Anime & Manga > Death Note
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Autore: MadLucy    16/01/2013    2 recensioni
Giappone, 2025. Nel vecchio quartier generale dell'SPK cresce una bambina, consegnata quindici anni prima da Mello al suo più acerrimo rivale.
Inghilterra, 2025. Un misterioso studente della Wammy's House parte per il Giappone, portando con sè un quaderno nero e una Shinigami petulante.
Usa, 2025. Un esperimento genetico iniziato nove anni prima, il cui scopo era creare un essere umano dall'intelligenza devastante, ha esito positivo.
Spagna, 2025. In seguito a una serie di barbari e atroci omicidi, una ragazza dagli occhi rossi viene internata in un manicomio.
E Death Note può ricominciare lì dov'è finito.
Genere: Generale, Malinconico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri personaggi, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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19

Azzardo.

Kyoto, 21 Maggio 2025.

Quando Marion entrò, Near era inginocchiato sulle piastrelle azzurrate ed era voltato verso la grande vetrata che permetteva uno spettacolare panorama dell'intera città. Le luci delle strade lampeggiavano multicolori contro l'asfalto buio e bagnato, la folla sciamava lenta ed inesorabile e dall'alto tutti sembravano nessuno. Da quella distanza, le macchine erano solo giocattoli inghiottiti dai palazzi. Sovrastando quelle case di bambole il cielo pulsava violento, gonfio, di una notte fredda che s'insinuava nelle ossa dei passanti e le infiammava di ghiaccio: era Maggio e la temperatura era a picco. Nonostante ciò, la pioggia indugiava cedendo la scena ad un vento che frustava le strade e rapiva il calore dai letti.
Marion non sapeva cosa il suo tutore stesse guardando, e non le importava nemmeno molto. Era accigliata e combatteva contro un brontolìo annidato nel petto.
-Sono arrivati da Sidney i dati sui decessi dei criminali che hai chiesto Martedì.- La sua voce era racchiusa in una sdegnosa freddezza.
Near non si girò a guardarla. -Puoi lasciarli sulla scrivania. Grazie.-
Quella risposta aveva un tono così definitivo -come un "bene, adesso vattene, ciao"- che Marion non riuscì a trattenere l'esasperata indignazione.
-Eviti l'argomento, per caso?- sbottò, la voce di colpo ruvida ed ostile.
Un indifferente silenzio di pochi secondi. -Non so di che argomento stai parlando.-
-Ma insomma!- La ragazza cacciò un sospiro breve, come se esalasse il soffio della sua ultima dose di pazienza. -Perchè non posso avere il dannato motorino? Qualsiasi ragazza di quindici anni può guidarne uno! Cosa vuoi che sia?! Mica è un arnese di tortura! E poi-
-Questo non è un argomento,- La voce di Near gocciolò fra le sue parole come acido, sgretolandole, -bensì un argomento chiuso, perchè ne abbiamo già parlato.-
Marion fremette e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi con brusca stizza. -Non ti fidi di me, non è così? Credi che mi farei tirare sotto la prima volta che ci salgo, vero?!-
-Non si tratta di non avere fiducia in te, ma negli automobilisti.- la corresse il tutore, apatico. La reazione esuberante della ragazza non ne provocava alcuna in lui. -Ci sono fin troppi ubriachi al volante e stolti che parlano al telefono mentre guidano. Kyoto è una città trafficata, Marion, e tu la conosci decisamente poco. Perciò la mia risposta non cambia.-
-Se non conosco Kyoto, non è certo per colpa mia.- ribattè Marion aspramente. -Non sono io ad impedirmi di uscire di casa.-
-Ciò è irrilevante.-
-No invece! Irrilevante un corno! Tutte le ragazze del mondo escono e hanno il motorino. Indovina chi è l'unica che non può?!-
-A me non interessa che cosa ritengono meglio per i loro figli gli altri genitori. Io sono il tuo tutore e mi è stato chiesto di impedire che tu ti possa trovare in situazioni potenzialmente pericolose, di controllarti e prendere tutti i provvedimenti necessari affinchè tu sia sempre al sicuro. Il motorino mi sembra una scelta poco consona a ciò che ho appena elencato.-
Il silenzio che scivolò tra loro tremava.
