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Autore: elizabethraccah    03/01/2013    2 recensioni
Sin è un pianeta perfetto, solitamente pacifico, in cui umani ed elfi convivono. Ci sono anche animali che riescono a comunicare con gli uomini e con gli elfi ma, soprattutto, a distinguere Sin dagli altri pianeti è la presenza di energia allo stato puro nell'aria.
Ultimamente però sta succedendo qualcosa di strano: soprattutto umani, ma anche elfi, spariscono in continuazione. Ryn è una dei pochi a sospettare dei Capi, un elfo ed un umano che amministrano il popolo di Sin. Le persone come Ryn sono chiamate Dunars: Ribelli. Ma cosa devono fare i Dunars? E dove vanno a finire le persone che spariscono? Ryn vuole scoprirlo e vuole anche fare qualcosa per bloccare le sparizioni, soprattutto ora che anche sua sorella Gryael è scomparsa. Ma dopotutto anche lei potrebbe venire risucchiata dallo spietato gioco dei Capi...
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era passata una settimana dal mio incontro con Kor. Nel frattempo, erano successe parecchie cose piuttosto importanti. Le sparizioni erano aumentate di numero: un decimo della popolazione di Sin era letteralmente svanito nel nulla. E, adesso, Cadnek era uno di loro. I Capi ― perché, ne ero certa, dietro tutto questo c’erano loro ― mi avevano tolto tutto ciò che avevo: mia sorella, il mio migliore amico, la libertà che hanno i non-Dunars. Forse potevo affibbiare loro anche la colpa di avermi tolto momentaneamente i genitori ― ora si trovavano nella dimensione di Hur a trattare per chissà cosa con gli gnomi ― ma dopotutto non avevo nemmeno voglia di pensare a loro, non se lo meritavano. I miei non erano dei genitori, ma dei mostri: a loro non importava proprio niente delle loro figlie, tutto ciò che avevano a cuore era il potere.
Prima ho detto che essere un Dunar ti privava della tua libertà. In effetti, era proprio così: da una settimana non facevo altro che allenarmi nell’arena del villaggio (notai che l’oggetto cilindrico dorato era sparito) e andare con Kor alle riunioni segrete dei Dunars, che si trovavano nelle terre selvagge, dove non c’erano villaggi di elfi e umani, ma solo alberi ed animali. All’inizio erano state piacevoli, quasi divertenti, forse perché ero molto eccitata dal fatto di poter partecipare ad una riunione segretissima con persone ed animali che erano del mio stesso parere. Ma ben presto avevo cominciato ad annoiarmi: non si parlava altro che di politica e di come uccidere i Capi; nemmeno un accenno per quanto riguardava il salvare Gryael, Cadnek o chiunque altro fosse scomparso (nonostante, non potei fare a meno di notarlo, anche alcuni Dunars sparissero). Ero rimasta molto delusa. Quando avevo chiesto perché non cercassero prima di riportare le persone scomparse, che era la cosa più importante, e poi di spodestare i Capi, Danshek, un vecchio elfo dal viso saggio che abitava vicino a me, aveva risposto: «Quando li cattureremo, ci diranno come riportarli indietro. Abbi fiducia, cara Ryn.»
Avrei voluto ribattere che mentre noi sedevamo tranquilli a parlare di politica, delle persone forse stavano morendo. Ma fui preceduta da un ragazzo, un elfo che non avevo mai visto prima, i capelli viola scuro tagliati corti (di solito gli elfi li tenevano lunghi) e gli occhi castani. Non avevo mai visto né umani né elfi con gli occhi di quel colore. Non aveva detto come si chiamasse, ma aveva dichiarato di essere d’accordo con me. A quanto pareva, eravamo gli unici a pensarla così: nessun altro disse niente al riguardo.
Quando la riunione si sciolse e stavo per raggiungere Kor per farmi riportare a casa, mi sentii toccare la spalla da dietro. Sguainai il pugnale e lo puntai contro la persona che mi aveva colta di sorpresa. Mi ritrovai di fronte il ragazzo dagli occhi castani che mi aveva dato ragione poco prima. Abbassai l’arma e lo scrutai, invitandolo a parlare con un cenno del capo.
