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Autore: Glenda    18/07/2007    1 recensioni
Lethia Ballard fa l'investigatrice virtuale e viene ingaggiata da una potente corporazione per un incarico delicato: trovare e intrappolare uno scissista, ovvero un pericoloso hacker dotato di poteri esp, che riesce a vagare nella rete scindendo la propria mente dal corpo. Ma l'incontro con Kevin Lockport è diverso da come lo immaginava e l'uomo le rivela qualcosa di completamente inaspettato...Dove porteranno le indagini di Lethia? E cosa c'entra in questa faccenda di inganni e potere l'ingenuo ragazzo biondo uscito da un lungo coma, che fa l'antiquario in una bottega che pare fuori dal mondo e dal tempo? Giallo cyberpunk con elementi sovrannaturali. VERSIONE RIVISTA E CORRETTA DELLA FAN FICTION POSTATA LA PRIMA VOLTA NEL 2007.
Genere: Science-fiction, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo 3

 

Abrham Hollis era ormai diventato la favola della clinica “Bluesummers”: la sua testarda convinzione ora commuoveva ora sollevava questioni morali ora faceva sorridere tutto il personale.

Persino il primario lo aveva convocato a colloquio e gli aveva parlato senza troppa delicatezza: morte cerebrale, coma irreversibile, non ci si poteva fare niente. Ma lui - il composto e riservato signor Hollis - gli aveva risposto che i medici pensavano da medici, un padre pensava da padre, e che lui non avrebbe mai autorizzato l’espianto degli organi, neppure in punto di morte, perché Dewy stava solo dormendo, e presto o tardi si sarebbe svegliato.

Forse in altri tempi, e in bel altre condizioni economiche rispetto alla sua, quella incrollabile speranza sarebbe stata da ammirare, ma di fronte alla certezza di finire presto sul lastrico, con troppi anni sulle spalle per poter ricominciare da capo, e messo di fronte ogni giorno ad uno scenario di cupa desolazione, dove famiglie ben più ricche permettevano che si staccasse la spina ai propri cari, cosa si poteva pensare di quell’ometto canuto che non aveva più un soldo per pagare la tassa sui macchinari che tenevano in vita suo figlio, eppure era sempre lì, a visitarlo, ogni giorno?

La dottoressa Lynch a volte se lo chiedeva.

E la risposta era che non poteva fare altrimenti.

Non poteva sradicare dalla sua mente quella convinzione, finché avesse continuato a venire lì, a sedere al suo capezzale, perché chiunque avesse guardato da vicino - come lei doveva fare ogni giorno, quando controllava i quadri di monitoraggio di quel reparto abbandonato da dio - quel giovane paziente non avrebbe potuto pensare nient’altro che stesse solo dolcemente dormendo.

Dewy Hollis, vent’anni a breve, era stato colpito da emorragia cerebrale quattro anni prima, era entrato in coma e il suo stato non aveva più subito alcuna evoluzione: eppure, a osservarlo, non aveva l‘aspetto di un malato, fosse anche solo per la inspiegabile espressività del suo viso. Aveva lineamenti aggraziati e gentili, labbra lievemente distese, quasi ad accennare un leggero sorriso, e capelli incredibilmente biondi, che in quattro anni erano cresciuti per conto proprio, arricciandosi deliziosamente, orgogliosi del loro dorato splendore.

Suo padre aveva speso per tenerlo in vita tutto ciò che aveva. E adesso aveva ipotecato la casa, che era poi anche il suo luogo di lavoro e la sua unica fonte di sostentamento.

La dottoressa sapeva, anche se non aveva mai avuto occasione di visitarla di persona, che l’ “officina Hollis” aveva avuto i suoi momenti di prestigio, un tempo: Abraham era rimasto uno dei pochi antiquari e restauratori esistenti al mondo, non era un mestiere redditizio, ma se ci si faceva un buon giro di clienti si poteva raggiungere una certa fama. Dopotutto, la moda non inventava mai niente di veramente nuovo, e in certi periodi, quando era particolarmente stanca di esercitare la fantasia per modificare il vecchio, si limitava a ripescare nel passato le cose tali quali erano. Abraham si era specializzato nell’imitazione di mobilio d’epoca, e si era costruito un buon giro di affari tra i cittadini bene di Reole, che non disdegnavano di mandare i loro consulenti immobiliari fino a Seaside Corner per commissionargli armadietti liberty per studi legali e uffici o cucine rustiche per soddisfare il gusto delle mogli. I loro macchinoni lucidi sollevavano la polvere delle strade del vecchio porto commerciale, e talvolta i loro elicotteri privati atterravano sul tetto del palazzo della succursale della Jarret viaggi, facendo volgere in su gli sguardi dei ragazzetti del molo.

Seaside Corner era chiamato anche “l’appendice della città”: una striscia della metropoli protratta sul mare, un tempo prospera, finché il porto che vi sorgeva non era stato rimpiazzato da una struttura più funzionale all’altro lato della città.

