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Autore: ciocco    04/08/2007    1 recensioni
A volte ci si ritrova da soli, alla luce di un tramonto in una sera di maggio e s'inizia a pensare. E i ricordi invadono la mente, e quella vita passata che si era creduto aver scordato improvvisamente torna, e pare più vivida che mai. Così succede anche a Fabio, che si ritrova a ripercorre la sua vita al contrario, passo dopo passo, in una sequenza di ricordi sull'amicizia, l'amore, la musica, il sesso e la vita.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 7: Seventeen

 

La porta si è chiusa con un rumore sordo. La luce dell’alba inizia a entrare dalle finestre, ancora aperte dalla notte precedente, e colora di bianco e d’oro tutto quello che sfiora.

Sono steso a letto, le lenzuola tirate sul torace che si alza e si abbassa lentamente, riacquistando il suo ritmo regolare – un ritmo perso durante la notte, dove il respiro si è fatto più veloce, il fiato è stato mozzato più volte. Ho perso il filo dei ricordi, questa notte.

Ho perso la cognizione del tempo, dello spazio, di ogni cosa. Ma adesso che il mio respiro si è acquietato, che il mio cuore ha smesso di battere innaturalmente, che le mie mani sono ferme, e le mie labbra non incontrano più altre labbra, adesso posso chiudere di nuovo gli occhi, riportare la mia mente al passato, ai miei ricordi.

Luca è sdraiato sul mio letto, e si accende una sigaretta, passandomi poi l’accendino.

E’ strano vedere Luca fumare, nonostante ormai io ci sia più che abituato, nonostante siano anni ormai che i nostri polmoni vengono invasi dalla nicotina, dal catrame, che l’aria attorno a noi odora di fumo, che i nostri vestiti, la nostra pelle, i nostri capelli, hanno sempre quel profumo intenso, deciso, riconoscibile tra mille. E’ strano vedere me e Luca da soli, di nuovo, come un tempo, come prima di conoscere Giulio e Alessio, come prima di iniziare a suonare, come al tempo del primo giorno di scuola, della prima birra, della prima sega, come prima di scoprirmi diverso da lui ancora, in un’altra cosa.

Luca non lo sa ancora. Luca non sa che sono gay, non sa che i miei sguardi non sono per le donne, ma sono per gli uomini, per quelli come me, come lui, come Alessio.

Non lo sa, e io non so come dirglielo. Non è un problema per me, non è un problema per la mia vita, non è niente che io non sappia gestire o affrontare, non è un problema per chi, come Alessio, l’ha capito prima che lo capissi io stesso, e l’ha accettato prima di farlo accettare a me stesso. Ma per Luca? Per Luca sarà un problema sapere che il suo migliore amico è gay? Sapere che le labbra che sogna di baciare non sono quelle di una bella biondina, o della ragazza più carina del liceo, ma quelle di un ragazzo dai capelli porpora visto suonare in un locale? Sapere che potrei innamorarmi di lui, o di Alessio, oppure di Giulio, e per me non ci sarebbe niente di male? Luca mi guarda, interrogandomi con il solo sguardo, come ha sempre fatto, senza bisogno di parole, di frasi inutili, di circostanza, fastidiose e seccanti, frasi che lui non ha bisogno di usare, perché Luca mi conosce di più di ogni altro, o forse no, visto che non sa chi sia in realtà il suo migliore amico. Cerco di parlare, mettere insieme qualche frase, qualche parola più significativa delle altre, un’idea anche solo vaga di quello che voglio dirgli. Ma Luca continua a fissarmi, mi sorride incoraggiante, mi sprona ad andare avanti. E poi, ad un tratto, riesco a dirglielo.

Una sola frase, intera, dritta, diretta, mirata. Una sola frase, e Luca improvvisamente sa.

Sa, e continua a guardarmi, ma il sorriso è scomparso dalle sue labbra, i suoi occhi non sono più incoraggianti, ma privi d’espressione, il nero del suo iride ha inghiottito la pupilla, e il suo sguardo sembra un pozzo nero senza fondo. Mi alzo, gli vado vicino, ma Luca non accenna a parlare, a dare un segno di comprensione, di dire qualsiasi cosa, anche la più stupida, la più inadatta. Aspira un’ultima boccata dalla sigaretta ormai finita, lascia che il fumo esca dalla sua bocca in cerchi concentrici – un giochetto che io non ho mai saputo fare – e poi si alza e lascia la mia stanza. Luca.

