Il destino dei Re.
“Me lene eskià”
Capitolo ottavo.
L’uomo che entrò nella
locanda era tozzo, un corto omuncolo con spalle piazzate e bicipiti granitici;
si guardò intorno prima di prendere possesso di una stola dove giaceva
divertita una delle puttane dell’oste. Le strappò di mano la coppa di vino,
prima di tracannarla in un sol fiato.
Pelope lo osservava di
traverso con occhi stretti, dal basso del cappuccio di rozza lana di cui era
fatta la clamide indossata; uno sguardo complice con l’uomo dell’accordo le
bastò a far capire che si trattava proprio dell’ombra.
Lasciò trascorrere i
minuti non staccandogli gli occhi di dosso neanche per un istante, osservandolo
bere il vino che gli colava giù per il mento e la sua figura non più asciutta
come probabilmente lo era stata da giovane, quando al posto delle sgualdrine
c’erano i cavalli del potente esercito del Re Enomao
da domare; eccolo
là, il grande Apyos, generale e primo comandante del
Re.
Ippodamia gli raccontò a grande termini quella che era stata
la sua vita; discendeva da una ricca famiglia di Patrasso l’antica città-porto
dell’Achaia, affacciata sul mare Ionio e famosa per i
commerci con la vicina Grecia Centrale e le isole sparse difronte la sua costa.
Il giovane Apyos venne spedito alla corte dell’allora
Re di Pisa, Asopo, per studiare le arti della guerra
insieme ad altri figli di nobile sangue. Fra questi legò molto con Enomao che altro non era che il nipote del Re, figlio di Harpina primogenita di Asopo e
per discendenza diretta, erede della corona. I due si affiancarono in molte battaglie,
il giovane aveva un senso spiccato per l’addestramento e il combattimento e
quando sul suolo dell’Elide, vi furono spargimenti di sangue per affermare
l’egemonia del Re, dette riprova di suddette capacità affermandosi comandante
prima e generale poi quando al potere salì il suo amico di infanzia Enomao. La loro amicizia si saldò con il passare degli
anni, delle battaglie e delle gioie della vita, ma anche dopo momenti bui,
quando Enomao perse l’unica donna che aveva mai
veramente amato, la madre di Ippodamia, il generale
si tolse ogni armatura e gli restò accanto come semplice amico. Non v’erano
ombre sull’onestà di Apyos e se aveva un difetto, lui
uomo mortale, era quello di temere gli Dei, la loro presenza, il loro giudizio.
Ma di questo, aveva proseguito Ippodamia, non poteva
essere biasimato; tutti gli uomini temono ciò che non comprendono.
E questo era quanto
Pelope aveva voluto sapere, perché conoscere quanto straordinario fosse, quali
e quante riprove di fedeltà aveva dato al suo Re lo avrebbero solo rallentato
nella sua missione; ucciderlo. Cancellare con un colpo di spada tutto ciò che
era stato, senza permettere a nessuno di instillare nel suo cuore l’incertezza,
per un uomo che di certo non avrebbe meritato morire senza onore, senza rispetto.
Svuotò la coppa e
afferrò l’altra voltandosi nella sua direzione; scivolò dalla panca come un
felino avvicinandolo.
Quello si accorse di
lui solo dopo aver abbassato la coppa di vino, la terza, da quando era
arrivato; restarono a fissarsi, Pelope con il ghigno di chi sa e Apyos con l’incertezza della vista quasi appannata.
“Che hai da guardare ragazzo?!” Berciò di un tono superiore al trambusto della sala;
tutti si voltarono a guardarlo.
“Kalà.” Ebbene, rispose suadente. “Volevo vedere se è vero.” E sputò in terra.
“Vero cosa, aghorì?!”Apyos sputò l’ultima parola con disprezzo. Ragazzino. Si issò con un sol colpo di reni, accarezzando
l’elsa; in piedi era ancora più piazzato di quanto non gli era sembrato
vedendolo entrare da lontano, con l’alito che sapeva di vino e di spezie e i
denti lucenti e affilati come quelli di un lupo.
Pelope non aveva paura,
ma il cuore gli martellava nelle tempie, il respiro affannato. Sputò ancora
stavolta ai suoi piedi, accorciando la distanza.
“Che l’uomo tanto valoroso di cui tutti parlano si è
messo a fare l’ombra..” Pelope svuotò la
coppa con il vino in faccia ad Apyos; quello imprecò con gli occhi
arrossati e brucianti, ma avvertendo dei passi affrettati si voltò di scatto alla sua destra vedendo arrivare dal
fondo della sala Nikandrios con la spada imbracciata;
senza rifletterci assestò, come meglio potè, una
spallata contro il petto di Pelope sbilanciandolo all’indietro per guadagnare
poi l’uscita a grandi falcate.
“Uccidilo!”