«Il mio nome è Tagahar» si presentò. «Sono di Nolurm.» Nolurm era la parte più a est delle terre note agli elfi ed agli umani. Io vivevo a Ponret, ovvero quella più a ovest.
Quindi è per questo che non l’ho mai visto, pensai. Chissà se a Nolurm ci sono altri elfi o umani con gli occhi castani.
L’elfo alzò la mano sinistra ed aprì il palmo (ci si presentava nello stesso modo in cui ci si salutava).
«Io sono Ryn» dissi a mia volta. «Di Ponret» specificai. Anche io alzai la mano ed aprii il palmo, toccandoglielo lievemente. Poi lasciai ricadere il braccio sinistro lungo il fianco.
«Mi è parso di capire che non la pensi come gli altri Dunars» constatò con uno strano tono. Voleva minacciarmi?
«Infatti» ribattei gelida.
Ma avevo sbagliato ad interpretare le sue parole: Tagahar non aveva intenzione di sfidarmi o intimidirmi, né di litigare. Meglio così. Meglio per lui. «Ho bisogno di parlarti» mormorò con la voce più bassa che poteva. «All’arena del tuo villaggio. Stasera. Ora settima.» Detto questo si girò e se ne andò, veloce come un fulmine, senza nemmeno salutarmi alzando il braccio e sfiorandomi il palmo, come avrebbe dovuto fare secondo le regole del nostro pianeta. Ma qualcosa mi diceva che quell’elfo ― sempre che appartenesse a quella razza ― non fosse originario di Sin, al contrario di quanto aveva detto poco prima. Possibile che venisse da un’altra dimensione?
Trovai Kor e, mentre mi riaccompagnava a casa, mi chiesi come facesse Tagahar a sapere quale fosse il mio villaggio. E poi, all’ora settima? Era assurdo. All’ora ottava si andava a dormire, quindi, alla settima, tutti si allenavano nell’arena. Forse Tagahar aveva deciso così perché c’era più gente e quindi  più rumore, e di conseguenza le possibilità che qualcuno ci sentisse erano minime... oppure molto alte, dato che chiunque avrebbe potuto ascoltarci. Ma non ci stetti troppo a pensare e non presi nemmeno in considerazione l’idea di non andare. Non sapevo perché, ma sentivo che era mio dovere farlo. Come lo era salvare Gryael e Cadnek. Erano la mia famiglia.
 
All’ora settima mi trovavo lì, ma lui non c’era. Era impossibile che mi fossi sbagliata sull’orario: l’ora settima è quella in cui il cielo da arancione diventa rosso. In quel momento, era cremisi.
Che si fosse preso gioco di me? Non mi sembrava il tipo che voleva perdere tempo, né da volerne farne perdere agli altri solo per divertimento.
Non avevo sbagliato a pensarla così. Tagahar arrivò sudato e tremante, ma arrivò. Probabilmente non era mai stato nell’arena del mio villaggio, dato che si guardava intorno confuso e disorientato. Lo presi per un braccio e lo trascinai dietro agli alberi dal tronco massiccio e dalle foglie viola che circondavano l’arena, schifando per un soffio elfi ed umani che si allenavano. Lui non era sembrato affatto sorpreso dal mio comportamento violento (cosa strana per un elfo).
«Wow» esclamò. «È l’arena più grande di tutti i villaggi che ho visitato.»
«Tu hai visitato altri villaggi?» chiesi eccitata. «E come sono?» Tagahar sorrise della mia espressione, ed io mi affrettai ad assumere un’aria indifferente, ma non riuscii ad evitare di arrossire.
«Non dirmi che sei rimasta in questo villaggio per tutta la vita. Oltre ad essere venuta alle riunioni Dunars, intendo.»
Non appena sentii l’ultima frase, cominciai a guardarmi intorno velocemente e con gli occhi sbarrati, avendo paura che qualcuno ci avesse sentiti. «Ma cosa stai facendo? Ci farai scoprire!» sussurrai irritata e vagamente spaventata.
L’elfo sbuffò ed alzò gli occhi al cielo, noncurante. «Ryn, sei tu che rischi di farci scoprire, con quell’espressione.»
Emisi un suono a metà tra un sospiro esasperato ed uno sbuffo. «D’accordo, d’accordo.» Cercai di calmarmi. «Ora dimmi perché sei qui.»
