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Autore: Lupz    12/01/2013    0 recensioni
''La vita è una voragine aperta verso ciò che non si conosce e non si può conoscere, è un continuo andare verso l’ignoto, superando limiti invalicabili senza accorgersene, da cui si torna sempre mancanti di qualcosa, mutilati di un pezzo di sé che se ne va con il dolore, più consapevoli, più insensibili ai colpi che possono essere inflitti, ma più fragili, meno pronti a fidarsi di qualcuno, sapendo che prima o poi, inevitabilmente si verrà feriti. Una sfida più difficile di qualunque altra, un viaggio pieno di pericoli, che qualcuno si decide ad affrontare, solcando le onde di un mare in tempesta anche su una piccola nave, e senza equipaggio, pronto a fronteggiare qualsiasi rischio pur di raggiungere i propri obiettivi; qualcun altro, invece, non ha la stessa forza, non vuole tentare la sfida, e rimane sulla terraferma, soggiogato da un destino che non sa più contrastare. Siamo tutti un po’ come Ulisse, costretti ad un viaggio più grande di noi stessi per ritrovare ciò che ci è stato strappato via; ma solo alcuni riescono ad intraprendere questo tipo di viaggio, ed ancor meno sono quelli che non si perdono mentre scoprono davvero a cosa vanno incontro.''
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era una giornata fredda, come ormai tutte le altre. Della serie che il gelo ti si conficcava nelle ossa, e non ti lasciava mai. Ma non mi faceva più effetto, camminavo con le mani congelate nelle tasche e nemmeno lo sentivo più, il freddo. Perché mi ero abituata, come ci si abitua a tutto. Prima o poi impari a farti scivolare le cose addosso, con una noncuranza paurosa. C’è solo una cosa a cui è più difficile abituarsi, quelle ferite che restano sempre aperte dentro te. O almeno, io non ci sono ancora riuscita. Sono le più crudeli, e quando sembra che si siano chiuse tornano a farsi sentire, per forza. E ti tolgono tutto, ti lasciano un vuoto, una voragine, un abisso. Un vuoto freddo. Ma poi forse, alla fine, mi stavo abituando anche a quelle: le sentivo, sempre, ma arriva un momento in cui tutto finisce di fare male. E così me le portavo insieme, senza badarci più. Che me ne importava.
Era una domenica mattina, ed era tardi. Non avevo voglia di fare niente, come al solito, e camminavo con lo sguardo basso, senza pensare. Mi sentivo tranquilla, quasi in pace con me stessa. Bene, stranamente bene. Dopo la settimana che mi ero lasciata alle spalle sarei dovuta crollare, ma non mi andava nemmeno più di perdere tempo inutilmente a piangermi addosso. Avevo sopportato tanto fino a quel momento, non potevo mollare a quel punto, ma ero consapevole di non poter nemmeno continuare a portare tutto sulle spalle. Non lo so, cosa avevo intenzione di fare, cosa avevo intenzione di pensare. A quel punto, niente. Era arrivato il momento di fermarsi un attimo, così, stop, e riprendersi se stessi. Perché mi ero persa, chissà dove, chissà quando, chissà come.