Lì, la metropolitana passava con cadenza oraria solo nei giorni feriali, la nettezza urbana prelevava i rifiuti una volta al mese, e persino i quotidiani arrivavano in edicola alle tre del pomeriggio: ma in certi posti - bastava saperlo - si poteva ancora trovare un buco sporco di fumo ed olio dove la gente cucinava cibo “vero”, cibo degno di essere consumato sulle belle tavole di legno che Abrham riproduceva con minuziosa precisione.

L’officina sorgeva poco lontano dal mare: dalle sue finestre, quando i mucchi di immondizia non coprivano la vista, si poteva vedere l’orizzonte, su cui si stagliava in lontananza la sagoma della piattaforma d’estrazione, vanto e ricchezza di Reole. Dà là, le petroliere facevano la spola per il porto, ma non attraccavano nel molo di Seaside Corner: il porto industriale stava dall’altro lato del golfo, e quel che restava del vecchio era ora solo luogo di scalo per contrabbandieri e clandestini. Ogni mattina, Seaside Corner si svuotava: la sopraelevata si copriva di smog, la metropolitana brulicava di piccole formiche indaffarate, e nel quartiere restavano i pochi che avevano la fortuna di lavorare alla Jarret viaggi o alla Gordon import-export, chiara copertura di immigrazioni clandestine e strani traffici. Anche Abrham, da quattro anni, quasi ogni mattina si spostava ma, al contrario del flusso di concittadini che si recavano al posto di lavoro, lui il lavoro lo lasciava, e andava a sedersi per un po’ al capezzale di quel ragazzo biondo, nella clinica Bluesummers, lindo ospedale privato della zona residenziale, abbastanza mal attrezzato e abbastanza poco professionale da pretendere una retta che poteva ancora permettersi.

Ancora per un po’, almeno.

 

- Ciao Dewy...come stai oggi? -

Abrham trascinò lo sgabello in ferro vicino al letto. Il cigolio tagliò l’aria con stridore: in quel silenzio innaturale anche il rumore di un passo poteva suonare fastidioso.

- Fuori è caldo...è una di quelle giornate che ti piacciono. Varrebbe la pena dare un’occhiata, lo sai?-

Aveva sentito tante di quelle strane testimonianze di persone che erano uscite dal coma e riuscivano a descrivere la propria stanza, riferire le voci dei medici e dei parenti, raccontare cosa era accaduto attorno a loro, come se il loro spirito fosse in qualche modo sospeso a mezz’aria nella camera e ascoltasse tutto ciò che veniva detto o fatto. Quelle storie, in un certo senso, lo rasserenavano

Ma Dewy non aveva l’aria di una persona la cui anima vola in giro per la stanza: Dewy sembrava sempre lì, anche se aveva gli occhi chiusi e la stessa espressione da quattro anni. In un certo senso, Abrham avrebbe preferito immaginare il suo spirito staccarsi dal corpo e passeggiare libero per i corridoi.

- Staresti meglio a casa tua. La tua stanza è sempre lì, con la cornice dipinta a acrilico lasciata là, ad aspettare di essere finita. Quante volte ti avrò detto che non si lavora con gli acrilici nella stanza da letto? Sono sostanze che non dovrebbero essere inalate... -

Forse il suo spirito avrebbe dipinto anche quei muri, se avesse potuto. Detestava le pareti bianche. Gli erano sempre sembrate inespressive.

- quando la finirai...quella cornice la venderemo all’avvocato Crispi. Che ne dici? Col ricavato ricompriamo un po’ di cose...Anzi, no. Col ricavato ti porto a cena in centro... -

- Signor Hollis... -

La voce della dottoressa era ormai quasi una rassicurazione. In quel posto che sapeva di morte, le consuetudini erano l’attaccamento alla vita.

Quando tutto si ripeteva identico, voleva dire che almeno nulla era cambiato.

- Mi spiace, l’orario delle visite è... -

L’uomo si era già alzato, stancamente. In quegli anni la sua andatura si era fatta più goffa e incespicante.

- Si, lo so. Sto andando, dottoressa... -

Le fece un debole sorriso di cortesia.

Dewy, col suo viso dolce e i capelli ondulati abbandonati sul cuscino, sembrava ascoltarli da un luogo lontano, senza trovare opportuno intromettersi nella conversazione.

- Signor Hollis, per quanto tempo ancora pensa di... -

- Per quanto sarà necessario, dottoressa... - nella sua voce c’era una solennità pacata, di vecchio oracolo fallito - per legge di natura, i figli sopravvivono ai padri. Dewy ha vent’anni, ed io quasi settanta. Comunque vadano le cose, è giusto che io muoia prima di lui... -

La dottoressa Lynch gli rivolse uno sguardo di rassegnata tenerezza.

- Buona giornata, Abrham - disse

- Buona giornata a lei, dottoressa. Buona giornata, Dewy -

  
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