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Autore: Alopix    12/01/2013    2 recensioni
Cato e Clove.
Due Favoriti, i tributi più odiati da quelli degli altri distretti, ma idolatrati e portati in gloria a casa, nel loro.
Ma com'è la vita di un Tributo Favorito, aldilà della gloria e dell'onore?
Enjoy :)
(Sì, le mie introduzioni sono sempre spettacolari, eh)
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Cato, Clove
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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THE RULER AND THE KILLER


 
“Our machines feed the furnace 
If they take us they will burn us.
Will you still know who you are 
When you come to who you are? 
When the flames have their season 
Will you hold to your reason ?
Loaded down with your talons,
Can you still keep your balance ?
Can you live on a knife-edge?”
[Knife edge- Emerson, Lake and Palmer]*

 

Capitolo 9 

 

Cato P.O.V.

Clove si è addormentata quasi subito quando incomincio a camminare.
Mi sono sentito così sollevato quando ha smesso di ostacolarmi. Aveva un ché di isterico in sé, nel suo comportamento, che in qualche modo mi ha spaventato. Mi ha fatto paura.
Lei non perde mai il controllo. Mai. Qualunque cosa succeda.
Non l’ha perso quando ci siamo quasi uccisi a vicenda, né lo perde ogni volta che Hugo la critica ingiustamente o quando le ho fatto vincere quell’incontro di scherma …
Almeno, non in quel modo.
Non l’avevo mai vista così tanto in preda a un’emozione che non fosse rabbia.
La rabbia. La collera. L’ira. Il furore. L’indifferenza.
Sono tutti sentimenti che le appartengono, che ci si aspetta di vederle addosso. Che lei porta con disinvoltura, se non con orgoglio. Perché è questo ciò che Clove vuole che la gente ricordi quando pensa a lei.  E’ quella l’immagine che lei vuole di se stessa: di una persona sicura, senza debolezze, rigorosa, forte, autosufficiente.  E devo dire che ci è riuscita egregiamente. Non esiste ragazza all’accademia che non la invidi, o non la tema. Sono poche quelle che hanno il fegato di lanciarle occhiate di risentimento, quando la incrociano nei corridoi, alle quali lei, ovviamente, risponde con pura indifferenza, o con un sorriso sarcastico, quando è particolarmente felice. I ragazzi non ci fanno molto caso per il semplice motivo che non sono posti a diretto confronto con lei … al contrario di me, che passo almeno tre ore al giorno ad allenarmi con lei.
Ma oggi… era così tanto fuori di sé, fuori dal suo personaggio.
Quello che l’ha invasa, che la pervadeva e l’animava poteva essere chiamato solo dolore.
Non credevo neanche che fosse in grado di provare qualcosa del genere, figurarsi nei confronti della morte di sua madre. Madre che sembrava odiare e disprezzare con tutta se stessa. Mi confonde abbastanza il modo in cui ha reagito. Forse è per via di suo padre.
Chissà quant’altro nasconde dentro di sé?
Sento un moto di stizza attraversarmi dalla testa ai piedi. Non è questo quello di cui mi dovrei preoccupare. Anzi, non dovrei affatto preoccuparmi di Clove o di quello che le passa per la testa. Lei è un ostacolo. No. Lei è il nemico. Del nostro anno siamo noi i più bravi, quindi noi saremo scelti come volontari. E solo uno può vincere i Giochi.
E quello sarò io.
Non posso permettermi di cadere nella mia stessa trappola.
Devo concentrarmi.
Ora l’importante è garantirmi la sua fiducia.
Mi giro per osservarle il viso. I suoi lineamenti non sono sereni neanche ora che è immersa nel sonno.
Probabilmente, si sveglierà da un momento all’altro.
Con un’ondata d’ansia, mi rendo conto che, una volta sveglia, vorrà delle spiegazioni. Vorrà sapere perché sono qui con lei invece che a scuola, dove dovrei essere.
Ed io non so come rispondere. Sento l’agitazione invadermi.
Sono stato così distratto dalle mie congetture da non pensare neanche alla mia meta. In qualche modo, comunque, mi sono fatto lentamente strada verso il piccolo fiume che attraversa il lato ovest del Distretto 2. Evidentemente, i miei piedi devono avere un cervello tutto loro, perché questo è veramente un posto perfetto.  E’ tranquillo, qui: non viene mai quasi nessuno.
 Non di giorno, almeno. Questa è una delle mete preferite dei Favoriti per le Cacce Notturne.
