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Autore: CarlieS    02/01/2013    5 recensioni
Isabella, 18 anni, ha un figlio, Aaron, avuto col suo migliore amico Jacob.
Edward è sposato, 25 anni, specializzando presso il Forks Community Hospital.
Cosa li avrà divisi quasi tre anni prima? Cosa li ha portati a fare queste scelte?
Dal capitolo uno:
“Quello è il figlio di Jake, quando dovrebbe essere il mio, Bella. Il figlio del mio migliore amico e della donna che amo.. mi sento impotente e stupido. E come se non bastasse so che la colpa è tutta mia”. Edward Cullen mi ama. Mi ama nonostante abbia fatto un figlio col suo migliore amico, mi ama nonostante sia sposato.
“Ti.. amo anche io, Edward”, in un attimo, in una misera frase tutto si è cancellato, tutto il dolore è sparito lasciando il posto ad una sensazione di pace travolgente.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Jacob Black | Coppie: Bella/Edward
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Buon pomeriggio a tutti! Come state? Iniziato bene il nuovo anno? <3
Come promesso eccomi qui con il secondo capitolo di Consequence. Se vi state chiedendo da dove ho partorito il titolo del capitolo, prego, ascoltate la canzone da cui mi sono ispirata per questa ff, appunto, Consequence, dei Notwist. La ascolto sempre mentre scrivo perchè mi dà ispirazione e mi manda avanti con la trama LOL
Ho appena finito di scrivere, è veramente lunghissimo, questo capitolo. Ringrazio coloro che leggono e che recensiscono ( Fiamma <3 ) chi le vuole fare compagnia?? ahahah poverina si sente sola. 
E chi inserisce la storia tra le varie categorie, GRAZIE.
Vi anticipo che ho pianto quando l'ho scritto quindi armatevi.
Un bacio, a mercoledì
Sara



Capitolo 2
Potrebbe mai restare con me per l’intero giorno?

 
Io e Aaron abbiamo fatto merenda alla tavola calda, perlomeno io dato che lui ha dormito tutto il tempo, ma sono solo dettagli.
Con Edward non ho scambiato più di una parola dopo l’entrata della moglie dato che sono sgusciata via sperando di non dare nell’occhio.
Giungiamo al motel stanchi e nervosi dato che nuovamente Aaron ha fame e sono costretta a fare tutto velocemente alla piccola reception, anche se non dovrei chiamarla così comunque, per via del piccolo che piange come un disperato ancorato al mio corpo.
Chiudo la porta e mi avvicino al letto dove depongo Aaron – al centro, evitando che si faccia male – e sistemo la carrozzina in un angolo, assieme al mio borsone: infondo non staremo qui tanto ma mi sono armata per qualsiasi evenienza.
“Ssh, amore, ssh”, lo rassicuro mentre gli cambio la tutina verde con quella azzurrina che piace tanto al papà, “Adesso arriva la pappa cucciolo mio”
Non faccio nemmeno in tempo a slacciarmi per bene che già è attaccato e succhia avido quel liquido che lo fa rimanere in vita e che lo aiuta a crescere.
Ricordo che il primo periodo, più o meno due settimane dopo la nascita, non ne producevo.
Nada, nemmeno un goccio. I medici mi dissero che era una cosa assolutamente normale e che prima o poi il latte sarebbe arrivato ma per me fu un vero delirio: avevo frequentato una lezione per le neo mamme dove l’educatrice disse che l’allattamento al seno è anche l’approccio più profondo che il bimbo ha con la madre.
Quando lo allatto mi guarda sempre negli occhi, è una cosa magica, che ci lega ancora di più: mi sento veramente una madre in questi momenti, sento che potrò superare tutto, il dolore, il rancore, la tristezza.. Aaron mi fa sentire forte.
E’ la miglior cosa che mi potesse capitare, dopo l’avvicinamento di Jacob.
 
“Allora ci cambiamo, amore?”
Apre la boccuccia e borbotta qualcosa poi pone gli occhi su di me per stare attento ai miei movimenti: sin dalla prima volta che l’ho fatto ha sempre odiato il cambio del pannolino.