-Non si tratta del motorino, vero?- La sagoma di Near, pallida ed immobile, era ritagliata contro il vetro. Sembrava un'ombra.
Marion si arrese al suo intuito e chinò la testa contro il petto. -Sono stanca di essere quella strana, Near. Voglio un po' di normalità.-
Ora, nel suo tono prima burrascoso, rimaneva solo l'amarezza sfinita di una supplica. Nei suoi occhi verdi era calato il buio.
Near tacque. Sulle sue spalle ciò che opprimeva Marion non era mai stato un peso. Il suo sguardo disarmato era una visione a cui aveva imparato a cedere.
-Facciamo tutti parte della stessa trappola, Marion, siamo pedine dello stesso gioco. Se potessi fare qualcosa per cambiare le cose, lo farei. Mi credi?-
Si era voltato e la guardava. Era incredibilmente serio e nel suo sguardo c'era qualcosa di indefinibile e gravoso, qualcosa di tetro e copioso come malinconia raggrumata. La ragazza lo osservò ed avvertì uno spasmo d'amore doloroso per quel Near che rimaneva sempre lo stesso, piccolo e bianco e serio, e la sua espressione di candore infrangibile era la sua più preziosa e solida certezza. Lui non prendeva nessuna decisione solo per farle un dispetto: quei gesti che a lei sembravano sempre privazioni ingiuste erano il suo modo di amarla, in silenzio, perchè Near era fatto così. Niente parole sdolcinate, niente abbracci e baci. 
-Sì. Scusa.- Gli sorrise debolmente e arrossì, pensando alla brutta sceneggiata di poco prima.
-Non fa niente. Sei nata sotto una cattiva stella, purtroppo, nel bel mezzo di questa scacchiera. Ma nè io nè tuo padre lo abbiamo chiesto.- Near fece vagare lo sguardo fra le piastrelle. Per la prima volta sembrò nostalgia il marchio infuocato che lasciò un'impronta, un'ustione suoi occhi infrangibili, dov'era impossibile curarla. 
Marion lo costrinse ad incontrare il suo sguardo, interdetta. Non era solito del suo tutore, reagire così. -Mio padre, dici... e...-
Curiosa ma frenata dalla consueta cautela, s'interruppe incapace di proseguire. Non sapeva cosa chiedere, ma le sarebbe piaciuto sentire cosa Near pensava di suo padre, cosa aveva da dirle riguardo a lui.
Near non rispose, impassibile. Le sue iridi languivano in anni perduti, prigioni di ricordi che sbeffeggiavano la sua storia finita nel sangue.
-A volte mi sembra di sentirlo, quando parli. Sotto certi aspetti, siete sorprendentemente simili. Ahimè, hai ereditato anche i suoi difetti, che puntualmente ho insistito a combattere in questi anni, nel tentativo di correggerli.-
Marion pensò a ciò che il tutore le rimproverava sempre: la caparbietà irremovibile, la pericolosa impulsività, la mancanza di lucidità in determinate situazioni. Ma non riuscì in alcun modo ad immaginare che tipo di persona potesse essere stato Mihael Keehl.
-E ci sei riuscito?- osò insinuare. Near fece una smorfia amara e storta, che Marion sapeva decifrare come una specie di grottesco sorrisino.
-No, Marion, non ci sono riuscito. Se c'è qualcosa che la vita ha potuto insegnarmi è che le persone non cambiano mai. Ma forse è stato meglio così.-
La ragazza sorrise, cogliendo la tenerezza occultata abilmente in quelle parole. -Forse. Beh, io scendo a cenare, Lidner si starà chiedendo dove sono finita.-
Near annuì, distraendosi. Con movimenti lenti e contenuti, iniziò ad estrarre da una capiente scatola di cartone pezzi di modellino ed a posizionarli sul pavimento, seguendo chissà che ordine dettato dalla sua mente insondabile. Non disse niente.
