Non c'è nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria.
[Dante Alighieri]
8 gennaio,
Ore 10.30, orario locale
periferia della città di Budapest, poco lontano dal fiume Danubio.
La casa è alla periferia della città. Prendiamo il tram per
raggiungerla.
E adesso siamo qui, davanti al grande portone in legno massiccio: ho paura a
bussare. Mille e più domande si sono fatte strada nella mia testa.
Alzo lo sguardo, e osservo nei minimi particolari il leone che sovrasta la
porta: il simbolo della famiglia di Anastaysia da molte generazioni. Prendo
coraggio e faccio un respiro profondo: devo essere forte. Sono qui per
raggiungere il mio obiettivo. È tutto scritto nella profezia: che convincerò
Olympia ad aiutarmi, che vincerò le Driudresse, che probabilmente, alla fine
morirò.
Poggio la mano sul legno, così caldo e vivo, in contrasto con il freddo
pungente della capitale ungherese, sommersa nella neve da quando io e Albie
siamo atterrati, cinque giorni fa.
Sì, sono passati cinque giorni. Jack è sempre più preoccupato riguardo a quello
che sta succedendo “da questa parte dell’oceano”, anche se mi ha assicurato che
la mia doppelgänger si sta comportando proprio come mi comporterei io.
Non so
se Ade può sentire quello accade da questa parte del mondo, ma se così fosse,
gli avrò mandato come minimo un centinaio di grazie formato elefante.
Fossi Persefone, forse un po’ mi ingelosirei. Ma neanche più di tanto, perché
bisogna essere veramente amanti del macabro per potersi innamorare di uno che
per vivere, sì, chiamiamolo pure così, fa la guardia ai morti.
La mano di Albus si posa sulla mia. Arrossisco, non lo so, forse è solo per il
freddo, forse è per lui.
- Forza, Quinn – mi dice, sorridendo.
Sorride sempre più spesso da quando siamo atterrati. Potrebbe essere perché
abbiamo immediatamente capito che non avremmo impiegato due giorni per trovare
Olympia e quindi la sua paura dell’aereo è stata leggermente smorzata
dall’attesa del viaggio di ritorno; potrebbe essere perché qui si trova a suo
agio, in questa città così criptica come la profezia che mi ha fatto arrivare
qui, così misteriosa come un giallo di Agatha Christie. Scioccamente penso che
sorrida per me, per il fatto che siamo qui da soli, ed è come se fosse una
vacanza dove nessuno ci può disturbare. Scioccamente, appunto, continuo a
pensare che abbia una cotta per me.
Nonostante l’espressione che ha assunto quando la receptionist dell’hotel ci ha
rivelato che avevamo prenotato una camera doppia. Con un letto matrimoniale.
-Salve, siamo George
Hamilton e Isabella Harmful – dice lui, parlando lentamente, ad una ragazza
ventenne che sta seduta su una sedia girevole verde bottiglia.
- Oh, benvenuti! Se ci aveste chiamato, avremmo mandato una nostra auto di
servizio a prendervi all’aeroporto! – esclama lei, indugiando per molto più di
un secondo su di me, con quegli occhi marroni come la cioccolata calda che
prepara Jack durante le vacanze di Natale. Le sorrido, mentre Albie le
risponde: - Signorina non è stato assolutamente necessario. Comunque vorremmo
le chiavi delle nostre camere -
- Camere, signor Hamilton? Camera, vorrà dire –
Albie per poco non si strozza con la sua stessa saliva, ma la receptionist
continua imperterrita: -Sì, avete prenotato una stanza da letto doppia, con un
letto matrimoniale-
-Deve esserci un errore- dico io, iniziando a pregare perché Talia, oltre ai
suoi passaporti falsi e poco spiritosi, ci abbia anche messo nella stessa
camera. NELLO STESSO LETTO!
-No, signorina Harmful. Ho qui la vostra prenotazione e vi assicuro che a
vostro nome è stata prenotata una sola stanza-
-Non ne avete un’altra?- le domanda Albie, ma la ragazza scuote la testa.
-Mi dispiace, ma il Best Western Hungaria è pieno, per queste settimane. Molti
sono venuti a passare qui il capodanno e la settimana bianca-
-Certo, capisco … beh, ci dia la chiave, non abbiamo intenzione di disturbarla
oltre- dice Albie, allungando la mano per prendere la busta che gli porge la
ragazza, che, nonostante sia ungherese, riesce a parlare inglese in modo quasi
impeccabile. D’accordo, ha un accento un po’ yankee, ma non si può pretendere
la perfezione.