Ma ora è completamente sicuro: non sembra esserci nessuno, oltre noi due.
Di fianco a fiume, nel versante in cui ci troviamo io e Clove, c’è solo una grande quercia solitaria, circondata da erba e arbusti. A circa una cinquantina di metri dall’altra sponda, invece, nasce un boschetto che si estende per qualche chilometro in quella direzione.
Mi avvicino alla quercia e, il più delicatamente possibile, poso Clove alla sua ombra. La vedo agitarsi, le sopracciglia corrugate, la bocca semi-chiusa e capisco che è sveglia. Si sta semplicemente rifiutando di affrontare di già il mondo esterno.
Si rannicchia su un fianco, dandomi le spalle.
Io mi volto verso l’acqua, a osservare il suo inesorabile corso. Spazza via qualsiasi cosa lo intralci, senza mostrare alcuna pietà.
Probabilmente, è così che mi vedono gli altri, nel Distretto Due.
Forte. Determinato. Letale. Impietoso.
Ognuno dei ragazzi cerca di essere dalla mia parte in una lite –o in un combattimento- sapendo che  fronteggiarmi significa sconfitta certa. Le ragazze mi adulano, ma sono sempre timorose e timide se rivolgo loro una qualsiasi attenzione. Tutte.
Con un’evidente eccezione.
Ovviamente, non ha veramente importanza cosa pensi di me la gente nel Distretto. Sono le persone di Capitol City quelle che devo impressionare. Quello che ho bisogno di impressionare. Il Distretto Due è solo una pratica, come la prova generale prima dello spettacolo vero e proprio.
 E, in realtà, è tutto solo uno spettacolo. Non che i tributi che muoiono ogni anno la pensino esattamente così, penso con sarcasmo.
Comunque, questaprova generale è andata molto bene, finora. Il mio ingresso nell’arena è in pratica garantito. Considerando anche il fatto che la mia (quasi) sicura compagna di Distretto sta lentamente abbassando la guardia –tanto da farsi trasportare addormentata in giro per il Distretto- e inconsciamente diventando sempre più fiduciosa nei miei confronti, la mia vittoria è quasi certa. A meno che gli Strateghi non prendano in simpatia qualcun altro. Ma non vedo perché dovrebbero farlo; sono tutto quello è un perfetto Favorito dovrebbe essere. E la gente ama i Favoriti.
L’unico che potrebbe ostacolarmi sono io stesso.
 Dovrò fare molta attenzione a non perdere tutta la mia risoluzione, nell’Arena.
Sono determinato a dimostrare a mio padre che si sbaglia sul mio conto. Che non sono un buono a nulla. Che valgo la pena di essere considerato e non solo. Che valgo la pena di essere temuto.
Ritorno a concentrarmi sul fiume e, mio malgrado, non riesco a fare a meno di pensare che a me, invece,il suo corso e la sua potenza fa venire in mente qualcun altro.
Qualcuno che adesso è disteso a pochi metri da me.
Qualcuno che non ha mai mostrato segni di debolezza, prima d’oggi.
Sento un movimento e mi giro verso di Clove, la sua ovvia fonte. Si è raddrizzata e si sta guardando lentamente attorno, le palpebre ancora semichiuse e stanche, un’espressione vuota dipinta in volto. Quando i suoi occhi incontrano i miei, regge il mio sguardo, senza dire niente. Forse si sta chiedendo perché l’ho portata qui. O forse non mi sta vedendo veramente. Magari sta ancora cercando di decidere se questo sia un sogno o meno.
Qualunque sia la risposta, a un certo punto si stanca di interrogarsi. Sposta il suo sguardo, avvicina le ginocchia al petto e guarda con aria assente l’acqua.
Io vorrei seguire il suo esempio e tornare a osservare anch’io il fiume, che sento scrosciare vigorosamente alla mia sinistra, ma non posso distogliere lo sguardo dalla sua immobile figura.
L’unico pensiero che riesco a formulare è che, per quanto appaia evidentemente ferita e sconvolta, non ha versato nemmeno una lacrima. Non una.
E non posso fare altro che sentirmi ammirato, di provare rispetto nei suoi confronti. Il suo è un grande atto di forza, di coraggio.
Rimaniamo così fermi, in silenzio, fino a ché non è lei stessa a romperlo.
“Che ore sono?”, chiede, con voce debole, schiarendosi la gola e senza neanche degnarsi di guardarmi in faccia.
Io scuoto la testa, per schiarirmi i pensieri, e guardo in alto, verso il sole, giacché non ho con me un orologio. “Poco dopo le tredici, penso”, rispondo.