In quel momento mi guardavo intorno, osservavo la gente, e non ci trovavo niente nelle persone. Tutte così uguali e insignificanti. Solite maschere, solita apparenza, niente di più, come tutti, come sempre. E dietro le maschere, il vuoto. Le persone si nascondono perché non sono altro che finzione, se non ci fosse quella non ci sarebbero neanche loro. Le persone non sono, come il non essere di Parmenide, nella realtà non esistono. Ma in fondo non me ne frega niente. Quella mattina ero un po’ troppo insensibile, mentre di solito non lo sono mai, ma che ne so, sarà stato il freddo di quella giornata, forse aveva intorpidito anche ogni mio sentimento. Che poi era strano, strano che non mi importasse niente, che mi fosse scivolato tutto addosso. Non accadeva mai. Di solito le cose mi si incastravano nella testa, tra i pensieri, nell’anima e rimanevano lì bloccate. Non riuscivo mai a passare oltre, e me le portavo dentro per sempre, sepolte da qualche parte, pronte a riaffiorare a loro piacimento. Invece quella volta no, era stato diverso. Gli avvenimenti mi avevano colpita con una forza inaudita, una bomba che aveva minato la mia instabile calma apparente, ma poi, dopo l’esplosione, calma piatta. Le ferite si erano riaperte, una volta ancora, ma non facevano più male come una volta, ed ogni giorno sempre meno. Non perché si stessero chiudendo, forse perché dopo che me le ero portate addosso da una vita non sentivo più lo stesso dolore di prima, ecco tutto. Ed io quella mattina camminavo così, con tutte le ferite scoperte e sanguinanti, ma senza che mi accorgessi della loro presenza. Per di più, dopo che ero stata ferita così tante volte, ormai anche i colpi inflitti con più cattiveria, quelli che prima mi facevano crollare, adesso avevano perso il loro potere.
Ma basta, adesso basta. Questo tipo di pensieri è capace soltanto di generare il caos nella mia testa. Le parole sono dannose, quando non si riesce ad esprimerle, e rimangono bloccate in gola, ma anche quando le si utilizza nel modo sbagliato. Ultimamente stavo cercando di raggiungere  una conclusione, di darmi una risposta alla domanda che sempre mi martellava: ma a cosa servono così tante parole, tutte queste cazzate che spara la gente? A cosa servono le parole, se non ad usarle come schermo, per nascondersi dietro? Penso che avrebbero un valore inestimabile, ad esser utilizzate nel modo giusto, se rispecchiassero la realtà di una persona e non la sua apparenza, se esprimessero quello che davvero si sente, si prova, se aiutassero a liberarsi quando si ha bisogno di dire qualcosa. Invece le parole ormai sono semplici parole, buttate al vento per caso, senza più alcun valore, senza più nessuno scopo, se non quello di ferire, taglienti e affilate, più di tutto il resto. Purtroppo è stato superato ogni limite, chi parla lo fa per offendere, chi resta zitto ha un mondo che gli esplode dentro, ma preferisce non esprimersi, forse per paura di non essere capito, forse per paura che tutto ciò che conta venga calpestato dagli altri, confuso nel rumore e disperso nella nebbia del nulla più assoluto. Forse appartenevo al secondo di questi due gruppi, pur sapendo bene che a volte ferire con le parole era necessario, l’unico modo per difendersi. A questo punto, perciò, avevo deciso di cambiare un po’, o almeno provarci. Avevo deciso che non valeva la pena: era del tutto inutile perdere tempo a dover studiare ogni situazione, cercare di comprenderla, perché tutto quello che vedevo intorno a me era la rappresentazione più spregevole della falsità che regnava sovrana; era del tutto inutile tentare di spiegare a persone che non si degnavano di capire. In questo modo non si arriva da nessuna parte, se non a perdersi tra cose che non esistono, e sinceramente, a me non va più.
