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Autore: QUILMES88    03/01/2013    0 recensioni
"Un giorno Franco fece una scoperta straordinaria. Scoprì un mondo nuovo. Quel mondo gli si apre solo quando chiude gli occhi e il suo corpo riposa, ovvero quando dorme e si trova in un sogno. Ciò che accade è di entrare nel sogno, di essere consapevole di stare sognando e improvvisamente di diventarne il regista.
Dopo essersi informato scoprì che quel raro fenomeno viene definito “sogno lucido” e che è molto diffuso.
Inizialmente, quando nelle ore di riposo notturno precipitava in quella dimensione, tutto era casuale, instabile e privo di un ordine; ora, invece, sembra che quel mondo abbia finalmente perso la sua dinamicità iniziale tanto da illuderlo, a volte, che esso appartenga a tutti gli effetti alla realtà, quando invece non è nient'altro che una proiezione, seppur sensazionale ed estremamente realistica della sua mente."
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta
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19/02/2010
 
Milano è una città tranquilla, per chi vive a Milano. Per chi vive in periferia o altrove, purché non sia una città simile a Milano, può essere decisamente diverso.
Qui a Milano la vita è facile. La città è grande e non riuscirei mai a morire di fame.
Da tre mesi a questa parte dormo sotto il portico di un negozio di animali. Vendono cani, gatti, uccellini, pesci, conigli, criceti e altre palle di pelo. Sotto questo portico si sta bene, il vento non entra e il proprietario del negozio mi lancia sempre qualche moneta e mi accende sigarette.
 
Io li vedo, li sento, i ragazzi della mia età, con in mano l'ultimo I-phone, chattare con gli amici, scambiarsi baci e ridere. I vestiti firmati, all'ultimo grido e puliti come appena comprati. I ragazzi adorano portare i pantaloni con il cavallo basso, le pieghe si ammassano sulle scarpe. Felpe, maglioncini, camicette, sciarpe e tanti occhiali da sole, Lady Gaga nelle orecchie e il sesso come unico motivo di vita.
E loro mi vedono. Seduto o rannicchiato, sdraiato a pancia in su o in giù, chinato in avanti o indietro e con il mio impermeabile, anche d'estate, guardarli in quel ridere. Mi sento sempre osservato; anche quando il marciapiede è sgombro.
Passerò questa notte nel mio solito portico, sdraiato vicino alla porta del negozio di animali. So già, però, che un vento gelido non mi lascerà dormire. Infatti, la temperatura è scesa notevolmente e i pantaloni cominciano ad irrigidirsi, diventano duri come latta fredda. Arriva la notte.
Dalla porta del negozio esce Cristiano, il proprietario:

- come andiamo fratello? - per l'idiota sono tutti suoi fratelli; di certo io non mi sentivo uno di loro ma in silenzio gli sorrisi lo stesso.


- questa notte sarà tremenda e domani hanno messo pioggia tutto il giorno. -


Nel frattempo io frugavo nelle tasche per cercarmi uno dei mozziconi di sigaretta che avevo trovato in giro. Ne trovai uno e me lo misi in bocca aspettando che me l'accendesse.


- questi animali del cazzo non fanno altro che cagare. Cagano e piangono. Piangono e cagano. Potessi io stare come loro. Mangiano e dormono tutto il giorno. - Mi guardò ma notò che non ridevo, così si fece serio.


- è freddo qui fuori, amico mio. Perché non ti trovi un posto caldo dove dormire? -


Poi mi si piazzò davanti, con il mazzo di chiavi in una mano e notando che non gli rispondevo, iniziò a fissarmi e poi si decise: prese l'accendino e mi accese quella specie di sigaretta che avevo in bocca.
- Due isolati più in là c'è una Chiesa, non è molto grande ma sicuramente ti faranno entrare. - Fece qualche passo indietro e poi se ne andò salutandomi con un cenno. Almeno qualcuno mi salutava.
Sapevo che non sarei arrivato al domani perché quel freddo isterico e perverso mi avrebbe fermato il cuore nel corso della notte. Poi guardai il mio riflesso nella vetrina di fronte e mi vidi: i miei capelli castani e lunghi, unti, la barba incolta, gli zigomi appuntiti e una pelle bianca come un bicchiere di latte.
Ventuno anni e privo di una famiglia, di un futuro. Ventuno anni privi di significato. Ventuno anni buttati nel cesso.