Lei annuisce, ma non aggiunge niente in risposta. Continua semplicemente a fissare l’acqua. Il suo viso è ritornato alla solita, fredda espressione calcolatrice che non sembra mai abbandonarla.
Di nuovo, rimango stupito dalla sua forza di volontà, visto che è solo quello che può continuare a spingerla e sorreggerla, a questo punto. L’ho sottovalutata veramente tanto, all’inizio.
Sorrido al ricordo del nostro primo incontro ufficiale. Ma non permetto alle mie labbra di rimanere piegate in su per molto. Lei non è l’unica che deve rimanere nella parte.
Siamo due bravissimi attori, penso.
La lascio stare tranquilla per un po’, ma poi inizio a spazientirmi. Non sono mai stato il tipo che riesce a stare senza far niente. Così mi alzo e inizio a lanciare sassi nell’acqua. E’ in qualche modo affascinante vedere come la corrente riesce a far spostare e a travolgere anche le pietre.
Ma, nonostante questo, dopo qualche minuto, mi annoio anche di questo nuovo passatempo e sono sempre più frustrato dall’accanito silenzio di Clove.
Voglio dire, è veramente così tanto sconvolta da non avere neanche la forza di chiedermi perché io sia qui con lei? Insomma, ora dovrei essere a scuola e lei deve saperlo. Il minimo che potrebbe fare sarebbe lanciarmi un’occhiata inquisitoria per chiedermi spiegazioni per la mia improvvisa comparsa sulla scena della morte di sua madre.
E, in realtà, è proprio quello che sta facendo. Quando mi giro a guardarla, i suoi occhi non sono più fissi sul fiume, ma su di me.
Se non altro è un miglioramento.
Così, mi avvicino alla grande quercia e mi siedo così vicino a Clove che i nostri gomiti si toccano. Lei non reagisce minimamente alla vicinanza e mantiene la sua dritta e rigida posizione, mentre io mi sistemo per stare più comodo.
Sbuffo e inizio a parlare.
“I Pacificatori sono venuti prima nella nostra classe. A quanto pare hanno ricevuto informazioni sbagliate”. Clove rimane impassibile e ritorna a guardare il fiume.
Io continuo.
“Quando hanno chiesto di te ho avuto paura che loro avessero scoperto, in qualche modo, di Orsin, quindi non ho detto niente. Ma tutti quanti sapevano che mi alleno con te e quindi hanno incominciato a fissarmi. Seguiti, ovviamente, dai Pacificatori”. Faccio una pausa per scrutare la sua espressione, ma è rimasta impassibile. Così, proseguo. “Ho detto loro la tua classe. Quando ti ho vista, dalla finestra, andartene con loro ho deciso di seguirti, per assicurarmi che non ti stessero arrestando”.
“E ti hanno semplicemente lasciato uscire dalla classe?”, chiede lei scettica. Non posso impedirmi di sospirare di sollievo nel sentirla parlare.
“Ho detto loro che dovevo andare in bagno”, rispondo, sorridendo.
Per la prima volta in vita mia, sento Clove ridere di divertimento. Non è una grande risata, solo poco più di un respiro, ma lo era. Smetto di fissare il fiume per tornare guardarla e sono sorpreso di vedere qualcosa che assomiglia a un sorriso, sul suo volto. Non sembra felice, ma non appare neanche fredda e calcolatrice come al suo solito.
“Sei così stupido”, rimarca, casualmente.
Io ghigno d’accordo, ma anche per soddisfazione. Soddisfazione perché, mi rendo conto, non riesce a distogliere lo sguardo da me. L’ho incatenata con lo sguardo.  Così non dico niente, e mi concentro solo nel non interrompere questo momento di potere, i suoi caldi occhi cioccolato fissi nei miei.
E anche perché, devo ammetterlo quest’attimo di pace fra noi mi fa stare bene.
Rimaniamo fermi così per un po’, fino a che non mi viene in mente.
 Questa potrebbe essere l’occasione giusta per vincerla totalmente. Potrei farlo con una singola, piccola mossa. Lei sarebbe completamente legata a me ed io avrei non solo un alleato letale e spietato di sicuro nell’Arena. Sarebbe un alleato fedele e affezionato a me. Ora lei è vulnerabile come mai prima d’ora.
Sua madre è appena morta e suo padre è distrutto. L’unica persona che le rimane sono io.
Gentilmente, le sposto una ciocca di capelli sfuggitale alla coda dietro l’orecchio. Con mia grande sorpresa, questo sembra non turbarla più di tanto. Le sue sopracciglia s’inarcano, ma ritornano subito al loro posto appena poso la mano per terra.
Lei continua a guardarmi, più all’erta di prima, ed è così che capisco che è o adesso o mai più.
Così, senza ulteriori esitazioni, accorcio la distanza fra di noi.
 