 
Quella domenica mattina non sapevo nemmeno perché fossi uscita. Voglia di confondermi tra gli altri, fingendo di essere come loro, forse. Oppure no, forse ero stranamente allegra, senza sapermi spiegare il motivo. Dovevo aver lasciato tutti i miei problemi da qualche altra parte, dimenticati. Per questo motivo camminavo da circa mezz’ora, senza sapere verso dove, con la musica nelle orecchie e gli occhi bassi. Intanto restavo da sola con me stessa, respiravo libertà a pieni polmoni. Mentre camminavo cominciai a riflettere, sempre riguardo la gente, era quella la questione che in quel momento mi interessava. A questo pensavo: sai qual è il problema, che la gente non sa più chi è, cosa vuole veramente, tutti non fanno altro che scappare da se stessi, perché tutti vengono confusi da un mondo che ti spinge ad essere chi sei, e poi ti distrugge se sei diverso dagli altri. La gente quando resta sola con se stessa si toglie la maschera e finisce di recitare la propria parte. La gente quando resta sola con se stessa ha paura, paura di scoprirsi diversa da ciò che finge di essere, di essere diversa da quell’ideale di cui recita il copione. È questo il vero dramma. Che la gente ha paura, e si nasconde perfino a se stessa. La gente. Odio quella parola, ‘la gente’ è solo un modo come un altro per omologarsi al resto. Ed io, non so se alla fine sono diversa questa massa di persone tutte uguali, che tanto critico, o se sono solo un fantoccio, impaurito di mostrarsi per quello che è, pilotato da mille fili invisibili, mai davvero libera, e come tutti gli altri. Non volevo saperlo, almeno per quella mattina volevo fingere di essere libera, perciò facevo quello che mi pareva, senza che mi importasse niente di ciò che avrebbero pensato gli altri, di me, della vita, del mondo. Tutti criticano tutto, ma in quel momento potevano parlare quanto volevano, potevano usare tutte le parole che conoscevano, potevano esprimersi in ogni lingua, attraverso ogni tipo di espressione, non mi avrebbero raggiunto in alcun modo. Dopo tutto il veleno che mi ero presa, ero estranea e lontana da ciò. Okay, non mi era passato del tutto, a volte, anzi spesso, ancora mi faceva male, perché l’incomprensione è il modo più terribile per farti capire quanto sei lontana, da tutto il resto del mondo, quanto sei sola. Però ci stavo lavorando, stavo cercando di convincermi che anche quando si è soli non bisogna arrendersi. Non è mai detta l’ultima parola, anche se diventa un po’ più difficile. Ma come detto prima, ci si abitua a tutto prima o poi. Anche se l’abitudine spesso è un danno.
 
Me ne tornai a casa con tutta la confusione che avrei voluto lasciarmi alle spalle. Non ci riesco mai, a non pensare. Ma tralasciamo. Avevo tante di quelle cose da fare che per fortuna mi sarei distratta un po’ da tutti questi pensieri astratti e insidiosi. Avevo in mente una sola cosa in quel momento, greco. Era capace di farmi impazzire più di tutto il resto. Il greco è assurdo, chi non l’ha mai provato non può capire, è la materia che fa uscir di senno tutti gli studenti. Me ne stavo alla scrivania con il libro di versioni davanti agli occhi, e il vocabolario alla mano, e mi dicevo che ce la potevo fare. In fondo il greco è difficile, ma non impossibile. Prendiamola da questo punto di vista: ci sono cose più complicate. Ci sono situazioni così contorte che non sai come uscirne fuori, ci sono persone che non riuscirai a capire in nessun modo, perché non ci sarà mai un vocabolario pronto a spiegartene i significati. Queste sono le imprese che non riesco mai ad affrontare. Magari è anche più semplice di quanto creda, magari è più semplice di una versione di greco, ma mi sembra di avere un blocco in alcuni casi. Un muro che è ancora invalicabile. Dopo questi pensieri non vedevo più il greco come un mostro. Soltanto, continuava ad irritarmi quando qualcosa non aveva senso. Già nella mia vita non trovavo un senso a niente, non poteva mettersi anche lui contro di me. Perciò alla fine mi misi di impegno, e non fu nemmeno così tanto tremendo. Ci impiegai poco più di un’ora e soddisfatta chiusi tutto. Nella vita un’ora non bastava mai per niente.