Ho acceso una sigaretta, e ora la sto fumando lentamente, assaporandone tiro per tiro, lasciando che il fumo invada i miei polmoni per qualche secondo di più del solito.

Ho sempre fumato in maniera nervosa, scostante, le mie sigarette erano sempre quelle che finivano prima, quelle fumate velocemente, quelle che servivano a scaricare la tensione, il nervosismo. Poi quando ho conosciuto lui ho imparato a fumare lentamente, piano, con gusto e metodo. Le sigarette durano di più adesso. Man mano che vado avanti con gli anni tutto sembra durare di più, sembra essere diverso, acquistare esperienza, significato, passione perfino.

Maggio arriva, portando con sé i suoi odori, i suoi sapori, i suoi venti e i suoi fiori. Maggio arriva, e Luca ancora non mi parla. Mi evita, cerca di sfuggire i miei sguardi, di evitare i miei tentativi, le mie attenzioni, ogni mia parola sembra scottarlo, renderlo nervoso, irritato, arrabbiato. Mi chiedo perché. Sono seduto in giardino, accanto a me una bottiglia mezza vuota di birra, il pacchetto di sigarette dimezzato, il vento profumato di ciliegi tra i capelli, le mani a tormentarli. Sto piangendo. Dentro casa si sente la voce di mia madre che discute con suo marito, che urla, che grida, voci che salgono di volume man mano che il litigio avanza, man mano che mia madre prosegue nelle sue grida, che suo marito alza il tono, che un piatto cade della credenza, si schianta sul pavimento, e il rumore della porcellana rotta, infranta, arriva fino al giardino, e sembra quasi che si sia rotto vicino a me quel piatto. Sto piangendo, ma i capelli – ormai lunghi fino alle spalle e scuri, praticamente neri – mi coprono il viso, nascondendo le lacrime. Si sta infrangendo tutto nella mia vita, come si è appena infranto quel piatto in cucina. Mia madre sta piangendo, mentre continua a gridare contro suo marito, mentre la sua voce si alza, infrangendosi, rompendosi a metà di una frase. Le mie lacrime scendono silenziose, tanto quanto le sue sono fragorose, singhiozzanti e struggenti. Suo marito esce dalla casa, sbattendo la porta talmente forte da far temere per i suoi cardini, e lascia mia madre che piange ancora rumorosamente, esce dalla porta e mi guarda, e nei suoi non vedo rabbia, non vedo ira, vedo solo dolore.

E’ ancora colpa sua, è ancora colpa di mia madre se tutto è andato a rotoli, se la mia vita si è di nuovo catapultata nel dolore, nel pianto, se la sua vita ha visto di nuovo andare via una persona cara. E’ tutta colpa sua, e le mie lacrime scendono arrabbiate, infuriate con quella donna che piange insieme a me, separata da me da una parete e un po’ di prato verde, è colpa di mia madre, è ancora colpa sua.

A volte le lacrime arrivano così, solo pensando al passato. Arrivano, e tu devi sopportarle, trattenerle o permettergli di scenderti sulle guance, in uno sfogo che arriva dal passato, ma che brucia, brucia ancora, brucia come aveva bruciato quel giorno, quella notte, quell’anno. E’ ora di alzarsi, di vestirsi, di uscire di casa, di lasciarsi alle spalle la notte appena trascorsa e i ricordi più dolorosi. E’ ora di respirare l’aria di maggio che non è quella di quel giorno, e non le assomiglia, il suo profumo di ciliegio non è lo stesso, perché i ciliegi di qui sono diversi, e le loro foglie e i loro fiori si muovono diversamente al passare del vento. E’ ora di andare, di partire. E’ ora di muoversi.

E’ notte. E’ una notte bella, luminosa, tranquilla, con il cielo scuro privo di nuvole, con le stelle bene in evidenza, che brillano senza ostacoli, si fanno vedere, orgogliose della loro bellezza notturna e immortale. Sono sdraiato su un prato a qualche chilometro da casa mia, in cima ad una collinetta nascosta, scovata qualche anno prima insieme a Luca.