D’un tratto la sua espressione si fece mortalmente seria. «Credi davvero ciò che hai detto oggi?»
«Certo, altrimenti non l’avrei detto» risposi. «C’è qualcosa di... sbagliato?» chiesi, cercando di decifrare la sua espressione.
«Forse» rispose dopo un attimo di riflessione, guardandosi intorno. I suoi occhi castani erano incerti.
Trattenni il fiato. «Cosa significa “forse”?»
Stavolta il suo sguardo si fissò nei miei occhi. «Che non siamo al sicuro» mormorò chinandosi per dirmelo nell’orecchio. Il suo alito era freddo. «A giudicare dall’espressione che hanno fatto Danshek e i suoi quando abbiamo detto la nostra opinione, ora ci giudicano un ostacolo.»
Mentiva. Lo sentivo nel profondo del cuore. «Non ho visto nessuna espressione particolare sui loro volti» replicai. Lo presi per la tunica, sul petto, e lo strattonai verso di me. «Se devi dirmi qualcosa, fallo subito. Non voglio bugie. Solo la verità» sussurrai minacciosa, gli occhi inchiodati nei suoi.
Sostenne il mio sguardo per un momento interminabile. Mi sentii arrossire, e sperai che il cielo cremisi riuscisse a mascherarlo. Ma non abbassai lo sguardo. Questo mai.
«D’accordo» disse liberandosi della mia stretta. «Mi hanno avvertito. Danshek e i suoi. Non devo intromettermi, altrimenti me la faranno pagare.»
«E perché non hanno “avvertito” anche me?»
Tagahar parlò con le parole impregnate di disprezzo indirizzato a Danshek. «Non ti hanno detto niente perché sei umana. Non ti considerano una minaccia.» Mi guardò negli occhi. «Ma si sbagliano.»
Sostenni il suo sguardo. «Riesci a capire molte cose, elfo.» Alla parola “elfo” sorrise come se avessi detto una battuta ma la potesse capire solo lui. «Credo di essermi sbagliata sul tuo conto» aggiunsi dopo un momento.
«Lo credo anch’io.» Mi diede le spalle, lo sguardo fisso sull’arena e sugli umani e gli elfi che si esercitavano. «Lo sai che queste persone sono in pericolo, vero?» mormorò.
Lo affiancai. «Ora lo so.»
«E sai anche cosa possiamo fare per salvarle?»
Mi limitai a ricambiare il suo sguardo.
«Dobbiamo andare nel posto in cui finisce la gente che scompare. Dove sono stati catapultati tua sorella ed il tuo migliore amico.» Non gli chiesi come facesse a saperlo, perché ero certa che da qualche parte dentro di me conoscessi la risposta. Dovevo solo aspettare che si mostrasse. «È l’unico modo.»
«E una volta lì cosa faremo?»
Fece una smorfia, che doveva essere un sorriso amaro. «Non lo so. Immagino che non possiamo saperlo senza prima andare lì.»
«Sai già come arrivarci? E sai già dov’è “lì”?»
«Sì.» Mi fissò con determinazione.
 
Non è facile fidarsi di qualcuno che non conosci.
Io mi stavo fidando di Tagahar. Ma non mi era difficile farlo. Non sapevo perché, ma avevo la netta sensazione di averlo conosciuto da qualche parte. Solo non sapevo dove, né quando.
Per ora non dovevo fare molto, secondo il suo piano. Solo aspettare qualcosa che non voleva dirmi. Ma non importava che volesse tenerlo segreto: dopotutto se fossi stata al suo posto avrei agito proprio come lui. Le giornate seguivano una noiosa routine: allenamento la mattina presto, riunioni Dunars, allenamento ed ancora allenamento fino all’ora settima. Non sapevo nemmeno io perché continuavo a farlo, ma sentivo che ne avevo bisogno. È una cosa un po’ strana da spiegare.