Avevo ancora sonno, ovvio, io ho sempre sonno: troppi impegni, troppa stanchezza accumulata sulle spalle, tutti che mi chiedono sempre troppo. Mi serviva un momento di riposo, staccare un po’ la spina, allontanarmi dal resto delle cose. Lo stress, la mia rabbia verso il mondo, lo stato di allerta e di inquietudine, la completa diffidenza, tutto contribuiva a distruggermi. Ed infine, sentivo di non essere mai appoggiata da nessuno, le mie scelte dovevo prenderle da sola e a volte barcollavo, perché, sempre assalita dai dubbi, non avevo idea di quale fosse la strada più sicura, e troppo spesso finivo per sbagliare, e dovermi attribuire tutte le colpe dei miei infiniti errori. Non stavo mai tranquilla insomma.
A tutto ciò, forse come conseguenza necessaria e indesiderata, si aggiunse un’altra spiacevole situazione: stavo iniziando a fare le cose senza più convinzione, cioè mi chiedevo sempre più spesso, ma perché sto ancora qua a fare qualcosa di cui non mi frega più niente? E succedeva per tutte le attività che prima avevo affrontato con entusiasmo e con passione. Portavo avanti tutto senza crederci, solo perché dovevo, e nemmeno mi interessava più. Fredda e distante, lontana, così mi sentivo da ogni punto di vista, in ogni situazione. Troppo distaccata e passiva, come non mi piaceva essere: avevo sempre ritenuto che se non ci credevo davvero in una cosa era inutile che la facessi, e adesso mi ritrovavo a comportarmi come una macchina, programmata per una certa operazione, senza trovare un senso, un motivo valido che mi spingesse a continuare. Non trovavo soluzioni, trovavo solo il problema, ed il problema ero io. Mi ero spenta all’improvviso, non riuscivo a provare alcun interesse o desiderio, e l’abitudine mi stava logorando, con i suoi ritmi distruttivi e sempre uguali. Io sono una che ci mette il cuore nelle cose, in tutto quello che fa, che dice, e se dico una cosa, una qualsiasi parola che esce dalla mia bocca, non è mai per caso, ma perché la sento. Perciò mi domandavo perché. Per difendermi, forse? Già, per far finta che non mi interessassero i colpi che mi venivano inflitti, perché tanto agivo soltanto costretta da un obbligo opprimente e ininterrotto; per fronteggiare gli insuccessi, avendo già la giustificazione pronta, anche se voleva dire non impararci niente. Io non sono questa. Che significato aveva tutto ciò? Che mi ero arresa perché sapevo di combattere una guerra già persa in partenza? Che avevo subito deposto le armi e l’avevo data vinta così facilmente a chi voleva vedermi crollare? Probabile, e non mi stava bene. Ma era un periodo, un periodo particolarmente negativo. Ok, non bastava come giustificazione, ma cosa altro avrei dovuto fare? Mollare tutto, non fare più niente perché non mi andava di fare più niente e avevo perso ogni interesse? Perché a ritrovare la passione in qualcosa, proprio non ci riuscivo.
Non era il momento giusto per pensare a questo, credo. Non volevo chiedere a me stessa di rispondere a tutte quelle domande, perchè le soluzioni non sapevo trovarle da nessuna parte, e sicuramente non le avrei trovate bombardandomi con interrogativi che per me stessa restavano grandi dilemmi. Ok, stop anche a questo. A volte nella mia mente c’è tanta di quella confusione che mi ci perdo dentro. E a volte affogo.
 
Trascorsi tutta la domenica in questo stato di indecisione, senza riuscirne a trovare una via d’uscita. Che giornata triste. E il giorno dopo non sarebbe andato tanto meglio. Il pensiero di dover andare a scuola di certo non influisce in modo positivo su di me, mai. Quei nove mesi sono sempre un inferno, sono solo un’attesa lunghissima, la sopravvivenza per raggiungere ancora illesi le prossime vacanze. Ogni singolo giorno di scuola uccideva parte del mio interesse, parte della mia curiosità verso il mondo. Il pensiero di dover fare tante cose che non mi interessano minimamente, questo mi distruggeva, tanto che mi sentivo già sfinita, stanca, soltanto immaginando quello che mi aspettava. Andai a dormire disperata, pensando che odiavo il lunedì, o meglio, che odiavo tutto, tutti e anche di più.