Luca. Luca non mi parla ancora, Luca ha perfino smesso di guardarmi, Luca mi vede soffrire e non dice niente, non parla, si chiude nel silenzio, abbassa lo sguardo, suona stancamente e poi se ne va, senza un saluto, senza un sorriso, senza un’occhiata.

E io sto guardando le stelle, a poche settimane di distanza dal mio diciassettesimo compleanno, a poche settimane di distanza dal secondo divorzio di mia madre, a poche settimane di distanza dal nostro primo concerto. Sono nervoso all’idea di suonare in quel locale, dove tante volte abbiamo sentito suonare altri gruppi emergenti, sono teso all’idea di impugnare la mia chitarra davanti a tutti, all’idea di cantare per un pubblico, sono agitato al pensiero che tutti possano sentirmi, vedermi, giudicarmi. Sono emozionato, perché so che su quello stesso palco dove suoneremo noi tra qualche settimana ha suonato lui. Lui.

Non l’ho più visto dopo quella sera, ma le sue labbra hanno continuato a tormentarmi in sogno, ho continuato ad immaginarmi i suoi occhi che non ho visto. E sto pensando proprio a lui mentre guardo le stelle, mentre cerco di ricordarmi le varia costellazioni, mentre penso a che ne sarà di me, a che ne sarà di me e di Luca. Sto pensando a tutto questo, quando qualcuno si avvicina a me, un’ombra scura alle mie spalle, una presenza non prevista, non richiesta. Mi giro, alzandomi sui gomiti, e dietro di me vedo Alessio che mi sorride, la sua sigaretta che arde nel buio. Mi sorride nell’oscurità della notte, Alessio, e si sdraia accanto a me, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Mi offre da fumare, e io accetto ben volentieri. E’ strano il sorriso di Alessio, diverso dal solito. Ha una pendenza strana, obliqua, quasi maliziosa, una pendenza che diventa ancora più accentuata nel momento in cui le sue mani sfiorano le mie passandomi il pacchetto di sigarette. Mi guarda dritto negli occhi Alessio, e continua a sorridermi in questa maniera strana. Steso accanto a me sull’erba Alessio mi parla a bassa voce, sussurrando le parole al mio orecchio, accostando la sua testa alla mia nell’osservare le stelle, sfiorandomi nel tirare qualche tiro alla mia sigaretta. Alessio è bellissimo questa notte. I suoi occhi brillano, il suo sorriso obliquo seduce, i suoi capelli ondeggiano al vento, la sua pelle profuma.

Alessio si alza, appoggiandosi sui gomiti, rotola sulla pancia e accosta il suo viso al mio.

Un sussurro, una carezza, una mano tra i capelli, e Alessio mi bacia. Le sue labbra si accostano alle mie, prima leggere, poi sempre più insistenti, Alessio mi accarezza il volto, lo prende tra le sue mani, mi stringe a lui, e io ricambio il bacio, ricambio la stretta, ricambio le carezze, e lascio che le sue labbra lambiscano le mie, lascio che i nostri corpi si stringano l’uno all’altro, lascio che Alessio mi baci.

Fuori brilla il sole, il vento fa muovere le foglie verdi, scombina leggermente i capelli ai passanti. Sto camminando senza una meta, mettendo solo un piedi davanti all’altro, lasciando vagare la mia mente attraverso i boulevard della città, lunghi e stretti, con gli alberi in fiore lungo i fianchi, lasciando che la musica di un violinista girovago che suona ad un angolo della strada mi segua, lasciando che i bambini mi passino accanto correndo, chiamandosi l’un l’altro con le loro voci infantili, acute, brillanti. Lasciando scorrere i pensieri ad una vecchia foto, scovata nel mezzo di un vecchio quaderno di musica.

E’ una foto che risale a quella stessa estate, a quello stesso prato. Ha i bordi consumati, ma la foto è ancora nitida, i colori abbastanza vivi, il ricordo ben vivo. E’ un’immagine di me e Alessio quella che ritrae la foto, un’immagine ravvicinata, quasi un primo piano. Siamo sdraiati su una coperta bianca, di stoffa leggera, probabilmente di cotone, circondati dal prato verde, di un verde che si fa più chiaro man mano che l’occhio si allontana da noi due, un prato che sembra volerti trascinare nella foto per quanto è incantevole, per quanto sembra fresco, riposante, di una bellezza tutta naturale.

