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Autore: Luna_R    09/01/2013    0 recensioni
“Andrà tutto bene.” Mia gli strinse le braccia attorno ai fianchi. “Prega quanto vuoi. Nessuno più di te merita quel trono.”
“Sento la sua presenza Mia.” Guardò la compagna. “Zeus. Tuo padre. Il mio. Chi può dirlo. Ma io sento qualcosa!”
“Prega per loro e lasciali andare. I morti sono solo morti e gli Dei sono solo Dei.” Gli accarezzò la guancia. “Tu sei un Re oggi e sarai un Re domani!”. L’uomo sospirò soffiando nella mano che lenta ridiscendeva sulle sue mandibole serrate; il tocco di una mano gentile, sicura, gli occhi di una donna che lo amava, le parole di chi aveva creduto sempre in lui.
Si commosse ma girò il capo primo che una lacrima bagnasse quella mano.
*seguito della fanfiction "La leggenda di Ippodamia" ispirata al mito di Pelope e Ippodamia.
La mia fantasia, a volte, non si pone limiti.
Spero vi piaccia.
Genere: Avventura, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il destino dei Re.

 

“Me lene eskià” Capitolo ottavo.

 

L’uomo che entrò nella locanda era tozzo, un corto omuncolo con spalle piazzate e bicipiti granitici; si guardò intorno prima di prendere possesso di una stola dove giaceva divertita una delle puttane dell’oste. Le strappò di mano la coppa di vino, prima di tracannarla in un sol fiato.

Pelope lo osservava di traverso con occhi stretti, dal basso del cappuccio di rozza lana di cui era fatta la clamide indossata; uno sguardo complice con l’uomo dell’accordo le bastò a far capire che si trattava proprio dell’ombra.

Lasciò trascorrere i minuti non staccandogli gli occhi di dosso neanche per un istante, osservandolo bere il vino che gli colava giù per il mento e la sua figura non più asciutta come probabilmente lo era stata da giovane, quando al posto delle sgualdrine c’erano i cavalli del potente esercito del Re Enomao da domare; eccolo là, il grande Apyos, generale e primo comandante del Re.

Ippodamia gli raccontò a grande termini quella che era stata la sua vita; discendeva da una ricca famiglia di Patrasso l’antica città-porto dell’Achaia, affacciata sul mare Ionio e famosa per i commerci con la vicina Grecia Centrale e le isole sparse difronte la sua costa. Il giovane Apyos venne spedito alla corte dell’allora Re di Pisa, Asopo, per studiare le arti della guerra insieme ad altri figli di nobile sangue. Fra questi legò molto con Enomao che altro non era che il nipote del Re, figlio di Harpina primogenita di Asopo e per discendenza diretta, erede della corona. I due si affiancarono in molte battaglie, il giovane aveva un senso spiccato per l’addestramento e il combattimento e quando sul suolo dell’Elide, vi furono spargimenti di sangue per affermare l’egemonia del Re, dette riprova di suddette capacità affermandosi comandante prima e generale poi quando al potere salì il suo amico di infanzia Enomao. La loro amicizia si saldò con il passare degli anni, delle battaglie e delle gioie della vita, ma anche dopo momenti bui, quando Enomao perse l’unica donna che aveva mai veramente amato, la madre di Ippodamia, il generale si tolse ogni armatura e gli restò accanto come semplice amico. Non v’erano ombre sull’onestà di Apyos e se aveva un difetto, lui uomo mortale, era quello di temere gli Dei, la loro presenza, il loro giudizio. Ma di questo, aveva proseguito Ippodamia, non poteva essere biasimato; tutti gli uomini temono ciò che non comprendono.

E questo era quanto Pelope aveva voluto sapere, perché conoscere quanto straordinario fosse, quali e quante riprove di fedeltà aveva dato al suo Re lo avrebbero solo rallentato nella sua missione; ucciderlo. Cancellare con un colpo di spada tutto ciò che era stato, senza permettere a nessuno di instillare nel suo cuore l’incertezza, per un uomo che di certo non avrebbe meritato morire senza onore, senza rispetto.