-Mi raccomando, ricordati anche che devi mangiare, oltre che stare dietro ai tuoi giocattoli.- aggiunse Marion, stuzzicandolo un po' malignamente. -Non stare qui da solo fino a mezzanotte.-
-Oh, ma non sono affatto solo.- Near proseguiva nell'allineare i suoi pezzi. -Ci sono fin troppi fantasmi con me.-
Marion alzò gli occhi al soffitto. A volte, con i suoi discorsi enigmatici, la esasperava. -Tu non andare a dormire tardi lo stesso, va bene? Buonanotte.-
Lui annuì con la testa, quasi fra sè. Non distolse l'attenzione dal suo lavoro. -Buonanotte, Marion.-
La ragazza compose il codice della porta ed uscì. Quelle furono le ultime parole che si scambiarono.
Il  modellino che Near stava componendo era un aereo. Non l'avrebbe più rivisto vivo.

Yokohama, 21 Giugno 2025.

La rampa di scale si inerpicava nell'oscurità densa di muffa e abbandono, rafferma nell'aria, fino a dove i suoi occhi non erano capaci di vedere. I gradini sbeccati, non ancora rifiniti, erano infide trappole sui quali era troppo semplice scivolare, soprattutto a causa di quel buio rancido e freddo. L doveva fare molta attenzione a dove metteva i piedi.
Rowena però strattonava con brusco, assorto entusiasmo il suo braccio, costringendola ad arrampicarsi su tre gradini alla volta. Ogni tanto farfugliava qualcosa fra le labbra, parole che le sfuggivano quasi dall'inebriante eccitazione; altre volte canticchiava strane cantilene su pastorelle dai riccioli biondi e agnelli morti. Ad un tratto, con un gesto imperioso, si fermò salda su un gradino e la attirò vicino a sè: così vicino che L, da quella distanza così insulsa, riusciva a percepire il profumo stucchevole di marmellata del suo respiro e poteva osservare i suoi occhi sgranati e tutte le pagliuzze dalle loro preziose tonalità, come sfaccettature di un rubino scuro. La ragazza sorrise sfrontata, le labbra a incurvarsi di maliziosa freddezza, le guance pallide di alabastro, e la fissò con una sorta di selvaggia esaltazione; L ebbe l'assurda e fugace impressione che l'avrebbe baciata. Invece Rowena parlò, con voce sottile e confidenziale.
-Da quando mi fa male il braccio, ho sempre voluto che tu venissi ancora a trovarmi. Per finire... Vorrei subito mettermi a giocare con te, ma lui dice di no, dice che prima vuole discutere.- Arricciò il naso, come se quella notizia avesse un cattivo sapore. -Quindi prima si discute e poi si gioca. Lui ha detto così.-
L sorrise a sua volta, con sarcasmo. -Da quando ti fai dare ordini, Rowena?-
La ragazza battè le palpebre, contrariata, lanciandole un'ultima, indignata occhiata prima di riprendere a saltellare sulle scale e trascinarla dietro di sè.
-Oh! Non vedo l'ora che tu muoia, L.-
E forse per la prima volta la detective riconobbe nella sua voce una spiazzante e razionale lucidità, ad inquinare il vigore della sua follia.
Ma l'impressione si diradò presto e Rowena prese a canterellare di nuovo la sua nenia sulle pecore smembrate nel prato.

-Mi sa che stiamo facendo una stronzata.-
Gevanni sospirò. La pioggia iniziò a scendere cautamente, gocce grigie e pesanti nell'aria umida che formavano rivoli scuri ai margini della strada e ruscellavano gorgogliando nelle grate rugginose dei tombini. Pioveva ormai da dieci minuti, ma nessuno aprì un ombrello.
Lidner, ciocche bionde incollate alle guance dall'acqua, gli rivolse una distratta occhiata inquieta. Le ciglia erano graziosamente imperlate, e sembravano ancora più lunghe di quanto non fossero. Le labbra erano piegate in una smorfia di vago scontento.
-E' esattamente la stessa cosa che mi dicesti quindici anni fa.- L'affermazione voleva essere ironica, ma la sua voce aveva un sapore amaro. Gevanni scosse la testa, scrollando le ciocche corvine che grondavano gocce sgradevoli lungo la nuca. Le sue viscere non smettevano di torcersi, come sottomesse ad un supplizio senza sollievo.