Clove P.O.V.

 
Mi ritrovo incantata nel suo sguardo. Non riesco a smettere di guardare i suoi tempestosi occhi grigio-blu. E’ come se fossero ipnotizzanti. Dovrei essere incredibilmente frustata e arrabbiata con me per questo, ma, a quanto pare, non riesco a pensare lucidamente al momento.
Ogni cosa, ora, è solo una macchia indistinta di emozioni. Emozioni con le quali non sono solita confrontarmi ma che oggi richiedono la mia attenzione.  Non sono abituata a lasciare che sentimenti diversi da rabbia o rancore comandino le mie azioni, quindi non ho alcuna idea di quello che mi stia passando per la testa.
Sono contenta che Cato sia qui. La sua presenza mi trattiene dal fare cose stupide. Tipo piangere.
Non importa che sia successo quello che è successo o che sia stata tutta colpa mia.
Non ho intenzione di piangere. Me lo sono ripromessa tempo fà e lo farò.
Ma, d’altronde, mamma non si è suicidata proprio perché sono un’insensibile egoista? Sarebbe ingiusto contraddirla a questo punto, penso, con rammarico.
Perché, infondo, io sono veramente addolorata, mio malgrado, che sia morta pensando di me in quei termini. Sebbene non ne capisca il motivo. Alla fine, non è esattamente questa l’idea di me che sto lottando per ottenere? Perché allora è questo il pensiero che mi tormenta, ora? Anche più del senso di colpa? Più dell’apprensione per mio padre?
Non siamo mai state in buoni rapporti, io e la mamma. Non dai miei quattro anni in poi, almeno. Da allora sono iniziate le liti, sebbene all’epoca fossero meno intense. Aveva ancora un certo potere su di me, allora.
Non sono in grado di darmi una risposta –anche se molto probabilmente la conosco e, solo, non voglio affrontarla- quindi smetto di arrovellarmi e riconcentro tutta la mia attenzione su di Cato.
Devo distrarmi, finché posso.
Lui, improvvisamente, mi sposta una ciocca ribelle di capelli dalla faccia e me la ripone gentilmente dietro l’orecchio. Il suo viso è troppo vicino perché io mi possa rilassare. E, anche se sono troppo esausta per essere combattiva al momento, questo gesto è così strano da farmi mettere in guardia.
Ma sono stanca. Non ho dormito quasi per niente questa notte, senza menzionare la mia gamba, che sta ancora sanguinando.
Continuo a guardarlo. La sua espressione si fa strana. Intensa.
Lo vedo iniziare a muoversi verso di me e sono bloccata dallo stupore.
Pensa veramente…
Ma poi le sue labbra si premono contro le mie. Il loro calore mi fa ribollire il sangue.
Solo, non di passione- di rabbia. Libero le mie mani dal loro precedente compito di tenermi le ginocchia vicino al petto per spingerlo via, ma appena si rende conto del mio movimento, mi avvolge con un braccio, forzandomi nel suo bacio.
Io continuo a combatterlo, affondando le mani nel suo petto per spingerlo via con tutta la forza possibile. Ma non funziona. Lui ride sommessamente e mi stringe anche con l’altro braccio.
Come può essere così stupido? Pensa veramente che mi arrenderò?
Questo pensiero mi manda in bestia. Prendendo il controllo della situazione, mordo il labbro di Cato, con forza.  Sento immediatamente il sapore del sangue invadermi la bocca.
“Maledizione, Clove!”, ringhia lui, allontanandosi.
Questo è tutto il tempo di cui ho bisogno. Velocemente, lo spingo via. Lui cade a terra ed io sono sopra di lui subito dopo, nonostante la ferita alla gamba o la stanchezza, un coltello premuto contro la sua gola. L’indignazione sta funzionando anche meglio dell’adrenalina, ora.