Ma è necessario sia per la sua igiene personale che per il rossore che la stessa stoffa gli procura, mi sono sempre chiesta come faccia a sopportare quel bruciore.
Lo sento singhiozzare e i suoi occhi si riempiono di lacrime ancor prima che cominci a svestirlo.
“Amore dai, non fare così.. ti canto la canzoncina mm? Guarda la mamma, Aaron, guarda la mamma!”
Lui distoglie gli occhi dalla borsa a tracolla contente il necessario per il cambio e mi guarda.
“Ma che bravo il mio lupetto!”, e gli faccio il solletico al pancino, ride e si concentra sul mio viso e sui movimenti delle mie mani.
Tolgo il pannolino sporco, lo appoggio per terra  e mi dirigo in bagno, nel lavandino: qui, tenendolo con un braccio, gli lavo il sedere con il sapone per pelli delicate e con molta cura, lo asciugo con un panno morbido che mi sono portata da casa e me ne ritorno in camera da letto.
Finché gli metto la crema e il borotalco mi concentro sullo stile di arredamento della camera: è un po’ antiquato e leggermente scadente ma i mobili sono puliti e il tappeto – nonostante presenti alcune macchie di vari colori un po’ sbiadite – si capisce che è pulito e senza polvere.
Il bagno non è perfetto ma i sanitari sono puliti e profumati da detersivo al limone.
“Ecco pronto il mio tato!”, esclamo a Aaron che mi sorride di rimando prendendo il mio dito per poi iniziare a giocarci.
Per riuscire a darmi una sistemata sono costretta a deporre Aaron nella carrozzina e portarmelo fino in bagno affinché possa controllarlo senza stare inutilmente in pensiero.
Arrivano le undici e mezza quando esco dal bagno pulita e rilassata e noto con felicità che mio figlio si è addormentato nella sua culla cosa che di solito fa solo in braccio a me e Jake.
Con Aaron che dorme beato ho tutto il tempo per pensare tranquillamente alla giornata appena trascorsa.
Devo ammetterlo, mi ero immaginata di peggio.
Edward mi ama ancora, è una cosa che non mi è mai passata in questi anni neanche per l’anticamera del cervello: diciamo che ho sempre dato per scontato che la sua partenza  fosse stata dettata dal sentimento d’amore che non provava più per me ma mi sono sbagliata anche su questo punto.
Me l’ha fatto anche credere però, lasciandomi senza nulla.
Ricordo che era metà settembre e me ne stavo seduta sul divano assieme a mia madre a guardare uno di quegli stupidi film commedia che danno alla tv il fine settimana, dove ti basta ridere ogni tanto senza seguire la trama, quando l’improvviso suonare del campanello di casa mi fece sobbalzare.
Edward era a una cena con la famiglia per il compleanno della sorella Alice e Jessica ( la mia migliore amica a quel tempo ) era ad un appuntamento con Mike, il suo ragazzo di sempre.
Mi alzai sorridendo a mia madre e attraversai la cucina per spuntare nel piccolo spiazzo davanti alla porta d’entrata.
Era Jacob.
Mi disse solo: “Se n’è andato”, e l’intero mondo mi cadde addosso portandomi con lui nell’abisso più nero e oscuro che potesse esistere.
Non mi lasciò nulla, nessun biglietto d’addio, nessuna spiegazione neppure da parte della sua famiglia.
Se n’era andato così, esattamente com’era entrato nella mia vita.
Come un soffio di vento gelido.
Non devo pensarci, mi dico scuotendo la testa.
Non serve a nulla rivangare il passato, non posso basare la mia vita sulle cose accadute tempo fa e nemmeno su quelle che succederanno in futuro. Devo pensare al presente, al mio bambino e a Jacob che ho paura di perdere, e ai miei genitori che voglio rivedere.
Nel tuo presente c’è anche Edward, Bella, non dimenticarlo.
Lui è il mio presente, lo so.
Lui è stato anche il mio passato ed una parte di me, per quanto piccola questa possa essere, vuole che Edward sia anche il mio futuro.
Il viso della moglie, Marie, appare nella mia mente facendomi ricordare della sua situazione coniugale.