-Adesso è diverso, e lo sai benissimo. Ci sono Tennyson e Marion... Avremmo dovuto impedirglielo.- La sua voce si gonfiò di una ruvidezza inutile, che morì non appena le parole vennero pronunciate. Era irritato contro sè stesso, contro Kira, contro quei ragazzi che volevano sempre fare di testa loro e atteggiarsi da eroi, e alle loro vite non pensavano nemmeno. Ma non lo sapevano, loro, cos'era la morte. Che odore avevano i cadaveri squarciati per terra, come schizza il sangue dopo un colpo d'arma da fuoco. Non li avevano mai visti, gli occhi di un morto.
Se avessero conosciuto tutto questo non si sarebbero imbarcati in simili avventure.
Lidner soffiò un respiro saturo di un'esasperazione digerita a fatica. -Non sono bambini, Stephen. Non possiamo continuare così... con questo atteggiamento. Con quest'idea che sono troppo piccoli e hanno bisogno di protezione non potranno mai fare scelte autonome. E se loro hanno deciso di affrontare Kira...-
-... scelte autonome?! Questa specie di missione suicida ti sembra una scelta autonoma, adulta?! Responsabile?!- Si rese conto di stare alzando troppo la voce.
Lei strinse gli occhi, la pioggia a picchiettarle sulle spalle e scivolarle sulla fronte. -Adesso non esagerare. Ci siamo noi qui con loro.-
-Loro non sanno a cosa stanno andando incontro, Halle! Non ne hanno idea! Per loro è tutto... tutto un gioco!-
La donna penetrò gli occhi con i suoi, in cui era imprigionata una furia contenuta. -Non lo dire. Questo non lo puoi dire.-
Marion era a capo del gruppo, avanzava oltre a tutti con ampie falcate. La sua espressione era aggrottata di decisione ed agitazione insieme, che si contendevano la sua mente ormai da ore.
I suoi occhi verdi e nebulosi dai troppi pensieri assillanti, distrazioni costanti verso la realtà, perlustravano la via con metodica e scrupolosa fretta, annotando tutto ciò che era importante e distogliendo lo sguardo dalle realizzazioni irrilevanti. Cercò con impaziente impeto la targhetta con i numeri sulle facciate degli edifici, scoprendo in continuo con disappunto che era quello sbagliato. La sua testa sapeva recitare solo una cifra in quel momento. Sette, sette, sette, sette, sette, sette. Si sentiva soffocare dai troppi respiri trattenuti nel petto, che si ammassavano nella cassa toracica in un unico blocco ad opprimerla alla bocca dello stomaco. Non si era mai sentita così esaltata, carica, mai vittima di un'euforia così adrenalinica e spaventosa. E, allo stesso tempo, la sua mente era fragile come carta velina. Lo interpretò come un cattivo segno: glie l'aveva sempre detto, Near, che la forza non sta nel corpo. Non deve stare nel corpo, per la buona riuscita dell'operazione. La cosa più importante è la calma e la lucidità, che permette di ragionare e calcolare. E Marion non credeva di riuscire a fare nemmeno due più due, in quel momento.
L'idea che Kira fosse così terribilmente vicino non le ispirava che un impeto feroce e assordante, mentre la sua mano scattava a stringere la pistola infilata nella cintura; non poteva fallire, non poteva fallire, non poteva fallire, non più. Tutti quei giorni consumati in sudore e lacrime convergevano a quello stesso momento. Non avrebbe avuto una seconda opportunità.
Vietato sbagliare, dunque; e nella ferrea rigorosità di quella constatazione, di quell'editto riusciva a scorgere gli occhi senza fondo nè orlo di Near che la fissavano con penetrante inesorabile severità, negli squarci perduti della sua memoria ferita. L'esito di quella saga sanguinosa doveva essere scritto dal suo pugno.
Alle sue spalle, Hermony e Craig scherzavano a bassa voce, mormorando risolini che resentavano l'isteria. Craig le bisbigliò qualcosa accostandosi al suo orecchio e la sorella sorrise forte, abbandonando la testa ciondolante contro la sua spalla. La tensione fremette senza sciogliersi.
