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Autore: ClaryMorgenstern    12/01/2013    4 recensioni
Clary la ignorò e guardò meglio la statua. Non potè che concordare con Jace su quell'obbrobrio. Le ispirava un disgusto immenso, come d'altronde i demoni che voleva rappresentare. Le unghie sembravano scintillare di sangue fresco, e gli occhi erano vacui, scolpiti senza pupilla e..
Si mossero.
[Crossover The mortal instruments   /   The infernal devices]
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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The hero of my tale,
whom I love with all the power of my soul,whom I have tried to portray in all his beauty,
who has been, is, and will be beautiful, is Truth.
L. Tolstoy

 
 


Capitolo XXIII
The Hero of my tale.


Alec aveva imparato, negli anni, a seguire Jace senza fare domande solo in un poche occasioni. Quando gli aveva confidato, per la prima volta, di voler essere lui a uccidere gli assassini di suo padre, ad esempio. O quando si era fissato con l'idea di andare a recuperare Clary, dopo che l'avevano vista per la prima volta al Pandemonium. Delle volte era proprio impossibile fermare Jace senza farsi del male.
Il ragazzo vide il suo parabatai riporre la ciocca di capelli in tasca con estrema delicatezza, quasi avesse paura che potessero sparire nel nulla.
Così come aveva paura che Clary sparisse per sempre.
Alzò lo sguardo su di lui. «Abbiamo bisogno di Will e Jem.» disse, e senza aspettare una risposta si precipitò all'interno di Buckingham Palace.
Alec e Isabelle ebbero appena il tempo di accorgersene prima di precipitarsi dietro il loro fratello. «L'ultima volta che li ho visti, erano in uno dei balconcini»
«Dovranno rimandare a dopo le chiacchierate imbarazzanti.» fu la secca risposta di Jace. Si tenne in un silenzio teso mentre spalancava le porte della sala da ballo. La musica era troppo alta perché i commensali potessero accorgersene, ma un cameriere venne sbattuto a terra a gambe all'aria. Jace non lo degnò nemmeno di uno sguardo, dirigendosi spedito verso i balconcini. Tessa e Will vicino al cornicione, molto vicini e Jem che li guardava dalla porta. Nessuno stava parlando.
«Mi dispiace interrompere questo piccolo menage a trois»  disse con l'aria tutt'altro che dispiaciuta. «Ma ho bisogno di voi.»
 
Will alzò un sopracciglio. «E' davvero qui che si nasconde?» chiese. «Poteva trovare un luogo meno..appariscente»
«Io ancora non capisco cosa ci faccia lui qui» sbottò Isabelle,  guardandolo di traverso. Stavano su una carrozza, nel cuore di Londra. Davanti a loro il Big Ben si confondeva con le tenebre del cielo.
Il diretto interessato le lanciò un'occhiata annoiata, come se fosse matto. «Non avrei mai lasciato venire Jem da solo»
Izzy alzò gli occhi al cielo. «E perché Jem è qui?» chiese. «Senza offesa» aggiunse poi, gettando un'occhiata alle sue spalle, dov'era Jem.
«Tranquilla. Sono abituato ad avere idioti intorno.»
«Concordo» disse Alec, al fianco di Jace, guadagnandosi un'occhiataccia da quest'ultimo.
Erano arrivati davanti a un palazzo che Jace conosceva bene, e di sicuro anche Will e Jem. Il Big Ben si stagliò davanti a loro come una delle torri antidemone di Alicante, come fossero  pronte  a bucare il cielo per arrivare agli Angeli sopra di esso. Jace scese dalla carrozza ancora prima che quella si fosse fermata. Era stata Isabelle ad averlo condotto a forza su quell'affare, sostenendo che di certo non gli avrebbe fatto bene farsi tutta quella strada di corsa, per poi combattere. A Jace non sarebbe importato: Avrebbe percorso pure l' Inferno, per raggiungere Clary. Stare chiuso nella carrozza era stato frustrante, ma almeno aveva avuto il tempo di fare e farsi fare i marchi da Alec.