-Vi auguriamo una buona permanenza!- dice lei, con un sorriso plastico stampato
sulle labbra scarlatte.
Prendo coraggio. Indugiare non servirà a nulla. Alzo il
braccio, dopo che Albie ha levato la sua mano e do un paio di colpi potenti.
All’interno della casa si sente uno strano rumore, tipo un gatto a cui è stata
pestata la coda e che corre via a grande velocità, oppure un bollitore che si
mette a fischiare in modo stridulo.
- Ki az?[1] – domanda qualcuno, in una lingua a me completamente sconosciuta;
inarco le sopracciglia, mentre mi volto per guardare Albie, che a sua volta sta
fissando la porta come se volesse incenerirla.
Gli poggio una mano sul braccio e busso di nuovo, con la mano libera, mentre
l’altra è stata afferrata dalla mano di Albie.
Nessuno risponde, ma quel miagolio insistente continua. Albie mi guarda: -
Quinn, non ho per niente un bel presentimento. Andiamocene -
- Non possiamo, Albie! Non sono venuta fin qui per arrivare davanti alla porta
di Olympia e andarmene! – esclamo io, senza sciogliere la sua stretta.
- Olympia! – la chiamo.
- Ki hív engem? Mit akarsz? Hogy jöttél ide?[2] -
- Sono Quinn, apri la porta! -
Mi maledico per non aver comprato un dizionario di ungherese.
- Quinn? – sento la voce chiedere, accorrendo alla porta.
casa di Olympia, stanza non ben identificata.
-Na, ja, du weißt, dass Anastaysia meine Großmutter war … [3]-
dice, dopo averci servito una tazza di
qualche strana pozione color miele. Penso che sia tè, ma non mi fido molto a
berlo.
Annuisco, per quel poco di tedesco che riesco a capire.
-Warum bist du hier, Quinn? Ich habe gedacht, dass du in den USA wohnst. Und
wer ist dieser jungen Mann? Dein Freund? [4]-
Albie scuote ossessivamente le mani davanti a sé, preoccupato: -Nein! Ich bin
nur ein Freund von Quinn. Sie hat schon einen Freund! [5]- dice, posando lo sguardo
su di me.
Mi volto un po’ verso Albie: -Puoi chiedergli di parlare in una lingua che
conosco? Non capisco quasi niente di quello che dice!- gli dico, prima di
chiedergli: -Ma tu come hai imparato il tedesco?-
Albie sorride e scuote la testa: -E’ una storia molto lunga-
Si volta verso Olympia: -Olympia, kannst du in Englisch sprechen? [6]-
-Natürlich! Scusa Quinn, ma io pensavo che tu sapessi parlare tedesco- dice,
con un accento russo.
-Purtroppo no-
-Beh, sai, è più o meno la lingua franca qui. Ormai l’inglese lo sa pure il mio
gatto-
Più o meno offesa da questa affermazione, me ne sto in silenzio ad osservare la
stanza. Mi alzo e inizio a girare per quello che mi sembra il soggiorno, con
pesanti tende rosso cremisi che non lasciano entrare nemmeno un raggio di luce,
o di quel bianco puro che domina all’infuori di questo antro spettrale.
La
stanza è disseminata di tavoli di tutte le forme e lunghezze: grandi, piccoli,
rotondi, quadrati, rettangolari, di mogano, di betulla, di ciliegio,
drappeggiati da pesanti tovaglie bianche, rosse, nere, grigie o gialle, oppure
completamente coperti da ampolle di tutte le dimensioni o da pagine ingiallite di
quelli che sembrano vecchi libri di magia.
L’odore è insopportabile: mi ricorda troppo l’ospedale di Albertville, e a quel
tipico odore di candeggina c’è un olezzo come di carne bruciata e erbe andate a
male. Mi chiedo come possa vivere in questo caos, con questo odore orribile.
Olympia è una bella donna, non la prenderesti mai per una strega: non ha il
naso aquilino, né un porro enorme nel bel mezzo della faccia o gli occhi piccoli e
cattivi.
Ha i capelli dello stesso colore dell’ebano, con dei riflessi che, alla luce
delle candele dei diversi colori che bruciano, illuminando la stanza, sembrano
quasi blu elettrico. Un nasino alla francese e gli occhi viola, come
l’ametista.
Forse è questo la caratteristica comune delle streghe, o forse no.
-Puoi evitare di toccare qualsiasi cosa? Non sono abituata ad avere qualcuno
che mi gironzola per casa. Zorba a parte, ovviamente- mi domanda Olympia,
proprio mentre io sto per sfiorare un ampolla dal contenuto giallo limone.
