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Autore: BlueSkied    11/01/2013    2 recensioni
La notte dell'Epifania del 1537 Alessandro de'Medici, detestato duca di Firenze viene assassinato dall'amico e congiunto Lorenzaccio de'Medici.
Tocca allora a Cosimo de'Medici, figlio del capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere ed erede del ramo popolare della famiglia, prendere il potere.
Tra raffinato mecenatismo artistico, nuove politiche e disgrazie familiari, condurrà la Toscana verso il Granducato, con la cauta inesorabilità del suo motto.
Note: mi sto documentando il più possibile, per rendere la storia verosimile, ma qualcosa potrebbe sfuggirmi, anche perché spesso le fonti si contraddicono.
Per finalità di trama, alcuni passaggi potrebbero essere violenti.
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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2.



La torre del Palazzo dei Priori svettava nel cielo cupo come un dito ammonitore, gettando la sua lunga ombra sulla piazza. 
Studiandone l’imponenza dal basso in alto, il volto del giovane Cosimo non mostrava nessuna particolare espressione. Il suo cavallo grattò impaziente con uno zoccolo sul lastricato, quasi provasse il nervosismo che il padrone avrebbe potuto o dovuto sentire. Ma Cosimo era tranquillo, perlomeno esteriormente. 
Non doveva mostrare di temere quegli uomini smarriti, avidi, opportunisti. In fondo, non aveva motivo di provare paura. Aveva già deciso di agire con cautela, gli era sembrata la mossa migliore da fare. Se n’era reso conto qualche ora prima, quando, mescolato alla folla, aveva seguito il corteo funebre del Duca. Teneva il cappuccio alzato, per non attirare l’attenzione su di sé, anche se erano in pochi a conoscere il su aspetto e la sua identità, ma non aveva voluto rischiare. 
Non erano state onoranze addolorate, comunque. Cosimo sapeva che i fiorentini avevano parecchi difetti, ma l’ipocrisia non era da annoverarsi in quell’elenco.
I “ Laude” erano stati spesso e volentieri sovrastati da “ Il Diavolo si porti l’animaccia sua!” e benedizioni simili. 
Alessandro de’ Medici non era stato amato dalla sua gente. A essere onesti, aveva fatto ben poco per esserlo. C’erano troppi parenti di fuoriusciti e di gente da lui condannata in quel seguito, perché lo onorassero con parole di cordoglio. Ancora di più, padri, mariti e fratelli di donne da lui insidiate, insieme a quel suo cattivo compagno, Lorenzino ben più noto come Lorenzaccio. 

Cosimo de’Medici s’incupì, rievocando nella mente i giorni passati con quest’ultimo tra la villa del Trebbio, nel freddo Mugello e Venezia. A quel tempo, Lorenzino era ancora un ragazzo svagato e amante dei libri. Non si capiva mai bene cosa gli passasse per la testa, era inquieto in modo misterioso, molto diverso da Cosimo, che tempo per le fantasticherie proprio non ne aveva. Poi era andato a Roma, e là, protetto e viziato da gente molto più ambiziosa di lui, tra cui lo stesso papa Clemente, aveva conosciuto il gusto, forse prima solo sopito, per la baldoria, per le donne e gli eccessi. 
Cosimo ebbe una smorfia di disprezzo. Il ragazzo s’era fatto cacciare con disonore da Roma per aver spaccato arti e teste ad alcune statue antiche. Idiota. Doveva essere ubriaco come un ciuco per aver deturpato qualcosa che aveva amato così tanto, in anni più innocenti. Ma non c’era posto per l’innocenza nei giochi di potere, riconobbe Cosimo, e non c’era niente che corrompeva più del potere. 
Alessandro, invece, era già marcio di suo, fin da fanciullo. Sempre arrogante, pronto a prevaricare e a fare a botte, sprezzante di tutto e tutti. Come doveva essersi sentito tronfio, quando aveva avuto il benestare di papa e imperatore per governare Firenze, subito dopo l’assedio del Trenta. Era proprio il tipo giusto da manovrare, come un bimbo lagnoso a cui si conceda un balocco nuovo, perché la smetta di piantar grane. E da capriccioso e dispotico qual era, aveva fatto del ducato quel che voleva, fino a trovarsi una spada nel petto, affondata dalla mano di suo cugino e migliore amico. 
Cosimo de’ Medici non avrebbe ripetuto i suoi errori, questo era certo. Si trovava a camminare su una lama, e se non voleva tagliarsi, doveva misurare bene ogni suo passo. 
Un altro sbuffo del cavallo lo riscosse e insieme, parve farlo decidere. Fece cenno ai suoi di seguirlo e spronò il destriero in avanti, verso l’incontro che stava per decidere il suo destino e quello di molti.