Nel frattempo fiumi di macchine schizzavano veloci lunga la strada di fronte. Le persone si affrettavano ad entrare nei tiepidi appartamenti per gustare la cena servita, a guardare i notiziari e a mettere i piedi al caldo dentro le pantofole asciutte. Le luci dei lampioni illuminavano la nebbia pesante che galleggiava sulle strade e sulle macchine parcheggiate. Ogni vetro, ogni specchio era appannato, come se il mondo si fosse congelato d'improvviso; come se Dio, indossando i sui occhiali ci avesse alitato sopra senza mai spannarli.


Le luci gialle che uscivano dalle finestre degli appartamenti mi tenevano compagnia ma l'aria era così gelida che mi rimaneva difficile persino sforzarmi ad immaginare di trovarmi dietro una di quelle finestre, con le mani appoggiate su un termosifone guardare le macchine passare nella strada sottostante. Non avevo mai sentito un freddo simile in tutta la mia vita; eppure la città lo aveva preannunciato, le persone ne parlavano in strada ma per quanto potessi saperlo non avrei potuto farci nulla. Io e il mio impermeabile quattro stagioni non eravamo pronti a sopportare tanto. Nessuno lo era, in verità.


Il solo motivo per cui me ne stavo sotto quel portico era la vista delle luci del palazzo di fronte. Adoravo osservare le sagome passare dietro le tende e sebbene non potessi sentire le loro voci, potevo immaginare i dialoghi e le discussioni e mi immedesimavo in quelle persone che se ne stavano al sicuro e a compatire quelli come me che se ne stanno all'aria aperta in inverno inoltrato.


Un giorno mi svegliai nel pieno della notte proprio sotto quel portico; due ragazzi mi stavano urinando addosso ma io non feci neanche in tempo ad alzarmi che erano già scappati via. La mia vita da senzatetto non è facile, fidatevi. Ma per ora, sono costretto a subire in silenzio la violenza del mondo urbano e purtroppo questo comporta anche la stupidità giovanile dei ragazzi immaturi, come me, d'altronde.


Ad una certa ora la strada era silenziosa; c'erano soltanto macchine parcheggiate, e i loro finestrini appannati. Mi affacciai all'angolo del portico e lanciai uno sguardo al marciapiede; nero e tetro come il petrolio. Le luci dei lampioni ora sembravano soffocate dalla morsa letale del gelo e più il mio sguardo si tendeva oltre la soglia della vista, più notavo che quella notte Milano era una città morta. Mi sdraiai nuovamente dall'altra parte, con la testa appoggiata su quattro strati di cartone freddo come un marmo.


E ormai non era più tempo per sperare di parlare a qualche passante, anche perché io non parlavo mai. Era tempo di dormire. E fu quello che feci, ma la sigaretta decise di spegnersi in bocca e così la sputai lontano, come un riluttante bastoncino di cancro quale era.


Ricordo. Un silenzio divino avvolgeva le mie membra fredde e spente. Quella era una notte senza sonno ma il gelo mi piegò con grande facilità e mi costrinse a lasciarmi andare.


Un blu indaco si era posato sotto le mie palpebre. Ero cieco.


Un fischio perpetuo e assordante si era insediato nei miei timpani. Ero sordo.


Mi trovavo da circa due ore in uno stato di dormiveglia in cui i miei sensi, compreso il tatto, lasciavano spazio alla più totale insensibilità; uno stato di coscienza ed incoscienza al tempo stesso. Forse il freddo mi aveva paralizzato il cuore, ma non il cervello. E in fondo non desideravo altro che questo; lasciarmi andare.