-Zorba?- le chiedo io, voltandomi.
Lei annuisce, allungando il collo e cercando qualcosa sotto ai numerosi tavoli:
-Il mio gatto. Che dovrebbe essere qui da qualche parte. Oppure è andato a
prendere il pesce al porto. Boh, ogni tanto sparisce per giorni-
-Già, mi domando il perché- dice Albie a mezza voce, guardandosi in giro.
Tossisco, per evitare di scoppiare a ridere. Questo prima che Olympia si volti
verso Albie domandando: -Bist du sicher, dass Quinn und du sind nicht Freund
und Freundin? [7] -
-Sicher! Ich habe dir davon erzählt! [8] – esclama lui, guardandomi negli occhi e
piegando la testa di lato. Io mi guardo gli stivaletti che stanno lasciando
delle impronte acquose dove sono passata per curiosare.
Albie si schiarisce la voce e me lo ritrovo al fianco, il che mi porta di
conseguenza a fare un salto per la sorpresa che per poco non mi fa atterrare su
un libro enorme, dalla copertina nera. Riesco a rimettermi in equilibrio senza
aiuti, ma poi preferisco appoggiarmi ad un tavolo che sembra quasi sgombro in
tutta quella confusione.
-Lì sopra io ci seziono le rane. O i pesci. O i corvi. Dipende da quello che
Zorba porta a casa- mi dice Olympia, indicando con un dito dall’unghia laccata
di viola il tavolo su cui mi sono appoggiata.
Alzo leggermente le spalle, reprimendo sul fondo della gola un principio di
conato di vomito.
-Evitando i convenevoli, so già perché siete qui. Insomma, lo zampino di Ade lo
sento lontano un miglio- continua imperterrita, toccandosi il naso.
-La aiuterai?- domanda Albie, che ha preso posto vicino a me. Così vicino che
le nostre mani si sfiorano, e la mia continuamente freme, nella voglia di
afferrare la sua.
E’ tempo per Olympia di alzare le spalle, ora: -Non posso di certo rifiutare.
Solo Morgana sa che cosa mi farebbe quello scellerato dio se dovessi dire di
no. Probabilmente mi incatenerebbe vicino al suo amichetto alato che ha fatto
incazzare un po' tutti. Quindi sì, vi aiuterò. Ma sapevate già che vi avrei risposto
affermativamente. Voglio una condizione-
Strabuzzo gli occhi: -Cosa?- le domando, preoccupata.
-Preferirei non spostarmi, ma so già che dovrò volare negli Stati Uniti. E poi,
non avendoli mai visti, mi piacerebbe farci una visitina. Ma Zorba deve venire
sempre con me. Sempre. Anche se dovessimo andare all’inferno, Zorba viene con me-
Alzo le sopracciglia: -D’accordo! Perfetto!- le dico, con un tono che lascia
intendere che io stia pensando a quanto sia spostata questa donna.
-So a cosa stai pensando, Quinn. Non ho bisogno di leggerti nel pensiero per
saperlo. Zorba non è solo un gatto. È stato il mio compagno di vita, fino a che
quella maledetta megera delle Lande dell’Est non me lo ha trasformato in un
gatto nero. Quando tutto questo sarà finito, io lo riavrò indietro. Quindi, ora
ve ne potete andare. Vi accompagno alla porta- termina lei, fulminandomi con lo
sguardo.
Do uno sguardo ad Albie, che mi incita ad uscire al più presto da quella casa
spettrale, che, personalmente preferirei non vedere più.
La strega ci apre la porta, noi usciamo: -Ho chiesto al tuo Freund, ma non me lo
ha voluto dire. Forse non sa i numeri in tedesco. Da quanto tempo state
insieme?-
-NON STIAMO INSIEME!- esclamiamo in coro, proprio mentre un gatto ci passa in
mezzo, miagolando, e con un grosso pesce in bocca.
-Come volete. Se deve essere un segreto dovreste celarlo meglio. Auf
wiedersehen, meine Doves! Komm hier Zorba! Komm zur Mutti![9]- dice poi, rivolta
al gatto, prendendolo in braccio e facendogli le coccole. Successivamente
chiude la porta e ci lascia di nuovo nel bianco puro della neve.
-Deve essere triste … dico, avere l’amore della tua vita trasformato in un
gatto- rompo io, dopo un tempo infinito, il silenzio che si è venuto a creare,
mentre camminiamo per prendere il tram che ci riporterà all’albergo.
Ora di cena,
Ristorante ungherese, poco lontano dal centro della città.