 Lui sembra totalmente stupito. Di sicuro non si aspettava una mossa del genere, o che avessi la forza di farla. Mi guarda, pieno di stupore, un rivoletto di sangue gli scende dal labbro.
Come hai osato…”, inizio a urlargli contro.
“Clove…”, incomincia lui con fare rassicurante ma io lo fermo, facendo più pressione con il manico del coltello sulla sua gola. Mi rifiuto di essere calmata.
“NO!”, urlo. “Vai ad approfittarti di quelle deficienti che si siedono al tuo tavolo ogni giorno! Io non sono un tuo giocattolo.”
“Ma io non voglio loro”, mi urla lui di rimando.
“Bé, loro vogliono te, per cui c’è più possibilità che tu abbia loro invece di me”. Sono intenzionata a farmi valere. Ora non si tratta di chi è più forte di chi, o di una stupida sfida. Lui non si deve azzardare neanche a pensare che io sia così stupida da lasciare che si approfitti di me. O che io ne sia contenta. Non deve permettersi di calpestare il mio orgoglio.
“Non m’importa di loro, Clove”, continua lui.
Importare, Cato?”, ribatto. “Da quando di importa di qualcuno?  T’importa solo di te stesso. Te. E questo è tutto. Così come per il resto di noi. Devi sopravvivere e, per farlo, usi la gente. Sono anch’io un Favorito, Cato. Non provare neanche a pensare che io sia così stupida da crederci”. Le mie guancie sono bollenti dalla rabbia.
“Non provare più a mentirmi. Mai”. Mi alzo, dandogli le spalle. Sento una dolorosa fitta alla gamba, nel farlo, ma non ho alcuna intenzione di farglielo capire.
Faccio per andarmene, ma lui mi afferra a mi costringe a girarmi verso di lui.
E’ furioso. Ha gli occhi fuori dalle orbite, il viso arrossato e i capelli scompigliati, così come il rivoletto di sangue, non fanno altro che aggiungere al suo aspetto un ché di bestiale.
Mi sta stringendo i polsi in una morsa d’acciaio.
“Dovresti calmarti, Clover”, mi ringhia contro in poco più che un sussurro. Io mi ribello alla sua stretta, per quanto mi è possibile. Non ho paura di lui. Voglio solo tornare a casa. Sono disgustata dalla sua presenza. Ma ancor più dal fatto che,alla fine, mi stavo veramente fidando di lui. O non sarei stata così indignata.
Strattono le braccia per liberarmi –sono troppo vicina a lui per potergli dare un calcio- quando lui, improvvisamente, lascia la presa, facendomi cadere a terra.
La ferita sta pulsando dolorosamente, perde molto sangue.
“Penso che dovresti tornare a casa”, continua a ringhiare lui. Riesco quasi a percepirlo il veleno che impregna ciascuna delle sue parole.
Non è contento che io gli abbia scombussolato i piani, non è così?, penso, sadicamente.
“Il paparino si starà preoccupando per la sua figlioletta”, dice, un espressione di scherno e di puro sdegno dipinta in volto.
Io mi alzo, infuriata, e trovo la forza di spintonarlo, prima di incominciare ad allontanarmi, il più velocemente possibile. Il ché significa non molto, visto che ho perso veramente molto sangue.
“Goditi la camminata!”, sento che mi urla dietro Cato, l’ira tangibile nella sua voce.
 Io, senza voltarmi, gli rivolgo un gestaccio con la mano destra e continuo a camminare.
Ma presto scopro che ha ragione. Camminare è una pura agonia.
Sono così tanto furiosa con me stessa per aver abbassato la guardia, questo pomeriggio.
Non importa che mia madre sia morta, rimarco nel pensiero, non posso essere così vulnerabile. Mai.
Ero totalmente alla mercé di Cato, oggi. Se avesse voluto, avrebbe potuto tranquillamente uccidermi. A suo piacimento.
Chissà perché non l’ha fatto…
Sto zoppicando per le strade di periferia del Distretto Due. E’ una zona malfamata. Potrei incontrare chiunque. Ma non ho intenzione di fermarmi, non ora.