Marie è una bella donna, dal carattere forte e simpatico per quanto abbia potuto parlarci questo pomeriggio, è la donna giusta per lui, bionda ( a Edward sono sempre piaciute le bionde, non quel biondo tedesco, tendente al bianco quasi, ma quello ambrato e color dell’oro ), con un fisico sinuoso dalle curve abbondanti: molti uomini la chiamerebbero la "donna perfetta".
Penso sia veramente così.
Io voglio la sua felicità, non chiedo molto; anche durante questi anni ho sempre pregato Dio affinché potesse dargli una bella vita, una vita felice anche senza di me.
A quanto pare ha funzionato.
Dicono che per la persona che ami sei pronto a sacrificare tutto – anche te stesso – e che in qualche modo vorrai sempre e comunque la sua felicità perché saperla felice, quella persona, ti fa stare bene, ti fa sentire felice.
Ed è quello che ho voluto io.
L’improvviso bussare alla porta mi ridesta dai miei pensieri: è tardi, non penso sia qualcuno che conosco, magari Jake che ha staccato prima dal lavoro e ha deciso di raggiungerci qui a Forks.
Mi alzo dal letto e cammino fino alla porta “Chi è?”
“Sono io”
La sua voce calma e di basso tono mi fa rabbrividire e le mie mani tremano sul legno vecchio e scuro della porta del motel.
“Vattene, Edward, Aaron sta dormendo!”, riesco a pronunciare con fatica: il groppo che sento in gola mi blocca le vie respiratorie facendomi singhiozzare continuamente.
“Isabella”
“No Edward, ho detto di andartene”, ringhio.
Lo sento sbuffare al di là del legno poi prende un respiro profondo, “Starò qui fino domattina allora”, percepisco il fruscio del suo corpo che si siede sul pavimento di linoleum del motel poi più nulla.
Sinceramente non mi va di lasciarlo fuori, la gente parla troppo e i proprietari del motel sono amici sia dei miei che dei suoi genitori ragion per cui dovrò pagarli il doppio domattina affinché se ne stiano zitti e non facciano pettegolezzi per tutta Forks.
Tolgo la catena dalla porta e la apro piano stando ben attenta a non svegliare Aaron che peraltro ha il sonno molto leggero.
Edward si rialza di colpo e mi guarda per un lungo attimo, non sapendo cosa fare o cosa dire.
“Entra prima che ti vedano”, mormoro sbuffando.
Sorride sarcastico e con un velo amaro nella voce dice, “Mi hanno già visto, e sanno in che camera alloggi”
Chiudo la porta con cura poi mi volto verso di lui che osserva senza mostrate alcuna emozione sul viso la carrozzina dove riposa mio figlio.
“Che ci fai qui?”
“Dovevo vederti”, risponde abbassando il capo.
Sospiro, “Dovevo non è il verbo giusto, Edward, e lo sai anche tu”
Lo vedo rabbrividire quando pronuncio il suo nome e capisco l’effetto che ho ancora su di lui e che forse potrà giocare a mio favore. Mi appoggio di schiena al legno ed incrocio le braccia.
“Com’è successo?”, ed indica con un cenno Aaron; so che si sta rivolgendo a me e a Jacob.
Prendo un respiro profondo ed incateno i miei occhi ai suoi, “Come nascono i bambini, Edward? Quando due persone scopano, fanno sesso, o l’amore? La donna rimane incinta e dopo nove mesi puf, arriva la cicogna”, è incredibile di quanta ironia vi abbia messo in questo mio stupido discorso per complicare la situazione.
Le sue sopracciglia si aggrottano e la linea delle labbra diventa sottile.
“Non ho chiesto come si procrea, Bella”, modera il tono della voce e so che per lui è difficile, “Ho solo domandato come siete finiti a letto insieme”
Sogghigno divertita per un attimo poi mi avvicino a lui e mi siedo sul letto.
“Solo grazie a te”
I suoi occhi si fanno scuri e più grandi, increduli, “Stronzate”
“E’ così, credimi. Abbiamo fatto l’amore, la situazione ci è sfuggita di mano, va bene? Non l’avevamo premeditato. Gli voglio bene”, mi limito a dire fissando il pavimento. Ho paura di guardarlo negli occhi, non mi pento di aver fatto l’amore con Jacob, da lui ho avuto Aaron, colui che mi rende felice ogni giorno da quando sono venuta a sapere della sua esistenza, ma non posso negare il fatto che vorrei che quel figlio non sia suo.