Marion svoltò ad un edificio e arrestò la sua marcia a passo di carica, mentre un'ombra di confusione le percorreva il viso, prendendo momentaneamente il sopravvento sul resto delle emozioni.
Lo sbigottimento si fece strada nei suoi occhi, squarciando le sue riflessioni in un luccichìo di sgarbato cauto sospetto.
-Che succede? Guai in vista?- Craig si fermò, osservandola con sguardo interrogativo. Harmony non sollevò la testa dalla sua spalla, sorniona, quasi si trattasse di uno sforzo eccessivo. Oppure come se credesse di non poterlo fare mai più.
Marion contemplò ciò che aveva destato il suo interesse. -Polizia.- spiegò laconica.
-Polizia?- Lidner la raggiunse, ansiosa. -Impossibile, come hanno fatto a...?-
Gevanni, al suo fianco, battè le palpebre. -Siete sicure che siano poliziotti? Cosa ve lo fa pensare?-
-Quell'uomo con i capelli neri,- replicò Marion serrando gli occhi, -è Tota Matsuda. Il marito di Sayu Yagami. E' in incognito.-
Infatti Matsuda, con indosso una semplice giacca e anonimi jeans, camminava di qua e di là misurando con passi affrettati il marciapiede. Vicino a lui stavano altri quattro uomini dallo sguardo indagatore, come in attesa di una qualche calamità. 
-Vediamo se è come credo.- Marion, dopo aver mormorato questo ai suoi compagni, fece dei vigorosi passi avanti. -Ehi, lei!-
Matsuda sollevò lo sguardo tormentato e la guardò, senza che alcun barlume di riconoscimento si accendesse nei suoi occhi. Sarebbe stato strano il contrario, in effetti.
-Buongiorno, posso aiutarla?- rispose infatti, distrattamente.
Marion conficcò i suoi occhi verdi ed aguzzi in quelli del poliziotto, decisa ad evitare i preamboli. -E' stato L a dirvi di venire qui, vero? A lei ed ai suoi colleghi.-
L'uomo sussultò appena, sconcertato, aggrottando il volto e cercando di riconoscerla. -Ma... ma tu come fai a...-
-Forse è meglio che mi presenti.- Esibì un sorriso storto, agitato, come un ramo autunnale. -Mi chiamo Marion e sono... la figlia adottiva di Near.-
Matsuda ci mise parecchi secondi ad elaborare quelle parole. -Figlia... adottiva? Oh, giusto, i tuoi amici mi hanno parlato di te. Eccoli là! -
-Sì, ma non abbiamo tempo. Le spiegazioni dopo. Le ho fatto una domanda.- gli rammentò impaziente, ticchettando il piede a terra.
-E' stata L a contattarmi.- ammise il poliziotto, perplesso, passandosi una mano fra i capelli. -Dopo che i tuoi amici sono venuti a... raccontarci la verità, mi hanno anche dato un numero per tenermi in contatto con L, nel caso che La... Kira si facesse vivo da noi, ecco. Poi oggi mi è arrivata una chiamata da parte di L, appunto, e mi ha detto di recarmi a questo indirizzo con quattro degli uomini di cui mi fido di più. Però mi ha detto anche di non fare irruzione per nessun motivo, ma anzi di arrivare in borghese e non attirare l'attenzione in nessun modo. E quando le ho chiesto quando saremmo dovuti entrare allora, ha risposto qualcosa di evasivo e confuso... ehi, credo che voi siate il nostro segnale!-
Marion ascoltò attentamente, concentrata. -Capisco. Beh, L è lì dentro da sola, quindi direi di non indugiare oltre.-
Sollevò lo sguardo alla facciata dell'edificio diroccato e grigiastro di fronte a lei, dalle finestre sbarrate con delle assi, mentre la pioggia si insinuava negli occhi e sulle labbra strette in una smorfia nervosa.
Numero sette.