La foto ci inquadra i volti e i mezzibusti, i volti dagli occhi socchiusi per ripararsi dal sole accecante, Alessio con una mano a riparargli gli occhi verdi – di un verde incredibilmente simile a quello del prato che ci circonda –io con la frangia sugli occhi quasi chiusi, il sole che riesce ad arrivarmi ugualmente, e mi costringe a nascondere la faccia nell’incavo del braccio di Alessio, che ne approfitta per stringermi a sé, e mi tiene lì per un bel po’. Alessio ha una maglietta che una volta doveva essere di un bel rosso scuro, ma che adesso è stinta, sgualcita, vecchissima, e indosso a lui pare perfetta, pare abbinarsi perfettamente con le sue trecce rasta biondo sporco, con il suo cerchietto di metallo all’orecchio destro, con il sorriso scanzonato e la sigaretta accesa stretta fra le dita. Io porto una maglietta nera né nuova né vecchia, non ho niente di particolare addosso, non ho la bellezza di Alessio, il suo sorriso, il suo fascino, talmente forti, talmente palesi che non riescono a non trasparire dalla foto. E intorno a noi erba, vento, sole, in una cornice paradisiaca che non fa altro che rendere quella foto ancora più bella, ancora più importante di come già non lo sia.

Sorrido mentre una signora con dei fiori – rossi, gialli, perfino blu – sottobraccio mi si avvicina e tenta di vedermene qualcuno. Sorrido alla primavera che vedo davanti a me, sorrido al vento di Parigi che mi soffia in faccia, sorrido alle ultime note strascicate del violinista girovago, sorrido al ricordo di Alessio in un altro giorno d’estate.

E’ il mio diciassettesimo compleanno. Mia madre è in vacanza, non so dove, non so con chi, non so perché, e sinceramente non mi interessa saperlo, non mi interessa sapere dove mia madre sta passando il giorno del compleanno di suo figlio, e soprattutto non mi interessa sapere con chi lo sta passando, non mi interessa nemmeno il fatto che i suoi auguri siano stati borbottati telefonicamente questo mattino, la linea interrotta a metà chiamata, una chiamata già di pochi secondi. Mi interessa molto di più il fatto che la casa sia completamente libera, completamente a disposizione mia e dei miei amici, invitati ad una mega festa di compleanno. E c’è Giulio con la sua ragazza – una moretta magrolina dall’aria molto dark – vicino alle casse di birra, che parlottano fra di loro scolandosi una birra dopo l’altra; ci sono alcuni compagni di classe seduti sul dondolo che fumano, cantando a squarciagola un alticcio "Buon compleanno"; qualche ragazza, probabilmente portata lì da Giulio e Alessio, che balla al centro del giardino sulle note dei Led Zeppelin; un paio di amiche del nostro gruppo che vagano da gruppetto a gruppetto ridendo, bevendo, fumando e divertendosi con qualche ragazzo; qualche amico di Alessio che rolla una canna sul prato sorridendo apertamente. E poi c’è il grande assente della serata, Luca, lo stesso Luca che anni prima mi aveva giurato che non sarebbe mai mancato ad un mio compleanno, qualsiasi cosa fosse successo tra noi, quel Luca che si comporta come se io non esistessi, Luca che in un minuto ha rinnegato tutti gli anni della nostra amicizia, Luca che ora non viene più neanche alle prove del gruppo, Luca che ci ha lasciato nella merda, considerando il concerto di dopodomani sera. E alla fine ci siamo noi due, seduti contro il muro sul retro della casa, in una posizione che ci permette di vedere tutti ma che non fa vedere noi. Alessio mi tiene contro il suo petto, accarezzandomi pian piano i capelli, arricciandoli con le dita, intrecciandoli e poi sciogliendoli, giocando poi con le mie mani, con una piega della mia maglietta stropicciata, piegando ogni tanto il volto per darmi un breve bacio. Alessio ha un profumo buonissimo, che sa di erba primaverile, di sabbia asciutta e di sole, profumi che forse non esistono, ma che per me sono i ricordi più belli della mia infanzia, della mia adolescenza, Alessio ha le labbra morbide, invitanti, fatte apposta per essere morse tra la fine di un bacio e l’inizio di un altro, Alessio ha gli occhi dolci e maliziosi allo stesso tempo, Alessio ha le mani forti, grandi, callose a furia di suonare il suo basso, Alessio ha tutto quello che si possa desiderare, Alessio adesso ha il mio cuore, il mio stomaco, il mio cervello. Non stiamo insieme, non dichiaratamente perlomeno, ma si vede quello che c’è tra noi, è palese, è perfettamente visibile quel filo che ci lega, ci tiene insieme, ci attira l’uno all’altro come due calamite. E con Alessio mi sento completo, mi sento io, mi sento bene, e non importa dove, non importa quando, Alessio è con me e io sono con lui. E va bene così.