La quercia vicino al fiume dove ci trovavamo oggi è distante più di cinque miglia dalla mia casa. Ora mi manca a mala pena mezzo miglio per arrivare a destinazione, nonostante la fatica e il fatto che stia quasi per svenire per la quantità di sangue che ho perso.
Ma non posso permettermi di svenire, non qui. Non è detto che mi sveglierei, altrimenti.
Continuo a spingermi in avanti, anche se non sono sicura di potercela fare. Ogni parte di me mi sta implorando di gettare la spugna e di collassare al suolo e lasciare che qualcuno mi trovi, buon intenzionato o meno che sia. Mio padre sarà preoccupato e non mancherà comunque molto prima che incominci a cercarmi, sempre che non abbia già incominciato.
Ma so che sarebbe stupido. E’ quasi il tramonto, ho impiegato tantissimo tempo ad arrivare fin qui, e presto questa zona sarà piena di gruppi di Favoriti in cerca di prede. Anche se, in realtà, in questo preciso momento, l’idea di abbandonarmi al suolo e lasciare che sia qualcun altro a decidere del mio destino, anche se questo potrebbe prevedere la mia morte, mi alletta parecchio. E non solo per la spossatezza.
Non sono pronta ad affrontare il dolore di mio padre, ancor più perché, esattamente come lo so io, di essere la causa indiretta della morte di mamma, lo sa anche lui. E questo non me lo perdonerà mai.
E’ solo il pensiero di tutte le ragazze invidiose- sia per le mie superiori abilità ma anche perché mi alleno con Cato- che farebbero i salti di gioia nell’avermi come preda e che si vanterebbero in giro di avermi uccisa a spingermi a continuare. Il mio orgoglio ha anche la meglio sulla stanchezza, a quanto pare.
Non morirò di certo in una maniera così poco… onorevole.
Cato. Anche solo il suo nome mi fa avvampare di rabbia.
Perché diavolo ha messo in scena quella trovata, oggi? Si aspettava veramente che io credessi che lui tenga a me? E anche se gli avessi creduto… e lui fosse stato sincero… cosa credeva di fare? Non può semplicemente baciare me.
Me.
 Che probabilmente sarò nell’Arena con lui.
I legami emotivi costituiscono solo un peso, qualcosa che non vuoi portarti appresso nei Giochi.
Uno solo può vincere.
Ho quasi raggiunto la mia casa quando papà appare alla fine della strada di fronte a me. Le sue guance non sono più rigate dalle lacrime, il che è un bene: non so se avrei potuto sopportarlo. Non ora.
Mentre si avvicina, deve notare la mia gamba, o l’espressione sul mio viso, o il mio schifoso aspetto in generale, perché, di colpo, inizia a correre verso di me.
“Clove!”, urla la voce carica di preoccupazione.
Vorrei rispondergli, ma non sono sicura di averne la forza, così mi limito a camminare verso di lui.
Quando mi raggiunge, mi lascio finalmente andare e collasso fra le sue braccia. Lui mi stringe forte, cullandomi.
Sento che sta respirando in modo irregolare e capisco, attraverso la nebbia che mi sta avvolgendo i pensieri, capisco che è in preda ai singhiozzi. Ricambio il suo abbraccio, per quanto mi è possibile.
Lui ha bisogno di me esattamente quanto io ho bisogno di lui, in questo momento.
Così, mi lascio andare.
 Dopo un po’, sembra ricordarsi della mia condizione, così allontana il viso quel tanto che gli basta per guardarmi in faccia.
“Andiamo a casa”, mi sussurra dolcemente, fra le lacrime.
Mi prende di peso in braccio e inizia a trasportarmi verso la salvezza. Esattamente come aveva fatto Cato. Solo che papà non mi tradirà. Non mi lascerà da sola.
Giusto?
 
