la calma.
Non ero brava in queste cose.
Con gentilezza aprii la presa ferrea di Jacob sui miei fianchi, sollevando una ad una le forti dita abbronzate.
Del ragazzo rabbioso e furente di qualche minuto fa non c’era più traccia.
“Bella, andiamo.”
"Ti voglio bene."
Un ultimo sorriso sforzato, poi presi la mano che Alice mi offriva.
L’ultimo disperato grido di Jake mi arrivò attutito attraverso la porta chiusa, ma lo sentii lo stesso, pesante di rancore e fiducia infranta.
“Lui non ritornerà Bella, se n’è andato!”
“Bella!”
Charlie sbucò dalla cucina, il cellulare premuto sull’orecchio.
Intravidi solamente di sfuggita la sua espressione sorpresa, perché la mia attenzione era tutta su Alice e la smorfia di pura disperazione che le deformava il volto perfetto.
Non disse nulla, ma sapevo che l’aveva sentito, e nelle sue parole non dette ritrovai la stessa verità di Jacob.
Sarà come se non fossi mai esistito.
Edward manteneva sempre le sue promesse.
  
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