Finalmente un giorno arrivò Tagahar; senza nemmeno bussare alla porta entrò rumorosamente e col fiatone nella mia capanna, all’ora ottava. Non stavo dormendo, al contrario di, credevo, tutti tranne me e Tagahar, ma stavo affilando il kirnike ed il pugnale. Quando entrò non battei ciglio, non lo salutai nemmeno ― nemmeno lui ne sentì il bisogno, a quanto pareva. Si gettò subito nella dispensa, prese tutto ciò che poteva e lo mise dentro una sacca azzurra. Io avevo smesso di occuparmi delle mie armi e lo fissavo, cercando di capire cosa stesse combinando. Quando prese il mio arco, però, saltai su e gli puntai il kirnike alla gola. «Regola numero uno se mi vuoi come alleata» sussurrai minacciosa. «Mai toccare le mie armi. Mai.»
Lui non sembrava tanto impressionato dalle mie parole, anche se speravo lo fosse, però mi restituì l’arco. «Va bene.»
Mi diressi verso le altre armi e cominciai ad ammucchiarle insieme; mi sistemai la faretra in spalla, infilai il kirnike, il pugnale ed i coltelli nella cintura, la spada che mi pendeva da un lato. Infilai il lungo mantello viola per nascondere il tutto, ma non potei fare niente per mascherare l’arco che tenevo in mano.
Mi girai verso di lui, perché avevo già capito le sue intenzioni. «Dove stiamo andando?» chiesi con un tono di voce completamente diverso da quello di prima.
 
«Ci vuole forza. E coraggio. So che ne possiedi, ma devi comunque stare attenta a come ti muovi.»
Le lune, l’una azzurra e l’altra di un tenue violetto, rischiaravano il paesaggio di fonte a noi. Il cielo era di un cupo bordeaux all’ora nona, e gli alberi avevano un che di spettrale, al contrario di quanto accadeva di giorno.
Non ero mai uscita di casa all’ora nona. Si diceva che fosse alquanto disdicevole, senza un motivo preciso. Di solito non mi lasciavo intralciare da queste stupidaggini se volevo fare qualcosa, ma me l’avevano detto i miei genitori di non farlo, così ero costretta ad obbedire. Questo valeva dall’ora ottava all’inizio della prima. Il giorno da noi durava dodici ore: dall’ottava alla prima, massimo alla seconda si dormiva, e dalla seconda alla settima era permesso uscire dalla propria capanna.
Io e Tagahar filavamo veloci e silenziosi tra gli alberi, senza emettere nemmeno un fruscio. Per me era stato difficile, ma con gli anni avevo imparato a non fare alcun rumore quando mi muovevo, ed ancora non mi riusciva molto facile. Invece Tagahar sembrava perfettamente a suo agio, come se non facesse alcuno sforzo.
Non sapevo dove stessimo andando: Tagahar faceva strada. Quando cominciai a stancarmi, disse: «Siamo quasi arrivati.» Io non gli risposi perché ero troppo impegnata a non fare rumore e a tenermi sveglia.
In effetti era così. Pochi minuti e si fermò; rischiai di andare a sbattere sulla sua schiena, ma mi fermai in tempo.
«Eccoci» sussurrò. Eravamo in mezzo ad una radura di alberi piuttosto inquietanti di notte: alti ed affusolati, dalle foglie sottili. Ai rami erano appesi delle specie di fili a cui erano attaccati degli oggetti sferici. Al centro del prato c’era un albero massiccio, alto e maestoso, la chioma sorretta da migliaia di rami che formavano l’albero e che si allontanavano dal tronco facendo sembrare la pianta ancora più grande e temibile. Nella parte centrale del tronco era incastonata un’enorme gemma che sfavillava di un colore indefinito. I rami erano tempestati di gemme che risplendevano di luce rosea nella notte scura; dalle gemme nascevano delle foglie sottili e seghettate, sfavillanti d’argento liquido e screziate d’oro fuso. La chioma era formata da miriadi di foglie larghe e a punta, di tutti i colori che si potessero immaginare: giallo, rosso, arancione, verde, azzurro, blu scuro, viola, indaco... Anch’esse brillavano di luce propria, e sembravano espanderla fino agli alberi che circondavano la radura, dando loro vita e bellezza. Dando vita e brillantezza a tutto il pianeta, pensai.
«La Quercia!» esclamai senza fiato.
«Ssst!» provò a zittirmi Tagahar, ma ero troppo agitata per stare calma.