“Patetico. Da quanto andava avanti?”
Cammina per la stanza senza mai avvicinarsi alla carrozzina e si porta entrambe le mani tra i capelli.
Questa volta sono io a rimanere incredula: come può solo aver pensato una cosa del genere?
“Ma come cazzo ti permetti? Io non ti ho mai tradito Edward! Non quando stavamo insieme almeno!”, sento le lacrime salirmi agli occhi e so che non vi resteranno all’interno ancora per molto.
“E allora perché?”, si inginocchia all’improvviso di fronte a me, “Ti prego, perché?”, le sue lacrime sono già sbordate dai suoi occhi verdi e corrono giù dal suo viso perfetto, lente per via della barba sfatta.
“Torna da tua moglie, Edward”
“Non voglio”, mi prende una mano e se la porta alla bocca premendovi le sue labbra morbide e rosee.
Stringo forte i denti e la ritraggo portandomela al petto. Non posso permettermi di sbagliare ancora. Non posso favorire il suo amore anziché il bene e l’amore stesso di mio figlio e di Jacob.
Non posso più.
“Non costringermi a buttarti fuori, Edward”
Rimane dov’è e mi fissa tenendo le mani a posto, “Io ti amo Isabella”
Deglutisco e stringo i denti nuovamente infischiandomene del dolore che sento alle gengive e ai denti stessi.
“E’ proprio perché ti amo che voglio che tu te ne vada”, comincio a singhiozzare anche io e mi porto il dorso della mano agli occhi per asciugare quelle lacrime pregne di dolore e amore.
“Sei sposato, sei felice”
“Io non sono felice. L’ho capito solo oggi quando sei entrata nella mia vita. Hai stravolto tutto come solo una tempesta sa fare, hai ridato vita al mio cuore e mi sono accorto che quella felicità che sentivo non si può chiamare tale. Sei tu la mia felicità, Bella, solo tu”
La sua rivelazione mi lascia senza fiato. E’ solo grazie a me che è triste, per questo devo andarmene via. Sapevo che venire qui non era una buona idea, l’ho sempre saputo.
“Ho un figlio, Edward. Un figlio che amo più di me stessa e ho Jacob, non c’è posto per te”, è come infilarsi la punta affilata di un coltello da soli nel petto, ripetutamente, le mie stesse parole mi squarciano gli organi, li tagliano, li riducono a grossi pezzi che si spargono nel resto del mio corpo.
“Non è vero, lo so. Io ci sarò sempre nella tua vita”
Credo abbia bevuto, sembra troppo fuori di se, oppure è solo caduto in depressione. No decisamente no, Edward non è un ubriacone ne una di quelle persone che si lascia trasportare troppo dai sentimenti.
Ricordo che non mi ripeteva mai troppo spesso quanto mi amasse e nemmeno io lo facevo, ci amavamo certo, ma a modo nostro lo davamo quasi per scontato e lo dimostravamo in diversi modi, quasi come se fossimo una coppia sposata.
La relazione con Edward mi ha portata a crescere più velocemente in effetti: essendo un uomo di ventitre anni e io solo una ragazzina di sedici mi aveva portato nel suo mondo, un mondo adulto diverso dal mio adolescenziale, non uscivo più con gli amici, chiamavo Jessica di rado e quelle poche volte che accadeva non scherzavo più così tanto come facevo prima che lui entrasse nella mia vita.
“Edward vai a casa”, sussurro nel silenzio della stanza del motel.
Si alza lentamente da terra e da un’ultima occhiata a mio figlio, “E’ bello, sai? Ha i tuoi occhi”, posa i suoi occhi su di me, “Per il resto è tutto suo padre”, poi si avvicina alla carrozzina ed allunga una delle sue mani affusolate verso il corpicino caldo di mio figlio, “Se penso che potrebbe avere i miei capelli..”, gli sfugge un singhiozzo sommesso che mi fa ricadere di nuovo nel mio baratro personale.
Ricomincio a singhiozzare.
