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Autore: Melian_Belt    27/12/2012    8 recensioni
"Ho sempre guardato gli altri dall’alto in basso, disgustato dalla loro semplicità, dai loro aspetti banali, chi è questa creatura che in un momento di mia simile debolezza mi sta davanti?
Accenna un sorriso sulle labbra sottili, gentilezza ed eleganza solo nel modo in cui mi tende la mano guantata. Dev’essere l’alcool che mi fa sentire così in soggezione, che fa battere il cuore contro la cassa toracica, proprio a me che sono un’inarrestabile macchina da guerra, fatta per schiacciare gli altri sotto le scarpe."
Per chi mi conosce, prima ero Melian92! Buone feste a tutti!
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Mi sveglio quando un colpo di tosse mi sconquassa il petto, lasciandomi per un istante senza respiro. Un gemito mi sfugge dalle labbra al mal di testa e alla nausea, mi giro cercando invano di far smettere questa sensazione del mondo sottosopra.
Il mio viso affonda in un cuscino morbido, il cui odore mi è del tutto straniero. Ricordi molto vaghi galleggiano nella mia mente, sempre che siano ricordi e non strani sogni. Con un po’ di fatica apro gli occhi e corrugo la fronte: dove sono finito?
Mi tiro a sedere, mettendo bene a fuoco la stanza appena illuminata da una lampada, la cui luce arancione soffonde le pareti di un modesto pesca. È un salottino, se non piccolo nemmeno grande, con mobilia di buon gusto ma modesta. Non faccio in tempo a preoccuparmi troppo a lungo per essere in un luogo assolutamente estraneo, perché una voce profonda ma piena di tonalità mi fa sobbalzare: “Ben svegliato”.
Un uomo si staglia poco avanti ad una porta, che da su una stanza da letto. Accenna il fantasma di un sorriso e mi fa un cenno verso il tavolino in vetro, posto poco lontano dal mio gomito. Ci sono una bottiglia d’acqua ancora sigillata e una scatoletta di aspirina, pure quella quasi intoccata.
“Ho preferito non toccare niente…” dice con voce pacata, apparentemente non disturbato dall’avere uno sconosciuto sul proprio divano. “…forse così potrà fidarsi. Non ho intenzione di avvelenarla”.
Il ricordo di me, sulla cima di un ponte, mi fa bollire il sangue per la vergogna: “Non doveva disturbarsi”.
Inarca appena un sopracciglio, guardandomi con sguardo profondo ma senza giudizio: “Nessun disturbo”.
Con cautela, porto le gambe giù dal divano e mi siedo composto, facendo cadere la coperta che mi avvolgeva. Il mio cappotto è piegato sul bracciolo e lo prendo, senza distogliere lo sguardo dall’uomo, che invece non mi bada.
Guarda fuori dalla finestra come se io non ci fossi, mi ritrovo ad osservarlo con uno strano fascino. Non ho mai visto occhi così, hanno un colore profondo e luminoso, per quanto offuscati da una pacata serietà, con una forza espressiva che li rende ancora più destabilizzanti. Ha un bel viso, coperto da una curata barba nera, mentre i capelli, pur pettinati e non lunghi, sono lasciati al loro destino, lucidi come piume dei corvi che cadono sulla pelle di un pallore non malato, marmoreo.
Solo dopo un po’ pare accorgersi della mia analisi e quando incrocia il mio sguardo provo la strana sensazione di cadere a precipizio. Non sorride con tutta la bocca, ne solleva appena un angolo:
“Ha molta fretta”.
Ho le dita già strette intorno al cappotto e annuisco, tirandomi in piedi nonostante la nausea.
“Ho disturbato anche troppo...mi scusi”.
“Non sa nemmeno dove siamo” una nota ironica tinge la sua voce e ridacchia, un rombare che trema nel mio stomaco e mi fa sentire gelatina.
“Prenderò un taxi” borbotto, innervosito senza nemmeno un perché.
“La vigilia di Natale?”.
