4.
Paura
Una
settimana dopo.
Sarah è il nome che ho scritto all’interno della mano, con la penna rossa. Ci
passo il dito sopra, e adesso sembra sangue, una bella ferita, anche profonda.
La campanella suona ma io sono già in classe, come sempre. Quarto banco, né
troppo avanti né troppo dietro. Dal lato interno, in modo che nessuno si
rivolga a me per aprire o chiudere la finestra. Con lo zaino fra le gambe, per
non impedire il passaggio a nessuno. Testa bassa, mani in grembo, occhi fissi a
leggere il quaderno aperto davanti a me. Nemmeno una parola. Il suono della mia
voce inquina l’aria, ne basta l’indispensabile.
La porta si apre.
«Buongiorno.»
«Buongiorno,» rispondo.
Il professor Morgan, i capelli brizzolati e l'espressione gentile, poggia la borsa sulla cattedra, mentre altri studenti si
affrettano ad entrare. L’unica cosa che mi dà sollievo, adesso, è che presto
nessuno penserà a me. Il vocio dei ragazzi mi mantiene ben ferma, qui sulla
Terra. Ho la mente leggera, spesso la sento volare via dal corpo… forse sono
più di là che di qua. Anche da piccola ero così… anche prima… prima…
«Ragazzi, silenzio… per
favore,» dice il professore. Solo adesso mi guardo un po’ intorno. Nessuno lo
ascolta, non prima che lui «Ma avete intenzione di continuare così per tutta la
lezione? No, perché mi piacerebbe molto riempire il registro con una bella nota.»
Silenzio.
Il professor Morgan fa un colpetto di tosse. «Oggi continueremo con la
realizzazione dei vostri elaborati, li valuterò alla fine del quadrimestre,
come ho già detto. E controllerò che stiate lavorando diligentemente. Prima di
continuare, vi informo che si è iscritto al corso di artigianato anche Martin
Scott dell’ultimo anno, fra i pochi studenti che si apprestano a questa
disciplina. Bene, dividetevi in gruppi. Martin, oggi puoi guardati un po’
intorno, vedere come lavorano gli altri…»
Tutti cominciano ad alzarsi, lo faccio anch'io solo quando la maggior parte si è allontanata. Mi avvicino all’armadietto, prendo il grembiule bianco, lo infilo. Mentre cammino verso il mio tavolo da lavoro, mi sistemo i capelli che sono finiti dentro il grembiule.
Vado a sbattere contro qualcosa.
Qualcuno.
«Ciao.»
Alzo lo sguardo e perdo
il respiro. Occhi verdi, capelli leggermente lunghi che gli sfiorano le guance, alto.
Stai bene? Sento ancora la sua voce rimbombarmi nella testa.
Riprendo a respirare. «Ciao.»
La mia voce è appena accennata.
Si stringe nelle spalle,
inclina la testa e riesco a scorgere quello che deve essere un sorriso sulla
sua mascella pronunciata.
È il ragazzo del bus.
Quello che era anche al Cinema.
Lo sorpasso e raggiungo
il mio tavolo. Mi abbasso, sotto c’è la scatola con le cose da finire, quelle
per la lezione, insieme alla spago e agli strumenti di plastica e ferro. Metto
la scatola sul tavolo.
«Tu sei Sarah, non è
così?» È ancora lui.
Alzo lo sguardo, ora è accanto a me, con i gomiti poggiati sul bancone come a
guardarmi dal basso verso l’alto.
Smettila.
«Non sei Sarah?»
continua.
Annuisco, veloce. Non lo guardo. I
capelli mi finiscono sugli occhi, li scosto, mi sento sudare. Sta parlando con me. Tiro fuori la creta
e la carta del giornale.
Sta parlando con me.
Infilo i guanti, mentre
la ragione comincia ad andare in circolo.
Bene, ora che hai visto meglio il mostro da vicino
puoi andare via.
«Io sono Martin,
comunque.» Mi porge la mano ed io alzo gli occhi verso di lui.
Cosa vuoi da me? Le sue sopracciglia si inarcano, come se avesse percepito la mia
domanda. Abbassa lo sguardo per un secondo, vuoi
che ti faccia male, è così?
O forse no.
Forse lui è solo carne e
cuore e sentimenti.
Respiro. Cerco di articolare
qualche parola. Sì, no, ciao...
«Scott
di cognome,» aggiunge. Mi stringe la mano. Mano aperta, poi
chiusa, stretta sulle mie dita. Mi sfiora il polso con il pollice, ha
le dita
ruvide e fredde. Tremo, forse trema anche lui.
Ho paura.
Ma lui sorride.
Cerco di lasciare la sua mano. Cerchiamo di farlo entrambi ma...
«Oddio… scusa.» Non so come, ma della colla liquida è sul mio guanto e ora fila fra il tessuto di plastica e le dita di Martin. Accade così, e poi mi rendo conto di aver parlato. La mia voce è venuta fuori graffiata, come se fossi un involucro di metallo.
Ride. «No, non è niente. Ora ce la faccio, aspetta.»
La colla è densa e
appiccicosa, quando butto un occhio alla scatola capisco come faccia ad essere finita qui. Il barattolo
della colla si è rovesciato nella scatola, ed io mi sono infilata i guanti così velocemente, da
ignorare che un po’ di liquido me li avesse sporcati.
Sta ridendo.
Ha una risata simile ad
una folata di vento calda, di quelle che non ti aspetti, che ti fanno anche
sentire il ruvido dei granelli di sabbia della spiaggia.