La porta che conduceva all'interno era di legno massiccio, a due battenti. Jace si precipitò a spalancarla, ma appena fece un passo dentro le viscere della struttura, una forza immane lo scaraventò all'indietro, facendolo battere con la schiena a terra. Il ragazzo rimase per qualche istante senza fiato dal dolore, poi riscattò in piedi.
Sulla porta, c'era una cosa. Lucida come la lama di una spada angelica, e Jace non dubitò che fosse altrettanto letale. Alta come il doppio di un essere umano, ne aveva anche le parvenze. Spalle larghe, gambe lunghe e braccia sottili. Il viso era al contempo simile a tutti i visi e unico a sé stesso. E in una delle grosse mani teneva un martello grosso almeno quanto il braccio di Jace. Appena il ragazzo si rimise in piedi, la cosa di metallo lo brandì contro di lui.
«E' un automa!» gridò la voce di Will. Aveva usato un tono allarmato, ma con una traccia di fredda rabbia tagliente quanto il metallo di cui era composto l'automa
Sentì Jem, al suo fianco, trattenere il respiro. «Mortmain» mormorò.
E non ci fu più tempo per le spiegazioni. L'automa brandì qualcosa che teneva nella mano sinistra. Un coltello da macellaio macchiato d'olio nero, grosso quanto una mazza da baseball.
Isabelle fece scorrere la frusta, che le scese dal braccio come un serpente fatto di fili d'oro. Schioccò con un colpo sonoro andando a colpire la cassa toracica, le braccia, le gambe di quella cosa. Quella aprì la bocca e urlò. Sembrava il rumore di quando una volta, a New York, aveva messo dei sassolini nel frullatore di Maryse.
Jace scattò in piedi, estraendo al tempo stesso due chakram dalla cintura. Li fece volare con uno scatto e quelli andarono a colpire il collo della creatura. Dalla ferita uscì una colata di olio nero come la pece, ma a parte quello sembrò che non se ne fosse neanche accorto.
Allora Will e Jem scattarono, da affiatati parabatai, come fossero una cosa sola. Will al sinistro e Jem al destro, si attaccarono alle braccia della creatura. Cercando di scrollarseli di dosso, quella fece un giro su sé stessa come fosse una strana creatura dei cartoni animati. Jace guardò Alec e vide che anche lui lo stava guardando. Un solo cenno da parte del fratello, e Jace scattò verso di lui. Alec congiunse le mani e Jace mise sopra di esse il proprio stivale e spiccare un balzo. Finì, con un salto elegante, su un abete solitario sul ciglio della strada. Tenendosi con le gambe per non cadere, si chinò a prendere il suo parabatai, portandolo con sé sull'albero. La creatura di metallo continuava ad andare girando con Will e Jem al seguito, Jace riusciva a sentire la risata bassa e profonda di Will che si mescolava a quella più alta di Jem.
Alec e Jace dovettero aspettare qualche secondo, poi la creatura si avvicinò all'abete. Saltarono insieme, finendo ognuno su una delle due spalle dell'automa.  Isabelle fece schioccare la frusta dorata, che andò ad avvolgersi nelle gambe di metallo della creatura, immobilizzandola.
Insieme estrassero la lama angelica e con un sol colpo, fatto di quella simmetria  perfetta che solo i Parabatai potevano avere, gli tagliarono la testa.
Con un tonfo attutito dall'erba morbida, la testa di metallo colpì il terreno e per un secondo gli parve che quegli occhi senza pupilla fossero davvero quelli di un cadavere.
Il corpo rimase immobile dov'era, come preso da una strana sorta di rigor mortis.  Jem e Will furono i primi a scendere, poi Alec. Jace rimase lì dov'era per qualche secondo. Per un secondo, un solo istante, aveva visto qualcosa muoversi in una delle finestre: una piccola fiamma rosso scuro.
Clary.
«Scendi da lì!» era la voce di Isabelle, cenciosa alle sue orecchie. «Ce ne potrebbero essere altri, dobbiamo andare.»