Pelope indicò l’oste, Nikandrios gli fu addosso lacerandogli la carotide in un
sol colpo. “Bruciate
tutto! Bruciate tutto!” Si lanciò fuori
gridando comandi ai suoi uomini, alcuni lo accostarono nell’inseguimento
liberandosi di spade, mantello, calzari per essere più veloci. In un attimo ci
fu una grande fiammata ad illuminare i campi e il bosco tutto attorno; urla si
dispersero nella radura ma Pelope continuò a correre imperterrito dietro la sua
preda; Apyos arrancava, ebbro di vino.
Nel frattempo il
ragazzo di Pirgos attirato dai rumori e allertato da
un’altra sentinella smosse i cavalli nella direzione del Re; Pelope girò il
viso e vedendolo arrivare gridò estasiato.
“Corri
quanto vuoi generale! Prima dell’alba brinderò al tuo cadavere!”
Piegato sul baio nero
sembrava una furia; la bocca aperta dalla quale fuoriuscivano suoni mostruosi,
i capelli come fruste colpivano l’aria, la mano che brandiva la mazza chiodata
ora volteggiante nell’aria; scemò la corsa e l’animale fiutato l’ostacolo umano
dinnanzi alle sue zampe impennò mostrandosi in tutta la sua mole, schizzando
bava dai denti scoperti.
Apyos si voltò vedendoselo addosso ma l’istinto di
sopravvivenza lo spinse ad arrancare altri passi; d’improvviso si ritrovò con
il volto a terra e un dolore lancinante a bloccargli le gambe. Era finita.
Sputò e urlò.
Era finita.
*
Riconobbe le risate dell’
uomo dal fondo dei cortili di Pisa, come un segno premonitore.
Scivolò dalle lenzuola
fredde e senza sonno per gettarsi addosso la tunica e andargli incontro
incerta, impaurita, curiosa.
Fa che non sia lui. Fa che non sia lui. Ma non si vedeva nulla, i servi erano stati
congedati, le sale delle udienze apparivano gelide e buie.
Le sentinelle sulla
piazza si ridestarono sentendola gridare, batterono le picche al suo passaggio
e si apprestarono a metter luce.
“Il Re è tornato! Sveglia, il Re è tornato!”
In un batter d’occhio,
la piazza interna al castello fu gremita di servitù, pedine silenziose, occhi e
mani pronte, che nulla sapevano eppure tutto sapevano. E tutti si girarono non
appena dal buio delle strade esterne apparì la sagoma di un uomo alto e
riccioluto; il medico di fianco a Sua altezza la Regina tremò esitante,
azzardando qualche passo in avanti, ma Ippodamia gli
bloccò il braccio.
“Quello è il tuo Re. Ed è vivo.” Era sicura. Lo aveva percepito. E vedendolo adesso
camminare alto e fiero voleva solo corrergli incontro e baciarlo
appassionatamente. Ma era la Regina. I Re non corrono verso nessuno, nemmeno
verso altri Re.
Dietro di lui un filo
di uomini spogli, più spogli di come erano partiti lo seguivano, con le facce
polverose, le divise luride, ma i sogghigni di chi già pregustava laute
ricompense da riempirsi la pancia e la vita.
“Mia Regina” Pelope
si inchinò, sfiorandole appena la mano con le labbra, seguito a ruota dai suoi
uomini. “Ti porto i miei successi e la
salvezza della tua vita a me tanto cara.”
“Alzati mio Re. E mostrami chi ha osato offendere il
trono e la mia famiglia.”
Un uomo entrò a cavallo
trascinandosi dietro lo straccio di ciò che rimaneva del colpevole; una figura
simile ad una roccia anche se claudicante e con le gambe tutte insozzate di
sangue, la faccia lercia e le braccia ancora più lerce legate per i polsi al
baio che lo trascinava.
Gli occhi di Ippodamia si strinsero tanto da lacrimare. Ma era
soddisfatta.
Lo avevano costretto a
percorrere tutto il tratto di strada al ritmo del trotto del baio, dalle radure
disperse fino a Pisa; e quando l’animale si fermò, anche egli si fermò,
restando ritto e senza vergogna, senza dar riprova della fatica e del dolore.
Ippodamia immerse delle pezze mediche in un catino d’acqua,
le strizzò e gli si avvicinò. “La polvere copre gli occhi di questo reietto.
Diamogli la vista, fino a quando gli serve.” Rise,
ma il sorriso divenne una smorfia non appena dal lerciume comparvero tratti a
lei conosciuti. Abbassò la mano, delusa. “Ebbene è vero ciò che si mormora..
ti sei nutrito del cibo del tuo sovrano, hai sfoggiato i suoi ori e le sue
ricchezze, il tuo nome è stato inciso nella memoria della storia delle
conquiste per la città, eppure oggi ti trastulli con guitti e cani giocando
alla rivoluzione, macchiandoti persino di tradimento!” Gettò stizzita la pezza ai piedi dell’uomo, “cosa hai da
dire a tua discolpa, Apyos di Corinto, primo Generale
del comando del Re Enomao?!”
La folla si lasciò
andare a gridolini di stupore, fischi e ilarità; d’un tratto tutti si strinsero
in un cerchio soffocante intorno all’uomo che un tempo impartiva ordini per
vece del Re precedente, quello che amava le corse ai cavalli, alla quale egli
stesso insegnò tecniche di perfezionamento e di guerra coi carri. Lo guardavano
con occhi assassini, già ebbri dell’odore di morte, in prima fila per quello
che si preannunciava un finale trucolento.