«Ma le leggende dicono che è circondata da mura protettive! E, accidenti, è un luogo sacro! Noi non possiamo stare qui, dobbiamo...» Prima che potessi dire altro, Tagahar mi tappò la bocca con la sua mano fredda.
«A meno che tu non voglia farci scoprire, ti consiglio di stare zitta» mormorò, ma non c’era niente di minaccioso nella sua voce.
Mi divincolai dalla sua stretta, e quando mi lasciò andare borbottai controvoglia: «Scusa.» Stavolta parlai a bassa voce. «non dovremmo stare qui. Assolutamente non dovremmo. È un luogo sacro, e poi è qui che è sparita mia sorella...» Feci una piccola pausa, solo per rielaborare ciò che mi stava venendo in mente.
«Ecco perché siamo qui» sussurrammo all’unisono, io sorpresa, lui annuendo.
«Ma come facciamo a...»
«Aspetta» mi interruppe, e mi fece cenno di guardare la Quercia. «Dovrebbe essere l’ora decima.» Il cielo infatti si stava tingendo di un blu scuro. «E allora il portale si aprirà.»
«Che portale?» chiesi, ma sapevo che non avrei ricevuto una risposta dettagliata.
«Ora lo saprai.»
La parte centrale del tronco della Quercia, più precisamente l’enorme gemma che vi era incastonata e che ora si stava allungando, fino ad estendersi per tutta la lunghezza del fusto, prese a brillare di una potente luce bianca, che illuminò a giorno tutta la radura.
«Ci siamo» mormorò Tagahar. Poi senza tanti complimenti mi prese per mano e mi trascinò con lui verso la luce. Sentivo le gambe muoversi da sole: era come in un sogno, quando non si ha il pieno controllo di se stessi.
Poi lui si tuffò nella luce ― letteralmente ― ed io un secondo dopo feci lo stesso, senza lasciare la mano di Tagahar. D’un tratto fui avvolta dalla luce bianca, ma poi mi sentii estremamente stanca; quel colore puro davanti ai miei occhi si macchiò d’inchiostro, e persi i sensi.
 
La sensazione delle foglie secche che mi pungevano la schiena nuda sotto di me, l’odore familiare dell’erba e quello sconosciuto di qualcosa di terribilmente umido. Forse era acqua, ma non ne ero così sicura.
Mi decisi ad aprire gli occhi, e ciò che vidi fu un cielo di un azzurro chiarissimo, colore di cui a Sin non era mai stato tinto. Nel cielo azzurro c’erano delle specie di batuffoli bianchi, lontanissimi dalla terra su cui ero sdraiata ora. Uno strano sole, giallo, piccolo e splendente brillava esattamente sopra di me. Non c’erano lune.
Mi tirai su a sedere, e scoprii che il mantello era qualche metro più in là del previsto, le armi invece erano sparpagliate intorno a me, persino quelle che avevo infilato nella cintura. I miei vestiti erano in disordine e strappati in più punti. Cercai di aggiustarmeli come meglio potevo, poi mi alzai, raccolsi le armi e il mantello, poi cominciai a cercare Tagahar.
All’inizio mi disperai all’idea che non l’avrei trovato, ma poi ci andai a sbattere contro e capii che stava benissimo, persino meglio di me.
«Ehi» fece allegro. «Già in piedi? Ero andato a fare una perlustrazione dei dintorni.»
Annuii. «Bene. E adesso?»
«E adesso cosa?»
Scrollai le spalle. «Be’, immagino che ora vorrai spiegarmi qualcosa di tutto questo. Per esempio dove siamo e perché non mi hai parlato di come sarebbe stato lo scambio dimensionale.» Lo guardai di traverso. «Te l’ho già detto. Se vuoi avermi come alleata, devi dirmi tutto.»
Mi guardò maliziosamente. «Davvero? E tu vuoi veramente sapere tutto?» Piantò i suoi strani occhi castani nei miei. Da quel momento seppi con certezza che non era originario di Sin, senza un motivo preciso. Io non gli risposi, mi limitai a sorreggere il suo sguardo. Lui sorrise beffardo e mi diede le spalle, poi con un cenno mi invitò a seguirlo. Non potei fare altro che assecondarlo.

  
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