Lui saltò, atterrando proprio accanto a lei. «Non credo» disse. Si girò e diede un calcio potentissimo alla creatura, che cadde come un sacco di patate sull'erba umida. «Credo che non pensassero arrivasse qualcuno in grado di buttarlo giù.»
Will arcuò un sopracciglio. Come gli aveva fatto notare Clary, era una cosa che anche lui faceva spesso. «Davvero credevano che non avremmo cercato Clary?»
Jace fece un sorriso, estraendo la ciocca di Clary, setosa tra le sue dita. «Credevano che non avrei capito la differenza» mormorò assente. «Ma di lei non sanno niente. Né di me. Né di noi.»
S'incamminarono per la porta lasciata spalancata dall'automa, più lentamente, stavolta. La strada illuminata dalla stregaluce che Alec teneva tra le dita.  Seguirono un corridoio polveroso. Quello culminava in un immenso corridoio buio.
All'improvviso, sentirono un grido. Nel cuore di Jace si spezzò qualcosa: Era la voce di Clary. «Muoviamoci» disse solamente, e scattò verso il corridoio di sinistra. Corse così come gli aveva insegnato suo padre: Così veloce da rendere tutto intorno a sé una macchia indistinta di colore.
Quando il corridoio finì su un pianerottolo, Jace non ci pensò due volte a prendere le scale che portavano al piano superiore. Sulla cima delle scale, Jace sbattè contro qualcosa di molto duro. Un rivolo di sangue gli bagnò il labbro, ma non se ne curò. Aprì gli occhi, davanti a sé non aveva niente. Provò a camminare di nuovo, ma era come se ci fosse un muro invisibile tra Jace e il pianerottolo. Alzò una mano e la posò su quel muro invisibile. Estrasse lo stilo dalla cintura: la runa diakop si creò sinuosa sotto la punta del suo stilo, articolata come il fiocco di un pacco regalo. Ci fu un rumore stridente come di metallo che si accartoccia e il muro invisibile si dissolse in un cumulo di polvere grigiastra che si andò a depositare sui suoi stivali.
Jace era in testa, sul gradino più alto delle scale, Will immediatamente dopo, Jem, Isabelle e quindi Alec, essendo troppo strette le scale perché potessero starci tutti. Quando infine il muro si fu dissolto del tutto, Jace fece per continuare a muoversi, ma si fermò subito. Un assordante boato aveva fatto tremare le scale e le mura della struttura. Jace non mosse un muscolo. «Cos'è stato?» chiese.
«Non lo so» rispose Will, guardandosi intorno. «Ma di certo non erano dei topolini.»
Il rumore tornò più forte: Fu solo un momento prima che le scale cominciassero a crollare sotto i ,loro piedi. Nel tempo di un respiro, Jace estrasse un pugnale dalla cintura e lo conficcò nel legno dei pavimento del piano superiore, aggrappandovisi prima che la solidità sotto i suoi piedi sparisse. Gettando uno sguardo ai suoi compagni, vide Will tenersi per una sporgenza della parete con le dita talmente bianche da sembrare ossa. Jace spostò la presa sulla mano sinistra e tese l'altra al ragazzo. «Will!» gridò.
Will alzò lo sguardo su di lui. Si sporse e afferrò la sua mano. Jace tirò con tutta la forza che aveva in corpo, sentendo le ossa del suo braccio quasi spezzarsi per lo sforzo, e tirò Will sul pavimento del piano superiore a cui lui era aggrappato. Provò un sottile piacere nel constatare che aveva sbattuto la faccia sulle assi di legno. Imprecando, il ragazzo si tirò su e, afferrandolo per le braccia, porto Jace con sé. Il ragazzo urlò di dolore: Doveva essersi slogato una spalla. Tenendosi il braccio ferito, Jace si sporse sul baratro. Le scale erano crollate fino alle fondamenta: Jace riusciva a vedere con chiarezza le macerie accatastate in fondo. Sul pavimento del piano inferiore, dalla quale poi erano arrivati alle scale, c'erano Isabelle e Jem inginocchiati sul pavimento intorno ad Alec, sdraiato a pancia in su con gli occhi chiusi e un colorito pallido. Jace urlò il suo nome, ma quello non rispose.