Rowena, con un ultimo violento strattone, la assestò su un pianerottolo che gracidava acuto sotto i loro piedi. Il buio, oltre una scheletrica ringhiera di lamiera affilata, stagnava imperturbabile e le soffiava sul viso ventate tiepide di polvere spessa come sabbia. Il profilo delle travi, rose dalle tarme, affiorava dallo spesso manto di caligine ruvida e sporca. Crepe nere e disordinate come serpenti si aggrovigliavano sulle pareti annerite e incrinate, offuscate nel buio e del tutto indistinguibili.
L rigirò gli occhi nelle tenebre intessute di stoffa opaca, invano. La pelle di Rowena riusciva ad intravedersi ugualmente, così come l'oscurità dei suoi occhi aveva un'essenza più liquida ed umida della cappa polverosa alle sue spalle. Un baluginare di denti candidi e triangolari in un sorriso acuminato.
-Prega e sorridi, cara L.- La sua voce stridette come la lama che avrebbe tanto voluto conficcarle nel petto, e L capì di essere giunta a destinazione.
La sua rapitrice saettò su se stessa e cercò con le mani una maniglia, che evidentemente trovò. Attese che la porta si aprisse ed un ventaglio di strana luce plumbea schiarì sul pavimento che mugolava sotto anni di abbandono grigio. Quel sospiro d'ombra fioca definì la stanza come avrebbe fatto un lampo e sbiancò cruda ogni dettaglio della miseria dell'edificio con la spietatezza della verità.
La porta rimase aperta e semiaccostata allo stipite scassato. L avanzò, prima che a Rowena venisse la perversa idea di strattonarla ancora.
La stanza in cui l'aspettavano rifletteva un grigio imprigionato fra quelle mura, lo stesso che il cielo sprigionava da qualche parte là fuori. Era spoglia esattamente come tutto il resto del complesso, ma il pavimento non era tappezzato da centimetri di polvere e ciò significava che qualcuno aveva dato una sbrigativa spazzata per terra. Le finestre inchiodate erano ossidate d'una crosta di sporco che nemmeno il più tenace degli spray avrebbe potuto dissolvere, e filtravano quel tempo ibrido e inquieto. Echi di umidità sgorgavano dal soffitto bucherellato come lacrime rade, prezzo fin troppo modesto di anni ed anni di disinteressato abbandono.
Non c'erano mobili alle pareti graffiate dal tempo fino alle fondamenta, ma al centro vi era un tavolo quadrato e traballante a cui nessuno si era premurato di pareggiare una delle gambe appuntite.
Un ragazzo biondo sedeva, le mani intrecciate sulla superficie di legno accidentato disseminata di chiodi. Il suo sorriso era morbido e affabile, come se stesse attendendo una vecchia amica. Era bello, ma le sue iridi feline erano un'eredità atroce e il debito che aveva con la vita ammontava a una cifra che le sue iridi ossidate di morte non riuscivano a nascondere. 
Lei rimase alla soglia, esaminandolo con sguardo indecifrabile. Le sue iridi bicolori tacevano sotto la maschera priva di espressione.
-Ciao, Kira.- mormorò infine. La sua voce suonò incredibilmente limpida e armoniosa nell'aria satura di trascuratezza e muffa. Il sorriso del ragazzo s'incurvò ancora di più, con divertita ironia, fino ad assomigliare ad un pugnale troppo vicino alla sua gola.
-Ciao, L.- I loro occhi si riflessero gli uni degli altri, in un'attrazione magnetica ed inevitabile. Le loro pupille si spansero in un unico pozzo di domande e risposte tacite. Il loro silenzio pulsava come un cuore risorto dalle sue ceneri, e l'atto che si stava svolgendo in quella stanza era tanto familiare che sembrava un ricordo.
Law fece un cenno leggero con la mano, come un abile uomo d'affari. -Siediti, prego. Parliamo.-
La sua era una voce che aveva imparato ad incantare, e suonava cesellata come una musica composta per farlo. Faceva paura, la gentilezza velenosa che gocciolava dalle sue parole misurate, e il suo atteggiamento di cortese condiscendenza appariva quasi la suadente moina di un assassino con la pistola dietro la schiena. Nei suoi occhi baluginanti di pensieri impetuosi, la sete di sangue era stata ammansita e smussata.