L’uomo non si attardò
ad accontentarli, si guardò intorno, uno ad uno inchiodò quei volti, schiarì la
voce e sommessamente iniziò a parlare. “Ho servito il mio sovrano come e
quanto di meglio avrei potuto fare, con devozione e rispetto. Ho pagato i dazi
della mia fedeltà con le cicatrici delle battaglie che mi porto dietro ed ho
cenato alla sua mensa come un umile uomo. Ho raccolto il suo corpo dalla
polvere quando è stato assassinato e..” La
folla ululò, Pelope si portò al suo viso colpendolo con il bastone della
lancia; grumi di sangue e denti schizzarono dalle sue labbra, ma proseguì. “..ho pregato
per lui. Ho cercato di metterlo in guardia sui pericoli che incombevano, ma non
ha voluto saperne ed ha pagato con la vita.”
“Il tuo Re era forte, ma non immortale!” Pelope sputò in terra. Lo afferrò per la tunica e gli
lanciò parole serafiche in viso. “Tu dovevi
proteggerlo e lo hai lasciato nelle mani di Mirtilo,
il traditore che ti ha preceduto.”
“Traditore?!” Apyos
scosse il capo; dalla caduta di Enomao non aveva
avuto più notizie dell’auriga.
“E’ stato lui a manomettere il carro di Enomao accecato di bramosia nei riguardi di Ippodamia, sperava di poterla avere per se. Ma questo non è
servito a nulla, i cavalli che Poseidone mi ha donato mi hanno portato alla
vittoria prima del disastro e il tuo Re per mano di un uomo meschino è deceduto
sotto i suoi stessi cavalli.” Il
popolino confermò le parole del sovrano con altre urla affermative; Pelope
soddisfatto lo liberò dalla stretta. “Come vedi, hai
fatto male i tuoi conti, Eskià.”
“Eskià.”
Sussurrò. Ombra. Aveva passato l’intera esistenza a proteggere la
vita di Enomao, ed era stato tanto cieco da non
vedere che il pericolo che aleggiava sulla testa dell’amato sovrano, era proprio
il suo braccio sinistro? Mirtilo, il fedele auriga.
L’uomo con il sangue misto degli Dei, l’uomo che lo rendeva nervoso ogni qual
volta appariva in una stanza, l’uomo che amava i cavalli più degli uomini.
Si trettenne
il capo fra le mani.. la verità era sempre stata sotto ai suoi occhi.
E quegli occhi si velarono, abbassò il capo e
soffiò con voce roca. “Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per la
corona.”
“La corona ti ringrazia.” Pelope si sfiorò l’elsa e proseguì. “Ma tu morirai.”
Venne fatto portare via,
di modo che si potessero dare il via ai
preparativi; una forca dinnanzi a tutto il popolino sarebbe servito a mettere a
tacere gli animi ribelli che lo avevano appoggiato. Si fece trascinare in
silenzio, quasi consenziente, verso il patibolo. Non emise alcun suono, neanche
quando il cappio fu appoggiato intorno al collo tozzo.
*
Fuori era quasi l’alba
e i due monarca si tenevano per mano, a farsi forza; la fatica contornava i
loro occhi di nero fumo, gli abiti smessi.
Ippodamia guardava Apyos priva di
emozioni.
Era stato l’uomo che
l’aveva aiutata a camminare, che le aveva insegnato a maneggiar di spada, che l’aveva
protetta mentre sua padre era via per il continente, eppure non sentiva niente;
tale era stata la paura di perdere l’amato sposo o la vita preziosa dei suoi
figli, che il cuore le si era attorcigliato nel petto, ed ella non sentiva più
niente.
“Apyos di Corinto, Primo
Generale della guardia di Enomao di Pisa, io ti
condanno a morte per alto tradimento.” Pelope
esordì e tutto attorno ci fu silenzio. “Per il tuo grado e per il
servizio prestato alla Corona, avrai l’onore di essere bruciato come un uomo
rispettabile così che la tua anima non vaghi dispersa su questa terra. C’è
qualcosa che vuoi dire, prima di morire?!”
Lei ricordava le loro
battaglie, quando tornavano a casa con le armature inzaccherate di sangue e
l’anima mesta, ricordava le loro risate quando veniva fatta portare a letto ma
oltre le canne dei muri riusciva a sentirli, ricordava i loro simposi, le loro
cerimonie, i loro battibecchi.. eppure, non sentiva niente.
Si domandava se adesso
avrebbero cavalcato nei cieli, assieme. Se l’anima mortale di Apyos avrebbe raggiunto l’Olimpo e quella del suo Re.
“Me lene eskià.” Io sono
l’uomo ombra.
Si chiedeva questo e
molto altro.. mentre il suo corpo era ancora attaccato alla vita, in preda alle
convulsioni, penzolante da una forca.
“Alaya..” Sussurrò, prima
di morire.
Fine capitolo ottavo.