Il Consiglio dei Duecento e il Senato dei Quarantotto avevano in mano Firenze, in quel momento. Come la stragrande maggioranza dei loro cittadini, anche molti di loro erano impazziti di gioia alla notizia della morte di Alessandro de’ Medici. 
Il problema della successione, però si era rivelato da subito un osso assai duro. Il Duca aveva dei figli illegittimi, ancora bambini, e c’era chi premeva che fosse scelto il maschio, Giulio, un fanciullo di cinque anni. 
La posizione dei Medici e dei loro sostenitori, in quei pochi giorni, era stata difficilissima. Da una parte Carlo V che premeva perché si prendesse una decisione, dall’altra i fuoriusciti che, tolto di mezzo il Moro, speravano di poter tornare a Firenze e instaurare di nuovo la Repubblica. 
Francesco Guicciardini era stato al servizio di Alessandro. Lo aveva servito bene, riservandosi di biasimare la sua condotta solo nei suoi propri pensieri. Per quanto riguardava il suo successore, egli credeva fosse una follia far rientrare gli esiliati. Avrebbe significato sommosse, forse, guerra civile. 
Lo aveva fermamente ribadito più e più volte in quello stesso salone, e adesso, se qualcuno avesse sollevato obiezioni, era pronto a rifarlo. 

Il Salone dei Cinquecento era animato da un brusio costante, carico di attesa, diffidenza e curiosità. Guicciardini vide Rucellai confabulare con un capannello di suoi amici, dall’altro lato della sala. Erano i più vicini agli Strozzi, la famiglia a capo dei fuoriusciti, e il politico sapeva che per loro questo giovane che stava per arrivare era fumo negli occhi. 
Il chiacchiericcio ebbe un brusco calo improvviso, quando venne annunciato il nome di Cosimo de’Medici. 
A Guicciardini, come ad altri che l’avevano conosciuto molto tempo addietro, il ragazzo sembrò il padre miracolosamente redivivo. Ma Giovanni dalle Bande Nere era stato di ben altro temperamento. Un condottiero, un capitano di ventura sanguigno e ribelle, di enorme coraggio. 
Suo figlio lo rievocava solo nell’aspetto: alto per i suoi diciassette anni, di spalle ampie e portamento sicuro, con gli stessi capelli scuri tagliati cortissimi e gli stessi occhi castani, solo che in questi non c’era fuoco, c’era terra. Un giovane equilibrato ed educato, così apparve. 
Molti consiglieri e senatori si rilassarono, a qualcuno spuntò anche un sorrisetto tra il sarcastico e il compassionevole. E loro che si erano tanto preoccupati! 
Il giovane Medici era malleabile, nulla c’era in lui di suo padre o ancora peggio di sua nonna, l’intrepida Caterina Sforza. 
Il capo del Consiglio era di questo avviso. Informò Cosimo della loro proposta: essendo l’unico discendente maschio di entrambi i rami dei Medici, era loro preghiera che accettasse la nomina a nuovo Duca di Firenze che intendevano offrirgli. Il ragazzo rispose con cortesia e modestia perfette. Si riservò pochissimi giorni per trasferirsi in pianta stabile in città e si disse a disposizione del volere del Consiglio, del Senato e anche dell’imperatore Carlo V. 
Quando se ne andò, erano certi di averlo in pugno. Palla Rucellai sghignazzò apertamente con un suo compare, quando Cosimo fu uscito dalla sala:
- Non sarà un bimbo di cinque anni, ma poco ci manca. Un ragazzo di quell’età non pensa certo agli affari di Stato. Sarà facile tentarlo con donne e svaghi, soprattutto se la sua natura è così quieta come ci ha dimostrato- dichiarò, facendo ridere l’altro. Francesco Guicciardini lo sentì:
- Magari avete ragione, messer Rucellai, o magari no- intervenne – Ma un vecchio detto del popolo ricorda che sono le acque chete a far crollare i ponti, messeri- concluse, cancellando il sorriso dalle facce di quei due. 
Sì, Cosimo de’Medici poteva anche dar l’idea di uno facile a piegarsi, a un’occhiata frettolosa. Ma bastava solo qualche attimo di attenzione per accorgersi che la sua anima doveva essere di granito.