Jem alzò lo sguardo su di lui. «E' svenuto, ma sta bene» gli disse. «Occupati del mio parabatai, io mi prenderò cura del tuo»
Jace non se lo fece ripetere due volte, anche se detestava ricevere ordini. In un attimo di distrazione, si chiese quanti anni avesse Jem. Si volse verso Will, anche lui con lo sguardo fisso al basso. «Alza la manica» gli disse. Will obbedì, scoprendo la pelle del braccio. Come tutti gli Shadowhunters, la pelle diafana del ragazzo era costellata di cicatrici pallide da stilo. Jace vi contribuì, disegnandovi con mano esperta un iratze.
Erano strani, gli inglesi. Pensò Jace, tracciando la matrice di linee scure dell'iratze. La loro pelle era di un bianco innaturale, bianca come il latte. Le rune scure sulla sua pelle spiccavano come inchiostro sulle pagine di un libro.
Quando ebbe finito, porse lo stilo a Will, che fece la stessa cosa sul suo braccio. Jace strinse i denti. Immaginò che lo avesse fatto a posta a calcare con lo strumento. Finito, gli porse lo stilo e Jace se lo rinfilò nella cintura.
Quindi, si sporse di nuovo. Alec era sveglio, adesso. Si era messo a sedere mentre si reggeva la testa. Isabelle stava facendo i marchi a Jem, nel frattempo. Quando li videro, alzarono tutti lo sguardo. «Che facciamo adesso?» chiese Izzy, urlando per farsi sentire.
«Ci dividiamo» fu la risposta di Jem, «Troveremo un'altra strada, voi continuate a salire.»
Jace annuì. «Ci vediamo in cima» Jace lanciò un'occhiata ad Alec, che a sua volta lo stava fissando. A un suo cenno, Jace si alzò. «Andiamo, Herondale» disse a Will, mentre quello si rialzava in piedi. «A quanto pare siamo io e te, adesso.»
Il grugnito poco entusiasta di Will si rispecchiava alla perfezione col suo stato d'animo. Non che Jace facesse molta attenzione a lui, comunque. Mentre passavano per i corridoi, alla ricerca della fiamma di capelli rossi di Clary, Jace non faceva che pensare a lei. Di quanto fosse stata bella quella sera, mentre ballava stretta a sé, tra le sua braccia. Di quanto fosse stato felice per un momento, semplicemente guardandola. Aveva letto in quello sguardo un amore profondo quanto il suo. Tutto questo, solo per averla stretta tra le braccia il tempo di un ballo.
Da quello che aveva visto prima, Clary doveva essere in cima alla struttura. Jace e Will continuarono a salire per un tempo che gli parve infinito, segnando ogni corridoio nuovo con lo stilo per evitare di tornarci due volte.
A rompere il silenzio calato tra i due, fu Will. «Che intendevi con 'non sanno niente di noi'?»
Jace gli lanciò un'occhiata da dietro le proprie spalle. Alla luce delle candele, vide nei tratti di Will qualcosa che gli ricordò vagamente le fotografie che aveva visto di Stephen Herondale. Un po' la forma del mento e senz'altro il taglio degli occhi. Clary aveva ragione: Avevano gli occhi identici, se non per il colore. «Sei mai stato innamorato?» Gli chiese, al posto di rispondere.
Will non rispose, tenendo lo sguardo fisso sull'ennesimo corridoio che stavano attraversando.
Visto che non ottenne risposta, Jace continuò. «Tessa, non è vero?» disse con l'ombra di un sorriso. Diede un calcio a una porta alla sua destra, spalancandola. All'interno c'erano solo dei vecchi banchi impolverati accatastati l'uno sull'altro. «Io la amo, lo sai? Clary.» disse, un po' a sé stesso, un po' a Will. «E ho passato più tempo di quanto tu possa immaginare ad amarla da lontano. Io la amo, e lei ama me. E non c'è niente, assolutamente nulla, che possa cambiare questo fatto. Evidentemente, chi ha fatto quell'incantesimo credeva che non avrei riconosciuto una copia. Ma loro non possono creare una seconda Clary, per quanto possa essere simile.»