Mi sono seduto su di una panchina, stanco per la lunga camminata. E’ l’ora di pranzo, i viali iniziano a spopolarsi di mamme e bambini, diretti a casa per mangiare, cucinare, e iniziano a popolarsi di adolescenti che escono dalle scuole, con le loro cartelle in spalla, i capelli al vento, alcuni belli, alcuni un po’ meno, alcuni allegri, alcuni tristi, alcuni innamorati, altri no. E mentre guardo la folla mi sovviene agli occhi l’immagine di una ragazza, bellissima, quasi perfetta. E ricordo un’altra ragazza così, talmente bella da sembrare quasi finta, talmente perfetta da sembrare innaturale, una ragazza che ha salvato me, ha salvato Luca, ha salvato noi due.

E ‘ la sera del nostro primo concerto, e il nostro tastierista ancora non si è presentato. Nelle settimane precedenti abbiamo provato a suonare senza di lui, ma si vede che non è la stessa cosa, si vede che manca qualcosa, che manca quella carica che avevamo prima, quel vigore, quell’energia, quella forza che senza di Luca non è più la stessa. E Giulio sta fumando una sigaretta dietro l’altra in quel modo nervoso in cui fuma sempre quando è preoccupato, Alessio si guarda intorno cercando di non perdere la sua proverbiale calma, e io sono appoggiato al muro, tengo gli occhi bassi, e so che se questo concerto, questo primo concerto, sarà un disastro sarà solo colpa mia, tutta colpa mia. E mancano circa dieci minuti all’inizio quando vedo entrare nel locale una ragazza. E’ meravigliosa. Non è molto magra, ha delle curve abbastanza pronunciate, i capelli lunghi, vaporosi, di un castano caldo, che le scendono lungo la schiena formando tante onde, gli occhi neri, profondi, che guardano nella mia direzione, che sembrano squadrarmi da testa a piedi, che in un minuto cercano di leggere la mia anima, la mia mente. E’ vestita semplicemente, una gonna nera, ampia, lunga fino ai piedi, una maglietta bianca, un pendente di legno ad un orecchio. Ha fascino, un fascino quasi palpabile. Entra, e dopo avermi osservato per qualche secondo si dirige verso di me. Mi rivolge la parola con naturalezza, come se ci conoscessimo da sempre, mi parla e mi racconta di Luca, del perché del suo allontanamento, del perché della sua reazione, del suo stato d’animo attuale, della sua assenza al mio compleanno. Ed è lì che capisco perché il mio miglior amico si è allontanato così da me, capisco che non è stato voluto con cattiveria, ma solo per paura. E mentre quella stupenda ragazza mi sta ancora parlando, con la coda dell’occhio vedo un volto familiare che entra nel locale, vedo il volto del mio miglior amico che mi guarda, mi guarda e mi sorride. Luca è tornato. Sale dietro il palco dove siamo radunati noi, saluta con un cenno Alessio e Giulio, sorride alla sua ragazza, e poi si rivolge a me. Restiamo qualche secondo immobili, fermi a guardarci, poi ci sorridiamo – un sorriso vero, sincero, come quelli di un tempo – e alla fine ci abbracciamo, restando stretti per qualche istante, abbracciandoci dopo esserci persi, dopo esserci ritrovati. La ragazza di Luca scende dal palco dopo aver baciato il suo ragazzo, poi noi quattro saliamo sul palco, accolti dagli applausi di un pubblico formato quasi del tutto da amici e conoscenti, applausi forse un po’ forzati, ma che fanno comunque piacere. E suoniamo, suoniamo come abbiamo suonato la prima volta, suoniamo insieme, guardandoci l’un l’altro, suoniamo come un gruppo, suoniamo perché ci piace, perché è bello, perché finalmente il mio miglior amico è di nuovo con me.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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