L fissò la sua mano, ancora sospesa in un gesto cordiale, con contegnoso disgusto. Ad attraversarle la mente fu il vago pensiero di tutto il sangue essiccato di cui si erano macchiate. Spostò di nuovo lo sguardo contro quello del ragazzo e procedette con passi decisi ma cadenzati. Il ritmo dei suoi anfibi a forma di rana verde contro il pavimento era quello dei secondi che li separavano.
Infine, quasi avesse gli arti intorpiditi, L allungò senza fretta il braccio e scostò una sedia malandata dal tavolo, prima di sedersi senza mai spezzare il contatto visivo.
La scena appariva irreale ad entrambi i protagonisti, ma qualcosa nella spregiudicatezza delle loro espressioni, nell'indicibile calma dei loro lineamenti immobili, diceva che si stavano divertendo. Dopotutto, era l'atto che il mondo stava aspettando da quindici anni.
Ancora ferma allo stipite della porta, Rowena muoveva con scatti bruscamente affrettati gli occhi dall'uno all'altra, in trepidante eccitata attesa che qualcuno parlasse, sentendosi nello stesso tempo evidentemente esclusa da ciò che si stava svolgendo in quel momento fra loro due. L'immagine effettiva di Law e L nella stessa stanza, così vicini, faccia a faccia, la sconvolgeva parecchio emotivamente: nella sua mente erano due elementi inconciliabili. Il suo sguardo era così attento e rapito, palpitante, da resentare l'avidità.
Law, dopo un interminabile gravoso minuto, volse a malavoglia lo sguardo verso di lei, che fremette e sgranò le iridi di nero rossastro.
-Rowena?- domandò con voce strascicata, appena un po' beffarda. Lei vide le parole invisibili che il ragazzo aveva lasciato sottointese e annuì con il capo, apparendo per brevi istanti una giovane perfettamente normale; ma ormai L aveva imparato, si trattava di un'illusione troppo breve per essere caricata di speranze che non avrebbe mai sostenuto. Rowena piroettò ancora su se stessa, come la prestigiatrice di un circo, e balzò fuori dalla sua visuale -dietro la porta e poi giù per le scale- in un soffio.
Law sorrise alla detective che lo fronteggiava, in maniera affilata e un po' spregevole, e quella brama di morte stilettò un tremito malcelato nei suoi occhi belli ma inquinati.
-Ti ho pensata un sacco, anche se non ti ho mai più rivista, dopo quel fugace incontro in aeroporto.- cominciò con tono confidenziale. -Oserei dire che sei stata sempre nei miei sogni.-
-O magari nei tuoi incubi.- L gli rifilò un'occhiata fredda di sarcasmo, atono quasi come la sua voce. Lui socchiuse gli occhi.
-Non lo nego, inizialmente ero... titubante all'idea di incontrarti. Però ho avuto modo di rivedere questa mia idea.-
-Rivedere.- Quello di L sembrava più un verso di scherno che semplice scettismo.
Gli occhi di Law ridevano. -Se ignori un morbo perchè hai paura del dottore, prima o poi muori per terra. L'unico modo per liberartene è estirparlo dalla radice.-
-Sono perfettamente d'accordo.-
-Sono lieto di constatare che la pensiamo allo stesso modo.- Il ragazzo le rivolse un sorriso amabile e L contrasse la mascella. -E' per questo che ho deciso di affrontare il problema... di petto. Di andargli incontro, anzichè fuggirlo finchè non mi rimarrà più fiato per correre. Di eliminarlo prima che diventi insanabile.-
-L'unica malattia insanabile che ti assale,- ribattè L con voce piatta, -la stai covando nel cervello. E di quella, Lawrence Yagami, non ti libererai mai.-
Il ragazzo non disse nulla e inarcò le sopracciglia, quasi offeso, mentre il taglio sprezzante delle sue palpebre a schermare gli occhi la invitava a continuare.
-Lawrence.- ripetè lei, scavando nelle sue iridi immobili con un cinismo divertito, quasi un medico legale che affonda il bisturi in un cadavere. -Che nome inconsueto ti hanno dato. Tante persone direbbero che non meriti affatto di portarlo.-
-Davvero? A me non è mai piaciuto.- Ora il tono di Law si era indurito.