«Parli di questo amore come se fosse  una forza inarrestabile e pura» disse Will, con rabbia. «Ma forse lo sopravvaluti, ed è stata solo fortuna.»
Jace fece un sorriso sottile. «Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria;»
«Non citarmi Dante» sbottò Will. «L'amore non è perfetto e non per tutti esiste un lieto fine.»
Il ragazzo fece un verso esasperato. «Perché devi pensare alla fine? Che ti importa di quello che succederà?»
«Mi importa eccome. Se scelgo Tessa, posso perdere molto altro.» disse.
Jace piantò i piedi e si fermò. Will lo imitò, qualche passo più avanti, guardandolo interrogativo. «Tu e Tessa siete fratelli?» chiese.
«Cosa?» sbottò scioccato l'altro.
Il ragazzo lo guardò truce. «Rispondi.»
Will aveva uno sguardo disgustato. «No, certo che no.»
«E allora» fece Jace. «Non permettere a nulla e a nessuno di impedirvi di amarvi. Io lo so cosa vuol dire che tutto ciò che provi è disgustoso e  sbagliato. Ci sono passato. E non posso sopportare che l'amore vada sprecato in questo modo. È troppo prezioso, per essere perduto così.»
Seguì un lungo silenzio, in cui Jace e Will si guardarono in cagnesco.
Infine, quest'ultimo disse: «Stai cominciando a parlare come una donnicciola.»
«Beh, almeno io ho ancora le palle. Tu puoi dire lo stesso? »
 
La runa appena fatta sulla pelle bruciava come la capocchia di un fiammifero appena spento. Jace aveva sfilato la cravatta e aveva gettato la giacca scomoda. In battaglia, solitamente, indossava quella di pelle spessa della tenuta per proteggersi da lame e veleni.
La leggera giacca di lana era il totale opposto. Avrebbe potuto stapparla Clary con le unghie. Jace e Will erano arrivati all'ultimo piano del Big Ben.
Segnando le due del mattino, il rintocco delle lancette era stato così forte che Jace l'aveva sentito all'interno della cassa toracica e nel cranio. Aveva cercato di nuovo la posizione di Clary, con la runa. L'aveva vista al buio, tra le braccia di Cameron. Lui aveva qualcosa in mano, qualcosa di affilato e brillante alla luce delle candele. Un coltello, e lo stava puntando al suo avambraccio, con precisione chirurgica verso le vene. Chiuse gli occhi con forza, per combattere la nausea che lo aveva afferrato, e quando li riaprì vide Will.   «È con Cameron. Devono essere in questo piano» disse Jace, la voce sottile per la rabbia.
«Ho già controllato le porte» disse Will. «Non è dietro nessuna di queste»
«Dev'essere nascosta da un incantesimo. L'ho vista.»
Will sospirò. «E come diavolo facciamo a scoprirla?»
Jace cominciò a camminare avanti e indietro per il corridoio. Clary poteva essere dietro una qualunque di quelle porte, celata dal suo sguardo dalla magia. Lei, proprio lei che era magia pura. Se fosse stata lei, a doverlo cercare, se ne sarebbe uscita con una super-runa personalizzata "Trova Jace"creata su due piedi.
Si fermò. Non doveva trovarla. L'aveva già fatto, per quei capelli rossi inconfondibili al tatto e alla vista. L'avrebbe sempre fatto.
Doveva riuscire a vederla, come lei aveva sempre visto lui. E non si riferiva dell'atto fisico del vedere in sé, ma una visione più profonda ancora.  Lei lo vedeva. Vedeva il ragazzo bastardo e testardo al limite dell'inverosimile, un ragazzino spaventato da solo in una città sconosciuta, il bambino che piangeva per un falco ucciso.