“Te ne sei andato Edward, dovevo continuare con la mia vita”
Mi spavento quando lo vedo avvicinarsi a me e sento il suo profumo entrarmi a forza nelle narici, mi bacia la fronte.
“E’ proprio quello che volevo facessi”, detto questo se ne va via lasciandomi sola ancora una volta come due anni fa.
Volevo se ne andasse e se n’è andato.
Potrebbe mai restare con me.. per sempre?
 
Il mattino vengo svegliata dai gorgoglii di Aaron e dalle sue piccole risate che illuminano la stanza, facendomi sorridere ad occhi chiusi.
C’è solo una persona che riesce a farlo ridere in quel modo, e che riesce a far stare bene me, in quel modo.
“Svegliamo la mamma?”, poi i loro corpi si sdraiano accanto al mio e le manine di nostro figlio mi toccano il viso in quelle che sembrano piccole carezze.
Sorrido.
“Bella”, mi bacia il naso, “Svegliati, Aaron ha fame”
Decido di alzarmi o perlomeno di sedermi per sfamare quel lupetto che mi ritrovo come figlio.
Mi slaccio la camicia e il reggiseno e prendo dalle braccia di Jake, Aaron, che mi guarda con attenzione, poi me lo porto al seno.
“Piano, amore, piano”, gli sussurro all’orecchio con il terrore che per quel suo succhiare veloce e bramoso possa strangolarsi; Jacob viene in mio aiuto ed accarezza con leggerezza e tranquillità la schiena di Aaron inducendolo a calmare i muscoli della bocca.
Sembra funzionare, la bramosia diminuisce ed assume un andamento più lento e sicuro.
Mi volto a guardare Jacob che in risposta mi bacia la fronte con dolcezza e si ferma ad osservare il figlio che mangia con una piccola luce negli occhi.
“Con Clotilde?”
Mi lancia un’occhiata, “Dopo il lavoro ieri ci siamo fermati per un drink”, si alza dal letto e comincia a sistemare il mio borsone e la tracolla di Aaron come un bravo marito e genitore, “Sai.. non è una di quelle donne che pensano solo al sesso.. con lei posso parlare di tutto, proprio come te”, mi dà un po’ fastidio che mi abbia paragonata a lei ma faccio finta di nulla e prendo la camicia di flanella che mi tende Jake, “Quindi state insieme?”, poiché faccio fatica ad indossarla mi corre in aiuto sfilandomi quella del pigiama e infilandomi l’altra.
“Ti metti i jeans?”
Mi passo la lingua sulle labbra, “No tengo questi della tuta”, poi mi alzo con mio figlio in braccio che non ha ancora finito di mangiare.
“No, per il momento, è ancora troppo presto”
Prende la mia spazzola e la passa tra i miei capelli pieni di nodi dopo la notte insonne.
Jacob è un angelo caduto dal cielo, questo è certo, cerca di aiutarmi come può quando ho tra le mani nostro figlio e direi che fa anche troppo.
Indosso le scarpe da ginnastica e, presa la mia borsa mi dirigo verso la reception del motel.
Jake ci raggiunge poco dopo con il borsone e la tracolla.
“Pago io”, mi sussurra all’orecchio e si appresta a pagare il signor Ford che osserva Aaron e Jacob probabilmente collegando la somiglianza che c’è tra i due.
Sbuffo e mi volto per dargli la schiena, infastidita del comportamento infantile e stupido di quell’uomo vecchio e datato.
 
Usciamo dal motel lasciandoci alle spalle ben duecento dollari in più affinché Ford se ne stia zitto assieme alla moglie e per un attimo mi sono pentita di aver scelto questo posto in cui alloggiare.
“Copri il bimbo, fa freddo”, Jake mi passa una copertina color panna di lana con cui avvolgo il suo corpicino caldo ancora impegnato a mangiare.
“Sai”, comincio a dire mentre ci dirigiamo all’auto, nel parcheggio annesso al motel, “Fino a due giorni fa non vedevo l’ora di mettere i piedi qui, Forks mi mancava”, apro la portiera posteriore della Yaris e sistemo la borsa nell’altro sedile, “Ma ora come ora non vedo l’ora di tornare a Seattle, qui c’è troppo grigio”, salgo in auto e mi chiudo la portiera.