Sospiro, passandomi una mano tra i capelli. “In qualche modo farò…non ho fretta”.
Lo sento fare qualche passo, con calma ma senza pesantezza: “Nessuno l’aspetta?”.
Irritato, afferro la maniglia dell’uscita senza guardarmi alle spalle: “Non sono affari suoi”.
“Strano…” lo sento commentare. “…un uomo importante come lei”.
Spalanco gli occhi e mi giro, trovandomelo molto più vicino di quanto avrei pensato. Quest’uomo mi conosce? Non è possibile, un viso simile lo ricorderei. Fa un altro passo e io mi ritrovo con la schiena contro la porta. La mia mano si abbassa sulla maniglia, ma non si muove niente.
Mi sento in trappola, imprigionato dai suoi occhi illuminati dalla lampada, dalla sua ombra imponente e nera, come il golfino che ne intrappola il petto ampio, ora quasi poggiato contro il mio. Continua a sorridere, quel suo mezzo sorriso che non riesco a decifrare.
“Un uomo della sua famiglia, di bell’aspetto, strano che non sia richiesto da ogni dove. Un uomo con il suo lavoro stimato, con uno stipendio invidiabile…”.
Combatto il magone che mi ostruisce la gola, per la prima volta dopo non so quanti anni in soggezione: “Come…come fa a sapere queste cose?”.
“È semplice” risponde tranquillo, il viso vicinissimo al mio. Una sua mano si poggia da qualche parte vicino al mio fianco, il suo braccio mi intrappola. La sua voce mi trema nell’orecchio, di nuovo le mie gambe oscillano: “Perché prima al suo posto c’ero io”.
Il fiato mi si blocca e lo guardo ad occhi sbarrati, per la prima volta riconoscendo dei lineamenti che ho intravisto in foto, non più di un anno fa. Con la barba, senza la giacca e la cravatta, non l’avevo minimamente riconosciuto. Negli scatti presenti su vari siti, il colore dei suoi occhi non aveva giustizia, mi era sempre sembrato nero. E lo devo ammettere, non avevo badato ad altro se non ai modi per distruggerlo, tirarlo a terra per salire al posto suo.
“R-Richard Walsh?”.
China appena il capo, in un cenno di assenso.
Il mio cuore batte al punto da ovattarmi le orecchie. Non mi sono mai ritenuto un codardo, ma quest’uomo ha più ragioni di tutti di volermi male. Non è stato facile far licenziare un professionista dal curriculum impeccabile come il suo, la cui abilità era quasi leggenda nell’azienda. Ho ricorso ai trucchi più spregevoli in mio possesso, alla fine l’ho ridotto completamente sul lastrico, di lui non si era sentito più nulla. Il Natale deve avere un malsano senso dell’umorismo: perché devo essere finito proprio in casa sua?
La sua mano si sposta, ma io sono troppo teso per muovere un muscolo. Forse dovrei reagire, colpirlo e cercare di scappare, ma la porta è chiusa e io non ho la minima idea di dove trovare le chiavi. E anche se non è massiccio, è dannatamente alto, dalla sagoma forte e salda.
“Senta…” mi esce un sussurro e mi schiarisco la gola. “…non mi pare il caso di fare stupidaggini”.
Inarca le sopracciglia, continuando a torreggiare su di me: “Ma davvero?”.
“Posso farle un assegno, una forma di riparazione…”.
Scuote il capo: “Un assegno, dopo tutto quello che ha fatto? Mi ha tolto il lavoro di una vita, il rispetto…”.
Cerco di mantenere il sangue freddo, ma non è facile al pensiero che nessuno sa dove sono. La sua mano si avvicina alla mia schiena, si incunea tra me e la porta: “Sa cosa dovrebbe fare, per andarsene?”.
Faccio una risposta negativa con la testa, pronto a colpire in caso di bisogno.
Si allontana un poco, gli occhi brillanti di silenzioso divertimento: “Forse, togliersi dal chiavistello”.  

  
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