-Quindi...
cioè, ora che l'abbiamo convinta?- domando finalmente, mentre
continuo a sminuzzare il pezzo di carne che ho nel piatto, e che emana
un odorino da leccarsi i baffi, letteralmente parlando.
-Ora che l'abbiamo convinta torniamo a casa, no?-
Sì, a casa. A casa, dove ognuno continuerà per la sua
strada, dove questo viaggio non sarò mai accaduto, dove ti
scorderai di me. Completamente ed inevitabilmente.
Perché non sono importanti gli sguardi che mi rivolgi, quelli
che ogni volta mi fanno arrossire, perché probabilmente per te
non significano niente.
Ed eccomi qua, un'altravolta, ad aver voglia di piangere come una
bambina dell'asilo; con la voglia di chiudermi in camera e lasciarmi
avvolgere dalla sicurezza di un pianto liberatorio.
Mi alzo, posando sul tavolo il mio tovagliolo, che sull'angolo destro
ha ricamate le iniziale del ristorante dove stiamo cenando.
-Scusami, devo andare al bagno- dico sbrigativamente, e con la voce già spezzata.
Con passo veloce mi dirigo verso la toilette delle signore, e vado addosso ad un'altra ragazza.
-Mi dispiace-, le dico, prima di aprire la porta e fiondarmi davanti al lavabo centrale.
-Fiatal hölgy, jól vagy? [10]- domanda una voce alle mie spalle.
Senza voltarmi le dico: -Mi dispiace, ma non capisco-
-Tutto okay?- ripete.
Alzo gli occhi sullo specchio solo per incontrare quelli viola, inconfonbili, della strega che ho conosciuto questa mattina.
-Olympia...- sussurro, ma lei mi interrompre: -Ho parlato con Ade, e
non è affatto contento riguardo l'importanza che la sua
cacciatrice sta dando alla salvezza del mondo-
-La sua cacciatrice?- le domando, girandomi, poggiando i palmi delle mani sul ripiano di marmo che sostiene il lavabo.
-Quinn, basta pensare ad Albus, d'accordo? Io posso farti passare tutto
questo. Devi solo rilassarti... - la voce della strega si è
trasformata in un sussurro. Mi sta facendo paura; i suoi occhi sono di
un colore intenso, che mi fa venire il capogiro.
-Tu lo vuoi, Quinn?- mi domanda, soffiandomi accanto all'orecchio.
No, ovvio che non lo voglio; non voglio dimenticare il batticuore che
mi prende ogni volta che lo vedo; non voglio dimenticare gli sguardi
che ci scambiamo. Perché sono certa che in fondo, anche lui
è certo di provare qualcosa per me.
O forse è solo frutto
della mia fantasia da ragazza diciottenne?
-Lo vuoi, Quinn?- Olympia ripete la domanda.
Non vorrei, ma annuisco.
Note:
[1]: = Chi è?
[2]: = Chi mi chiama? Che cosa vuoi? Come sei arrivato qui?
[3]: = Sai che Anastaysia era mia nonna ...
[4]: = Perché sei qui, Quinn? Pensavo che tu vivessi negli Stati Uniti. E chi è questo giovane uomo? Il tuo ragazzo?
[5]: = No! Sono solo un amico di Quinn. Lei ha già un fidanzato!
[6]: = Olympia, potresti parlare in inglese?
[7]: = Sicuri di non stare insieme?
[8]: = Sicuro! Te l'ho già detto!
[9]: = Arrivederci, mie colombelle! Vieni qui, Zorba! Vieni dalla mamma!
[10]: = Signorina, sta bene?
Angolo della scrittrice:
Scusate per l'assenza prolungata.
Lo so che non ho aggiornato per due intere settimane; però
capitemi: era Natale, poi Capodanno, oggi l'Epifania (che tutte le
feste si porta via)
E quindi... va beh, poi in più sto facendo fatica a scrivere i capitoli, con tutto quello che mi passa per la testa.
Stavo quasi per dimenticare: perdonate anche le note, prometto che nel
prossimo capitolo non ci saranno traduzioni di nessun tipo.
Quindi.
COMUNICAZIONE DI SERVIZIO:
Lettori e lettrici,
io, Kristah, "autrice" di storie qui e EFP dichiaro solennemente che
cercherò di aggiornare al più presto possibile la mia
storia,
nonostante i compiti e i problemi della vita che (purtroppo) non è ad Albertville.
FINE COMUNICAZIONE DI SERVIZIO,
Grazie per l'ascolto.
Alla prossima,
Un bacio,
Kristah.