Jake ridacchia e mette in moto il motore, “Credo che hai ragione”, guarda nello specchietto retrovisore, “Almeno a Seattle c’è il sole una volta ogni tanto”
Ci dirigiamo nuovamente verso il Forks Community Hospital, assieme a Jacob ho deciso di trasferire Aaron al pediatra di Seattle cosicché diventi più comodo per noi che non dovremmo fare il tratto Seattle – Forks e Forks – Seattle una volta al mese.
Jake è venuto in taxi dato che un’auto per il ritorno già c'è perciò il problema delle macchine separate poi per tornare a casa è inesistente.
A Seattle.
Quando arriviamo, pochi minuti dopo, Jake afferra la mia borsa dal sedile accanto al mio e mi aiuta a scendere dall’auto poi mi mette un braccio intorno alle spalle e ci dirigiamo verso l’entrata dell’ospedale, lui apparentemente tranquillo ed io terribilmente in colpa perché non gli ho ancora detto nulla della mia chiacchierata con il suo migliore amico ieri sera.
“Da quanto mangia?”, si abbassa per posare le labbra sulla testa di nostro figlio.
“Jake”, lo chiamo con la voce tremante, “No, non sta succhiando, lo fa sempre dopo la poppata, sono le nostre coccole personali”, gli spiego, con un micro sorriso tra le labbra.
Lo richiamo, “Che c’è?”, pigia l’interruttore dell’ascensore e poi il bottone per il secondo piano.
Gli racconto tutto, del nostro incontro inaspettato, prima con Marie, sua moglie, e poi con lui, il suo tono freddo e distaccato, la sue dichiarazione e, in seguito, gli snocciolo i particolari più importanti della nostra chiacchierata o litigata, di stanotte.
Rimane zitto per tutto il tempo e sento la stretta della sua mano farsi più forte intorno alla mia spalla, non mi fa male, anzi, mi fa sentire al sicuro.
“Vuoi che ci parlo io?”, ci dirigiamo verso pediatria ora tesi tutte e due e dal momento che non c’è nessuno in sala d’attesa bussa con la mano non occupata alla porta dell’ambulatorio.
La mia tensione cresce inesorabile quando due voci ci invitano ad entrare.
Non entriamo separati, ma insieme e i nostri corpi rimangono collegati dalla sua stretta alla mia spalla e dalla sua altezza che mi sovrasta proteggendo non solo me ma anche nostro figlio.
“Isabella, sono contento di rivederti.. Jacob Black? Hai visto Edward?”, Carlisle si volta verso il figlio che se ne sta seduto comodamente sulla sedia di pelle nera, dietro la scrivania con alcune carte in mano.
Sgrana gli occhi alla vista di Jacob e si alza per dirigersi verso di noi.
Ho paura, paura che possa fare qualcosa a Jake, a me, a Aaron.
Non ho mai avuto paura di Edward Cullen come in questo momento.
I suoi occhi trasmettono indifferenza ma io so che quell’indifferenza che crede di fare vedere al mondo e alle persone che gli stanno intorno è puro odio.
“Edward”, Jacob tende la mano verso colui che un tempo era stato il suo migliore amico nonostante l’evidente differenza di età, non trema.
Jake è quasi più alto dello stesso Edward e in questo momento lo sembra ancora di più.
“Jake”, si stringono la mano come un gesto di amicizia ma so che non è così: Jacob mi sta facendo male alla spalla.
“Siamo venuti per chiedervi un favore”, si rivolge a Carlisle, il pediatra a tutti gli effetti qui dentro e mi lancia un’occhiata rassicurante e di scuse.
“Dimmi pure figliolo”, Carlisle si fa passare la cartella di Aaron ed ascolta la richiesta di Jacob per il cambio di pediatra, da Forks a Seattle e se è possibile fare la stessa cosa anche con il medico di famiglia, Emmett, il fratello maggiore di Edward.
Carlisle ascolta con attenzione poi si siede alla scrivania e consulta alcuni fogli presenti in un’altra cartella.
La tensione sembra un pochino scemata e Jake si volta verso di me per guardarci, “Ha finito?”, annuisco e gli sorrido.