Svuotò la coppa e afferrò l’altra voltandosi nella sua direzione; scivolò dalla panca come un felino avvicinandolo.

Quello si accorse di lui solo dopo aver abbassato la coppa di vino, la terza, da quando era arrivato; restarono a fissarsi, Pelope con il ghigno di chi sa e Apyos con l’incertezza della vista quasi appannata.

 

“Che hai da guardare ragazzo?!” Berciò di un tono superiore al trambusto della sala; tutti si voltarono a guardarlo.

Kalà.” Ebbene, rispose suadente. “Volevo vedere se è vero.” E sputò in terra.

“Vero cosa, aghorì?!”Apyos sputò l’ultima parola con disprezzo. Ragazzino. Si issò con un sol colpo di reni, accarezzando l’elsa; in piedi era ancora più piazzato di quanto non gli era sembrato vedendolo entrare da lontano, con l’alito che sapeva di vino e di spezie e i denti lucenti e affilati come quelli di un lupo.

Pelope non aveva paura, ma il cuore gli martellava nelle tempie, il respiro affannato. Sputò ancora stavolta ai suoi piedi, accorciando la distanza.

“Che l’uomo tanto valoroso di cui tutti parlano si è messo a fare l’ombra..” Pelope svuotò la coppa con il vino in faccia ad Apyos; quello imprecò con gli occhi arrossati e brucianti, ma avvertendo dei passi affrettati si voltò di scatto alla sua destra vedendo arrivare dal fondo della sala Nikandrios con la spada imbracciata; senza rifletterci assestò, come meglio potè, una spallata contro il petto di Pelope sbilanciandolo all’indietro per guadagnare poi l’uscita a grandi falcate.

“Uccidilo!” Pelope indicò l’oste, Nikandrios gli fu addosso lacerandogli la carotide in un sol colpo. “Bruciate tutto! Bruciate tutto!” Si lanciò fuori gridando comandi ai suoi uomini, alcuni lo accostarono nell’inseguimento liberandosi di spade, mantello, calzari per essere più veloci. In un attimo ci fu una grande fiammata ad illuminare i campi e il bosco tutto attorno; urla si dispersero nella radura ma Pelope continuò a correre imperterrito dietro la sua preda; Apyos arrancava, ebbro di vino.

Nel frattempo il ragazzo di Pirgos attirato dai rumori e allertato da un’altra sentinella smosse i cavalli nella direzione del Re; Pelope girò il viso e vedendolo arrivare gridò estasiato. “Corri quanto vuoi generale! Prima dell’alba brinderò al tuo cadavere!”

 

Piegato sul baio nero sembrava una furia; la bocca aperta dalla quale fuoriuscivano suoni mostruosi, i capelli come fruste colpivano l’aria, la mano che brandiva la mazza chiodata ora volteggiante nell’aria; scemò la corsa e l’animale fiutato l’ostacolo umano dinnanzi alle sue zampe impennò mostrandosi in tutta la sua mole, schizzando bava dai denti scoperti.

Apyos si voltò vedendoselo addosso ma l’istinto di sopravvivenza lo spinse ad arrancare altri passi; d’improvviso si ritrovò con il volto a terra e un dolore lancinante a bloccargli le gambe. Era finita. Sputò e urlò.

Era finita.

*

Riconobbe le risate dell’ uomo dal fondo dei cortili di Pisa, come un segno premonitore.

Scivolò dalle lenzuola fredde e senza sonno per gettarsi addosso la tunica e andargli incontro incerta, impaurita, curiosa.

Fa che non sia lui. Fa che non sia lui. Ma non si vedeva nulla, i servi erano stati congedati, le sale delle udienze apparivano gelide e buie.

Le sentinelle sulla piazza si ridestarono sentendola gridare, batterono le picche al suo passaggio e si apprestarono a metter luce.

 

“Il Re è tornato! Sveglia, il Re è tornato!”