Insieme, loro erano perfetti, da ogni angolazione possibile.
Per questo sapeva cosa fare.
 
Erano a casa di Magnus, Jace e Clary soli.
Il simpaticone di Magnus li aveva visti litigare per una sciocchezza, dopo la festa, e allora aveva fatto sparire tutti gli ospiti e, prendendosi Alec a braccetto, era sparito dietro la porta d'ingresso, facendola poi sparire.
Voleva dar loro un po' di privacy, per far pace e, ubriaco com'era, aveva pensato che murarli vivi lì dentro fosse la soluzione migliore.
Logica sbronza.
La migliore.
Dopo averla sfruttata, quella privacy, Clary aveva sospirato, staccandosi da lui e aveva sfilato lo stilo dalla cintura di Jace.
«Mostrare ciò che è stato nascosto» aveva mormorato, mentre si sedeva a gambe incrociate sul pavimento e faceva scorrere la punta dello strumento sulle piastrelle sporche. La figura venuta a formarsi era lineare e schematica. E la porta traballante si era mostrata ai loro occhi, inizialmente come una massa sfocata e senza forma, per mostrare ciò che era stato nascosto dalla magia.

 
«Mostrare ciò che è stato nascosto» mormorò Jace, riaprendo gli occhi. Lo stilo era ancora nella sua mano destra, ancora leggermente caldo dopo la runa fatta.
Si lasciò cadere a terra e disegnò la runa. Semplice, schematica, lineare, precisa come una formula matematica. Will lo guardava attento, senza perdersi una mossa.
Alcune ciocche di capelli biondi gli ricaddero sul viso, ma lui non le scostò. Alzò il viso. Due porte comparvero sui muri paralleli del corridoio, come masse di colore scuro sfocate, rovinate da tempo e umidità.
Dietro una di quelle due porte, c'era Clary.
Jace si rialzò in piedi, togliendosi la cenere dai pantaloni. «Andiamo» e s'incamminò nel corridoio ma fu fermato dalla mano di Will, che si strinse in una morsa d'acciaio attorno al suo braccio.
«Per l'Angelo, cosa diavolo era quello?»
Jace pensò in fretta. «Una runa» rispose meccanicamente.
Lo sguardo azzurro di Will si assottigliò. Un lampo azzurro di rabbia e sconcerto. «Ti prego di non prendere in giro la mia intelligenza, Lightwood.» sibilò. «In questo momento sono il tuo unico alleato. Hai bisogno di me, quindi devi dirmi la verità.»
«Fattelo dire: Hai un'ossessione strana per la verità.» disse Jace, piccato. Quindi strattonò il braccio per liberarlo dalla presa.
«Voi due siete strani» disse Will, come se lui non avesse parlato. «Tu e Clarissa. Isabelle e Alexander sono strani come possono esserlo due Americani.» storse il naso, come se quella parola fosse nauseante.
Jace fece un sorriso sottile. «Anche Tessa è Americana, se non ricordo male.»
L'altro ragazzo fu velocissimo. In un secondo l'aveva fatto sbattere spalle al muro, premendogli il braccio sinistro sulla gola. Jace, però, non era un ragazzino qualunque da mettere al tappeto. Afferrò con forza il braccio di Will e, chinandosi all'improvviso, fece leva sulla schiena e lo scaraventò a terra. Will cadde di peso, battendo ogni osso della spina dorsale.
Il ragazzo fece un passo verso Will. «Non me ne potrebbe importare di meno della tua curiosità» gli disse, guardandolo negli occhi. Azzurro contro oro. Erano simili a quelli di Alec, e si chiese dove fossero i suoi fratelli. «Ma hai ragione. Ho bisogno di te per trovare Clary. Quindi, ti propongo un accordo.» Gli porse una mano, per aiutarlo ad alzarsi. Will lo guardò scettico. Forse immaginava che ci tenesse uno spillo pronto a pungerlo. «Tu adesso mi aiuterai, e in cambio, quando sarà tutto finito, ti dirò tutto ciò che vuoi sapere.»

  
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