“Aspetta”, appoggia la borsa sulla sedia vuota di fronte a lui e mi prende Aaron dalle braccia staccandolo dal mio seno; cerco di coprirmi il più veloce possibile ma sento gli occhi di Edward su di me e il sangue mi sale alle guance: quando alzo gli occhi Edward sorride guardandomi di sottecchi.
“Ora mando un fax al medico di Seattle.. dato che tra due settimane devi venire per la poliomielite, vedremo a tempo debito”, mi stringe la mano e mi consegna una copia del fax che ha inviato a Seattle. Piacerebbe anche a me trovarmi a Seattle adesso, essere partita con quel fax in qualche modo. Invece sono ancora intrappolata in questo ambulatorio, con Edward.
“Grazie Carlisle”, gli sorrido e sistemo la copertina di mio figlio in braccio a Jake, “Coprigli anche la testa che fa freddo”, afferro la borsa sulla sedia e poso una mano sulla sua schiena ampia spingendolo fuori.
“Arrivederci Carlisle, Edward”, dice lui rivolto ai due medici nell’ambulatorio, “Adesso andiamo a casina e poi facciamo le coccole alla mamma, mm?”
Sono sicura che anche Jacob percepisce quel pizzicore alla schiena e soprattutto alla nuca, “No le facciamo al papà!”
“Arrivederci Bella”
Mi volto di scatto, sorride.
“Edward”, e mi chiudo la porta alle spalle.
 
“Sinceramente mi aspettavo di peggio”
Jacob entra nella camera padronale tenendo in mano il biberon pieno di latte e lo posa sul mio comodino stando ben attento a non far cadere altri oggetti di cui il piano è ingombro.
Questa sarà la prova della culla per Aaron: non possiamo sempre farlo dormire con noi, non voglio diventi troppo dipendente dai suoi genitori, non sarebbe giusto.
Tornati da Forks siamo andati al grande magazzino di Seattle e gli abbiamo preso uno di quegli aggeggi con pupazzi incorporati che girano sopra i lettini dei bambini, con lucine annesse. Roba all’ultimo grido insomma.
“Lo allatto io, non c’è bisogno del biberon”, sistemo il copriletto del letto matrimoniale e accendo entrambe le abatjour sui comodini.
“Sì invece, altrimenti non ne sappiamo quanto beve e in più tu devi assolutamente dormire la notte”, si apre in un sospiro liberatorio quando il suo corpo tocca il materasso e non posso fare a meno di sorridere.
“Hai chiuso tutto?”, annuisce, “L’allarme?”, annuisce di nuovo poi si avvicina a me con uno strano scintillio negli occhi, che non gli ho mai visto prima.
“Me l’ha dato lui, quando ci siamo stretti la mano”, fa scivolare sul lenzuolo un bigliettino piegato in due. Questo spiega lo strano comportamento che ha assunto in quell'istante.
Trattengo il fiato poi lo prendo.
E’ la sua grafia, un numero di cellulare e sotto solo quattro paroline.
Tu sai cosa fare.
Deglutisco poi mi volto per dare un bacio sulla guancia a Jacob che accetta di buon grado.
“Buonanotte”
“Buonanotte Bella”, le luci si spengono.
Rimango a fissare a lungo la giostrina dalla luce soffusa che si muove sopra Aaron.
Fino a pochi giorni fa mi sentivo sola, abbandonata completamente a me stessa, volevo tornarmene a casa, il più lontana possibile da Seattle che sentivo troppo caotica e ostile.
Oggi mi sono accorta che non è così. A Forks mi sentivo vulnerabile e in pericolo come non mi ero mai sentita in tutti gli anni della mia adolescenza.
Forks non è più la mia casa oramai, custodisco i ricordi, certo, ma non ha più quel senso di protezione e accoglienza che aveva un tempo.
Qui, nel calduccio del mio letto e del calore che Jacob emana, nel profumo indescrivibile di neonato, in quello di pulito dei vestiti stirati e lavati mi sento a casa.
Stringo tra le mie mani il biglietto di Edward e lo bacio, percependo quel profumo che appartiene ai suoi vestiti, alla sua pelle, al suo essere.
Io amo Edward.
Io so cosa fare.

  
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