«Sicuro che…»
«Credo che il tuo guanto
si sia preso una cotta per la mia mano.» Sento ancora le sue dita. Con l’altra
mano mi sfiora la pelle fra il guanto e il maglioncino. Tira il guanto e la colla si sfalda, una parte gli
rimane attaccata al palmo, l’altra resta sul mio guanto di gomma. «Hai un
guanto molto disinibito. Gli si è appiccicato al primo sguardo.» Sorride.
Campanelli di cristallo.
Li ho visti sul mobile
del soggiorno, basta un piccolo sfioro per farli suonare insieme alle palline
d’ottone.
È questo, il suono che
sento.
E viene da me.
Martin si stacca la colla
dal palmo, anche se avrà le mani sporche e appiccicose fin quando non se le
laverà con il sapone.
Nel mio silenzio c’è
qualcosa di diverso.
Ho sorriso e il mio fiato ha fatto rumore.
Mi porto le mani al viso.
Non posso credere che sia successo. È una specie di modo per nascondermi, per
toccarmi, per sentire, palpare le labbra e i denti.
Sto sorridendo.
«Dai, non importa, tanto
adesso ti sporchi di nuovo,» riesco a dire. Faccio un respiro profondo e lui
si sfrega le mani, la felpa blu gli fa sembrare gli fa gli occhi ancora più chiari.
«Giusto,» dice. Prende
una palla di creta e se la rigira fra le mani. «Allora, che facciamo?»
Posso parlare. Posso farcela. «Io continuo la mia
rappresentazione di frutta, tu... non lo so.»
«Non mi va di stare con le
mani in mano.»
«Allora devi metterti il
grembiule.»
Martin aggrotta la fronte
e si guarda intorno, seguo il suo sguardo. Tutti stanno facendo qualcosa:
modellano, disegnano, tagliano, incollano… tutti indossano un grembiule.
«Ma è obbligatorio?» chiede ancora.
«Direi di sì.»
Martin fa una smorfia. Fa
per passarsi una mano fra i capelli e poi sembra che ci ripensi – per la colla
–, abbassa il braccio e si incammina verso l’armadietto. Lo guardo. Apre le
ante.
«Prof… questo grembiule è
troppo piccolo, posso non metterlo?»
Sento lo sbuffo del
professore. «No, Scott, mi dispiace. »
«Non è la mia taglia.»
«Ma le regole sono regole.»
Martin sbuffa. Prende il grembiule dall’armadietto, lo chiude, ed io mi
affretto a guardare fisso sul tavolo, mentre lui si avvicina.
«Non ridere,» mi dice,
mentre si infila una manica.
«Non rido.»
Non lo so fare.
«E' facile, vedrai.»
Martin comincia a mettere
le mani in quella pasta dura e bagnata. Io stendo la creta, prendo uno stuzzicadenti
e comincio ritagliarne delle forme. Ogni tanto alzo il viso e Martin si lecca
le labbra, mentre stende la creta con il
palmo. Sembra concentrato. Ha gli occhi socchiusi, respira piano, e a un
centimetro da lui posso sentire un odore fresco di aghi di pino, succo aspro e
caffè.
Quando il professor
Morgan esce dalla classe, Martin alza lo sguardo e si toglie il grembiule. Non
gli dico niente. Sono troppo persa a sentirmi.
«Sarah… che ti è successo
al Cinema l’altra volta? Stavi male… hai…»
Mi fermo.
Sbaglio a tagliare la
forma di un ricciolo che avrebbe fatto da cestino alla mia natura morta. Lascio
cadere lo stuzzicadente.
«Non mi piaceva quella
scena del film.»
«Era solo una sparatoria.»
«Non sopporto il dolore.»
Non riesco a fermare le
parole che mi scivolano sulla lingua e vengono fuori dalla mia bocca. Martin mi
guarda. Martin, Martin che fa un passo avanti e io uno indietro, verso
l’armadietto. Martin che socchiude le labbra e sospira, io tengo chiusi i
polmoni.
E poi sorride.
«Sai una cosa? Io non
sopporto i piselli.»
Mi sento stordita. Forse
perché è tutto assurdo, forse perché sono assurda io perché… perché forse è
solo un secondo ma lo sto facendo. Avevo
paura di te, sai?
«Che cosa ridi?»
Forse mi hanno dato dei sedativi o del veleno per
farmi spegnere a poco a poco.
«Niente.» Ma ora è diverso. Ora sto ridendo.
Lo so perché mi avvicino di nuovo al tavolo e riprendo a ritagliare ma
Martin mi spintona leggermente, con la spalla. Puoi farlo ancora. Sorride. Puoi
farlo ancora. «Scusa, non volevo.» Puoi
farlo ancora. Mi tocca e uno strano stridore mi si annida dove mi batte il
cuore, perché la mano mi trema e so che non riuscirò a far nulla, nemmeno a
respirare o a far funzionare il cervello. Si è spento improvvisamente, mentre
tutto il resto è acceso.
Quando suona la
campanella non riesco a muovermi. Posso sentire i passi di tutti, le scarpe da
ginnastica che picchiettano sul pavimento, le ante dell’armadietto che sbattono.
Martin mi guarda ed io guardo lui.
So solo una cosa.
Per un istante, la paura non c’è più.
*
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Lettori carissimi <3 Mi scuso per l'immenso ritardo, ma davvero non ho potuto postare prima. Lo studio ultimamente sta prendendo il tempo di tutte le mie giornate, mi scuso con tutti voi. Non potete immaginare quanto mi dispiace. Non ho ancora risposto alle recensioni, spero di farlo presto ma vi dico già da qua QUANTO SIETE FANTASTICI E MERAVIGLIOSI *-* Grazie per il vostro sostegno, non saprei come fare senza di voi, grazie, grazie, grazie *-*
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, nel frattempo spero di poter aggiornare presto, farò il possibile <3 <3 <3
Un bacio