 

In un batter d’occhio, la piazza interna al castello fu gremita di servitù, pedine silenziose, occhi e mani pronte, che nulla sapevano eppure tutto sapevano. E tutti si girarono non appena dal buio delle strade esterne apparì la sagoma di un uomo alto e riccioluto; il medico di fianco a Sua altezza la Regina tremò esitante, azzardando qualche passo in avanti, ma Ippodamia gli bloccò il braccio.

 

“Quello è il tuo Re. Ed è vivo.” Era sicura. Lo aveva percepito. E vedendolo adesso camminare alto e fiero voleva solo corrergli incontro e baciarlo appassionatamente. Ma era la Regina. I Re non corrono verso nessuno, nemmeno verso altri Re.

Dietro di lui un filo di uomini spogli, più spogli di come erano partiti lo seguivano, con le facce polverose, le divise luride, ma i sogghigni di chi già pregustava laute ricompense da riempirsi la pancia e la vita.

“Mia Regina” Pelope si inchinò, sfiorandole appena la mano con le labbra, seguito a ruota dai suoi uomini. “Ti porto i miei successi e la salvezza della tua vita a me tanto cara.”

“Alzati mio Re. E mostrami chi ha osato offendere il trono e la mia famiglia.”

 

Un uomo entrò a cavallo trascinandosi dietro lo straccio di ciò che rimaneva del colpevole; una figura simile ad una roccia anche se claudicante e con le gambe tutte insozzate di sangue, la faccia lercia e le braccia ancora più lerce legate per i polsi al baio che lo trascinava.

Gli occhi di Ippodamia si strinsero tanto da lacrimare. Ma era soddisfatta.

Lo avevano costretto a percorrere tutto il tratto di strada al ritmo del trotto del baio, dalle radure disperse fino a Pisa; e quando l’animale si fermò, anche egli si fermò, restando ritto e senza vergogna, senza dar riprova della fatica e del dolore.

Ippodamia immerse delle pezze mediche in un catino d’acqua, le strizzò e gli si avvicinò. “La polvere copre gli occhi di questo reietto. Diamogli la vista, fino a quando gli serve.” Rise, ma il sorriso divenne una smorfia non appena dal lerciume comparvero tratti a lei conosciuti. Abbassò la mano, delusa. “Ebbene è vero ciò che si mormora.. ti sei nutrito del cibo del tuo sovrano, hai sfoggiato i suoi ori e le sue ricchezze, il tuo nome è stato inciso nella memoria della storia delle conquiste per la città, eppure oggi ti trastulli con guitti e cani giocando alla rivoluzione, macchiandoti persino di tradimento!” Gettò stizzita la pezza ai piedi dell’uomo, “cosa hai da dire a tua discolpa, Apyos di Corinto, primo Generale del comando del Re Enomao?!”

La folla si lasciò andare a gridolini di stupore, fischi e ilarità; d’un tratto tutti si strinsero in un cerchio soffocante intorno all’uomo che un tempo impartiva ordini per vece del Re precedente, quello che amava le corse ai cavalli, alla quale egli stesso insegnò tecniche di perfezionamento e di guerra coi carri. Lo guardavano con occhi assassini, già ebbri dell’odore di morte, in prima fila per quello che si preannunciava un finale trucolento.

L’uomo non si attardò ad accontentarli, si guardò intorno, uno ad uno inchiodò quei volti, schiarì la voce e sommessamente iniziò a parlare. “Ho servito il mio sovrano come e quanto di meglio avrei potuto fare, con devozione e rispetto. Ho pagato i dazi della mia fedeltà con le cicatrici delle battaglie che mi porto dietro ed ho cenato alla sua mensa come un umile uomo. Ho raccolto il suo corpo dalla polvere quando è stato assassinato e..” La folla ululò, Pelope si portò al suo viso colpendolo con il bastone della lancia; grumi di sangue e denti schizzarono dalle sue labbra, ma proseguì. “..ho pregato per lui. Ho cercato di metterlo in guardia sui pericoli che incombevano, ma non ha voluto saperne ed ha pagato con la vita.”