E il giorno dopo mi svegliai davvero incazzata. Luna storta. Probabilmente avevo avuto qualche incubo strano quella notte, o se anche così non fosse stato, la situazione non sarebbe ugualmente cambiata di molto, incazzata ero e tale rimanevo. Per prima cosa non avevo nessuna intenzione di alzarmi, volevo restarmene tranquilla sotto le coperte ancora per un po’, fingendo che tutto il resto intorno a me fosse perfetto. Però, maledetta sveglia, mi ricordò che si trattava di un sogno irrealizzabile, e che intorno a me niente era perfetto, ma tutto faceva schifo, la realtà era un incubo, caos e rumore. Se l’inferno esisteva, doveva essere quello, perché non pensavo che potesse esistere di peggio. Quindi mi alzai. Entrai in classe portandomi dietro tutta la mia luna storta. Era una giornata che non prometteva nulla di buono. Il cielo era del tutto coperto da una cappa grigia di nubi, che contribuivano a far accrescere il mio mal di testa e a rendere tutto ancora più monotono e noioso. Quando il tempo è così fosco, ha un certo influsso su di me: sa farmi diventare più nervosa e più cupa di quanto già sia per natura. Perciò quel giorno non ero nelle migliori condizioni. Per di più, immancabilmente, avevo sonno. La ripetitività del paesaggio che vedevo attraverso le finestre non mi aiutava affatto, non faceva altro che contribuire a farmi sentire gli occhi pesanti, e per di più non mi comunicava nessun sentimento. Indifferenza. Non la sopporto.
Alla fine, le cinque lunghissime ore trascorsero più velocemente di quanto temessi, accompagnate dal mio odio verso quel cielo muto, che attraverso il suo orribile colore grigio non riusciva a dirmi niente. Prima di scappare da quella classe così insignificante, mi fermai un attimo a riflettere, e pensai che quel giorno, caso strano, le solite spiegazioni erano state sostituite da qualcosa di più interessante. Non in assoluto, ovvio, ma almeno in minima parte. I prof erano cambiati tutti rispetto all’anno precedente, un po’ di diffidenza, dovuta penso alla poca conoscenza, ancora si respirava. Ma forse quei nuovi volti avrebbero potuto darmi qualcosa di più, quel qualcosa che cercavo da anni in un sistema scolastico corrotto e sbagliato, che per il momento non aveva saputo offrirmi niente di meglio che nozioni grigie e appiattite, appiccicate ai libri e al massimo rimaste a galleggiare nel vuoto della mia mente annoiata. Niente che mi fosse arrivato davvero. Avevo bisogno di una scossa potente, e quel giorno la mia attenzione era stata attirata dai discorsi puliti e precisi della nuova prof di italiano. Si vedeva, fin da subito, che poteva davvero aiutarmi. Quante cose aveva detto in una sola ora, e non le solite balle che alla fine è capace di dirti chiunque. Concetti che in un libro di scuola non si trovano mai, perché i libri di scuola sono come quel cielo che entrava nella stanza attraverso la finestra, cupi, nuvolosi, pieni di parole di cui niente arriva davvero. Suonò la campanella mentre ancora ascoltavo gli ultimi frammenti del discorso, e ben presto mi infilai tra i corridoi e le scale, per tornarmene a casa. La casa è sempre la casa, c’è quell’aria che fa stare meglio solo a respirarla, aria di famiglia, di sicurezza, di libertà. Tornai a piedi, come sempre. Abito a due passi dalla scuola ma, nonostante ciò, percorro quei due minuti di strada sempre con la musica nelle orecchie. La musica è l’unica cosa che non mi fa mai schifo, e mi aiuta a pensare. È che a volte non riesco a capirmi nemmeno io, e ho bisogno di ritrovarmi in qualcosa.  
  
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