 
 
 
 
 
 
N.d.A.

*“Le nostre macchine nutrono la fornace,
Se ci prenderanno, bruceranno anche noi.
Saprai ancora chi sei
Quando capirai chi sei?
Quando le fiamme raggiungono la loro stagione
Ti aggrapperai alla tua ragione?
Con il peso sui tuoi talloni,
Riesci comunque a mantenere il tuo equilibrio?
Riesci a vivere sul filo del coltello?”
 
Sono curiosa di vedere che interpretazione date alla canzone, se ne avete voglia. J
Em  em.
Sì, sono ancora viva.
Lo so. Ci ho impiegato secoli, ma ho delle spiegazioni valide.
Primo: devo ammetterlo, all’inizio ho aspettato volutamente per lavorare a questo capitolo, nella speranza di ottenere qualche recensione in più. Ma niente. Perché, dovete capire, che io, sì, scrivo perché mi piace, ma soprattutto per condividere le storie malate che il mio cervello partorisce. Se non mi fate sapere niente, perdo la voglia di fare. Non è simpatico parlare da soli.
Secondo: quando ho deciso di lasciare stare e che non era il caso di ritardare di troppo ho avuto un meraviglioso e simpaticissimo “blocco dello scrittore”. Sebbene non pensassi potesse affliggere me, poiché, tecnicamente, non lo sono. E invece può. E l’ha fatto. Semplicemente, questo capitolo, per quanto possa non sembrarlo, è cruciale per il resto della storia. Con questo capitolo dovevo decidere piega far prendere agli eventi. Immaginate voi le crisi di panico che mi hanno preso. Se avessi sbagliato, avrei avuto Clove alle calcagna.
Terzo: quando finalmente mi sono decisa, mi ha abbandonato la connessione a internet e su di quello io non ci potevo fare niente.
Per cui.
Spero vivamente non ritardare tanto in seguito.
E spero anche che vi facciate sentire, perché se no… insomma, l’ho già detto prima. Ho bisogno di sostegno e di critiche per andare avanti.
Con affetto,
A.
   
 
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