“Il tuo Re era forte, ma non immortale!” Pelope sputò in terra. Lo afferrò per la tunica e gli lanciò parole serafiche in viso. “Tu dovevi proteggerlo e lo hai lasciato nelle mani di Mirtilo, il traditore che ti ha preceduto.”

“Traditore?!” Apyos scosse il capo; dalla caduta di Enomao non aveva avuto più notizie dell’auriga.

“E’ stato lui a manomettere il carro di Enomao accecato di bramosia nei riguardi di Ippodamia, sperava di poterla avere per se. Ma questo non è servito a nulla, i cavalli che Poseidone mi ha donato mi hanno portato alla vittoria prima del disastro e il tuo Re per mano di un uomo meschino è deceduto sotto i suoi stessi cavalli.” Il popolino confermò le parole del sovrano con altre urla affermative; Pelope soddisfatto lo liberò dalla stretta. “Come vedi, hai fatto male i tuoi conti, Eskià.”

Eskià.” Sussurrò. Ombra. Aveva passato l’intera esistenza a proteggere la vita di Enomao, ed era stato tanto cieco da non vedere che il pericolo che aleggiava sulla testa dell’amato sovrano, era proprio il suo braccio sinistro? Mirtilo, il fedele auriga. L’uomo con il sangue misto degli Dei, l’uomo che lo rendeva nervoso ogni qual volta appariva in una stanza, l’uomo che amava i cavalli più degli uomini.

Si trettenne il capo fra le mani.. la verità era sempre stata sotto ai suoi occhi.

E quegli occhi si velarono, abbassò il capo e soffiò con voce roca. “Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per la corona.”

 

“La corona ti ringrazia.” Pelope si sfiorò l’elsa e proseguì. “Ma tu morirai.”

 

Venne fatto portare via, di modo che si potessero dare il via ai preparativi; una forca dinnanzi a tutto il popolino sarebbe servito a mettere a tacere gli animi ribelli che lo avevano appoggiato. Si fece trascinare in silenzio, quasi consenziente, verso il patibolo. Non emise alcun suono, neanche quando il cappio fu appoggiato intorno al collo tozzo.

 

*

Fuori era quasi l’alba e i due monarca si tenevano per mano, a farsi forza; la fatica contornava i loro occhi di nero fumo, gli abiti smessi.

Ippodamia guardava Apyos priva di emozioni.

Era stato l’uomo che l’aveva aiutata a camminare, che le aveva insegnato a maneggiar di spada, che l’aveva protetta mentre sua padre era via per il continente, eppure non sentiva niente; tale era stata la paura di perdere l’amato sposo o la vita preziosa dei suoi figli, che il cuore le si era attorcigliato nel petto, ed ella non sentiva più niente.

 

Apyos di Corinto, Primo Generale della guardia di Enomao di Pisa, io ti condanno a morte per alto tradimento.” Pelope esordì e tutto attorno ci fu silenzio. “Per il tuo grado e per il servizio prestato alla Corona, avrai l’onore di essere bruciato come un uomo rispettabile così che la tua anima non vaghi dispersa su questa terra. C’è qualcosa che vuoi dire, prima di morire?!”

 

Lei ricordava le loro battaglie, quando tornavano a casa con le armature inzaccherate di sangue e l’anima mesta, ricordava le loro risate quando veniva fatta portare a letto ma oltre le canne dei muri riusciva a sentirli, ricordava i loro simposi, le loro cerimonie, i loro battibecchi.. eppure, non sentiva niente.

Si domandava se adesso avrebbero cavalcato nei cieli, assieme. Se l’anima mortale di Apyos avrebbe raggiunto l’Olimpo e quella del suo Re.

 

“Me lene eskià.” Io sono l’uomo ombra.

 

Si chiedeva questo e molto altro.. mentre il suo corpo era ancora attaccato alla vita, in preda alle convulsioni, penzolante da una forca.

 

Alaya..” Sussurrò, prima di morire.

 

Fine capitolo ottavo.

  
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