Al diavolo quella vita sudicia, dove ero costretto a strisciare nei marciapiedi di una città scolorita e monotona; dove per fumare dovevo appostarmi e aspettare che qualche disgraziato gettasse il suo lercio residuo di nicotina sotto i suoi passi, per poi trovare solo un filtro bagnato di saliva. Ero stanco di quella vita maledetta, passata a elemosinare piccole monetine di bronzo, tanto non sarei mancato ad anima viva. Forse a Cristiano, il proprietario del negozio di animali.


Sì, ero proprio stanco di patire il freddo, di avere i piedi sempre freddi e umidi, di non poter lavarmi il viso ogni mattina con una saponetta profumata; di non poter sdraiarmi su un letto e coprirmi fino alla testa fino a scoprirmi dal caldo. Ero stanco di sentire i passi della gente, ne ero nauseato. Ero stanco di tossire, di stare sempre male, di sentire sempre freddo; di sentire il mio corpo sporco e lercio come un sacco della spazzatura. Detestavo la mia immagine riflessa nelle vetrine. A dire la verità la odiavo. Volevo togliermi quello sporco e rinascere nuovamente. Volevo essere quello che avevo il diritto di essere; ovvero un diciannovenne che avrebbe passato le giornate con gli amici, tra un pub ed un cinema a sorseggiare birra e a darsi appuntamenti pomeridiani per qualche uscita improvvisata e lavorare per guadagnarsi uno stipendio ragionevole. Ero stanco di vedere animali ingabbiati dentro ad un negozio ed ero stanco di sentirli piangere. Ero stanco anche di avere un corpo a cui badare, da mantenere al caldo in modo da non ammalarmi nuovamente. Ero un'ombra di Milano; un'ombra piccola e silenziosa che ingannava la notte passeggiando nei marciapiedi e dormendo sotto i portici e le panche. Forse come disse Cristiano era il caso di andare dentro la Chiesa. Almeno sarei morto al caldo, ammesso che ci fosse il riscaldamento; ma io non sopportavo le Chiese, sebbene alcune di esse fossero di una bellezza maestosa. Non sopportavo quell'odore stagnante di aria consumata e quel senso di malinconia che c'è al loro interno. E quei dipinti, quelle vetrate, gli occhi sempre tristi degli angeli, e le tante croci, mi mettevano a disagio e non riuscivo a sentirmi comodo. Preferivo starmene fuori e morire di freddo anche se sapevo benissimo che qualcuno da lì dentro mi avrebbe dato un alloggio sicuro.


Questi ed altri mille pensieri affollavano la mia mente congelata e più pensavo, più mi accorgevo di aver perso il mio corpo che ormai era privo di ogni capacità sensoriale. Soltanto il mio cervello continuava a sfornare pensieri e ricordi soprattutto; in quella dolce e dolorosa manifestazione della mia resa incondizionata. Il viso di mia mamma, quei capelli stupendi, neri come il fondale di un oceano. La sua voce, che nei sussurri pareva un alito di vento primaverile, così delicato e gentile. E mia mamma sarebbe stato l'unico motivo per cui, se fosse stata ancora viva, avrei lottato con ogni cellula del mio corpo per sopravvivere a quell'inferno. Che la morte mi portasse via non era un mio timore; la mia pelle gli sarebbe costata cara. Mesi interi appostata ad aspettarmi, dietro le macchine parcheggiate, nei terrazzi degli appartamenti o in qualche angolo buio della città; quella notte la stronza mi avrebbe preso e chissà cosa ne avrebbe fatto della mia anima, ammesso che ne avessi una. Ma per quanto mi riguardava, vista l'ora e il dolore immenso del gelo che mi squarciava la pelle, la destinazione ultima della mia anima non era di certo un problema; qualsiasi posto sarebbe stato migliore di quel portico.


 


Portatemi via, lontano da qui.
Minuti di silenzio. L'indaco lasciò il posto ad un nero molto più profondo degli abissi di un oceano.
Poi uno sparo. Uno sparo gigantesco. Un suono secco ma di una potenza sonora spaventosa.
Terrorizzato aprì gli occhi.
  
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