Donna Salviati era stata in ansia per tutto il giorno. Era quello che aveva sperato, ma anche temuto. Ora il momento di suo figlio era finalmente arrivato, e del tutto inaspettatamente. Sarebbe stato in grado di reggerlo? 
Maria lasciò vagare lo sguardo nel camino acceso, il cucito abbandonato sulle ginocchia. Solo una madre con un'unica creatura poteva provare quell’angoscia. Una delle serve la chiamò, piano. Maria alzò lo sguardo, per scoprire che Cosimo era finalmente tornato. 
Congedò rapidamente donne e servitori e si alzò dal suo sedile, le mani strette in grembo. 
Suo figlio la guardò in quel modo che le ricordava tanto il suo defunto marito, uno sguardo duro e determinato, ma pieno di fierezza.
- è successo quel che credevamo, madre- esordì Cosimo – Mi è stato chiesto ufficialmente e ho accettato-
- Dunque, vi hanno scelto come successore del Duca. A quali condizioni?- volle sapere la donna.
Cosimo fece un cenno vago con la testa:
- Nessuna, per ora. Appena mi avranno posto le insegne addosso incominceranno, ma so già cosa fare, madre- replicò. 
Intrecciò le mani dietro la schiena e misurò la stanza a grandi passi, un’abitudine data dalla sua indole malinconica:
- Li ho convinti di essere entrato con garbo nella loro trappola, ma ho letto i loro volti- proseguì, serio e puntuale – Credono di potermi muovere a loro uso, e lascerò che lo credano, almeno per un po’. La mia posizione è incerta, quello è un covo di amici degli esiliati. Dovrò trovare un modo di sistemarli, ma la prima cosa da fare è rendere Lorenzino inoffensivo- spiegò.
- Parlerò io con i fuoriusciti- decise Maria – Se le cose si mettessero effettivamente in pericolo per voi, scriverò allo Strozzi. Deve darmi retta, la mia famiglia e la loro non hanno avuto mai di che contendere-
Il figlio la osservò, poi annuì:
- Potreste aver ragione, madre, ma ci penseremo a tempo debito. Devo farmi conoscere dalla città, farmi benvolere. Se i fiorentini mi approveranno, appoggeranno la mia causa contro i nemici dei Medici- dichiarò. 
Sospirò, guardando fuori da una delle finestre. Si volse verso la madre e disse:
- Il mio maestro mi raccontò che una volta mio padre vi ordinò di lanciarmi dalla finestra, tra le sue braccia. Voi obbediste, e io non piansi né urlai. Mio padre disse che sarei stato coraggioso- ricordò, con triste orgoglio.
La donna gli si fece vicina:
- Lo siete, e molto. La strada che dovrete affrontare è dura, figlio, ma so che non vi smarrirete- gli disse, prendendogli una mano. 
Cosimo era un ragazzo introverso, si lasciava andare assai raramente a manifestazioni d’affetto, ma non la respinse:
- Devo sapervi al sicuro, madre. Tornate alla villa di Castello, nessuno deve avere mezzi per colpirmi o distrarmi. Impareranno che so danzare la gagliarda del potere bene quanto loro- promise, rivelando quello che Consiglieri e Senatori non avevano voluto vedere, lo spirito di un condottiero.      
  
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