-Una beffa del destino che tuo padre abbia deciso di chiamarti come il suo peggior nemico.-
-Mio padre era una persona con un tetro senso dell'umorismo.- tagliò corto il ragazzo. -Ma torniamo a noi, cara L. A noi ed al nostro fortunato incontro.-
L sospirò, quasi spazientita. -Posso farti una domanda?-
-Sono tutto tuo.-
-Perchè non hai ordinato a Rowena di strapparmi la maschera subito? A dire la verità, avresti potuto farmi ammazzare immediatamente, ma a quanto vedo vuoi prima recitare questa pantomima  dell'invito.-
Law parve molto turbato. -Pantomima? Così mi offendi, L. Io ho davvero voglia di parlare con te, prima di...- Abbozzò un sorriso di scusa tanto poco sincero che a L si strinse lo stomaco.
-Uccidermi.- concluse lei, sfregando con le dita un grosso chiodo rugginoso conficcato nel legno.
In quel momento, il gracidìo lamentoso del pavimento e il fischio sottile di uno spostamento d'aria polverosa annunciò il ritorno di Rowena. La ragazza percorse la stanza a passi leggeri e non si fermò finchè non fu accanto a Law. Gli tese ciò che stringeva fra le braccia: una borsa di cuoio marrone, un po' consunta, dalla lunga tracolla spessa che penzolava inutilmente contro le sue ginocchia. Lui le rivolse un sorriso gentile, tanto bello da mozzare il fiato, e la guardò negli occhi come se nella stanza non ci fossero che loro due. Ma L, nella dolcezza condiscendente spanta nelle sue iridi, lesse la furbizia malevola di un domatore di tigri.
Law prese la borsa e la posò sul tavolo, in modo che anche l'investigatrice potesse vederla bene, e assunse un'espressione di divertita importanza. Lo sguardo di L era pietra inscalfibile.
Slacciò la fibbia che chiudeva la borsa, l'aprì e ne estrasse un quaderno di Hello Kitty azzurro ricoperto di strass, scoprendo un centimetro per volta con lenta compiacenza.
Il ragazzo lo brandì, beffardo, con uno sguardo di sfida. -Sai cos'è questo, vero?-
L non si scompose. -L'hai camuffato piuttosto bene, direi.-
-Vero? Un lavoretto niente male, di tutto rispetto.- Law ghignava in una maniera quasi indecente. La sprezzante derisione che distorceva i suoi lineamenti magnifici e regolari lo faceva apparire finalmente ciò che era, svelava la reale identità nascosta sotto quella facciata di cartapesta: un pazzo, un esaltato, un malato di mente assolutamente uguale a tutti gli altri.
-Che c'è? Non tenti nemmeno di strapparmelo di mano?-
L fece una smorfia scettica. -Chissà come mai una vocina nella testa mi suggerisce che, non appena tentassi di fare un movimento troppo brusco verso di te, Rowena mi aprirebbe il cranio a mani nude.-
La ragazza dagli occhi rossi, sentendosi chiamata in causa, le indirizzò un amabile gesto quale passarsi il dito indice sotto il mento, percorrendo la breve larghezza del collo, mimando una simpatica ghigliottina. Law sorrise compiaciuto, quasi avesse avuto una riprova del suo indiscusso controllo sulla situazione.
-Rispondendo alla tua domanda di prima, L, non ti ho tolto la maschera semplicemente perchè non sento alcun bisogno di concludere in fretta la faccenda. Ho tutto il tempo che voglio per ucciderti e se qualcosa dovesse andare storto, come mi hai appena fatto notare, mi basterebbe aprire bocca per far sì che la mia amica qui presente ti tagliasse la gola. Ho chiesto a Rowena di controllare se fossi armata mentre avreste salito le scale, e lei a quanto pare crede che tu non lo sia. Ma anche se fosse, contro di lei non hai mezza speranza di sopravvivere e spero tu l'abbia sempre saputo.- L annuì con la testa, docilmente. -E poi, affrettare la tua morte sarebbe noioso. Io voglio sapere chi è la ragazza che mi ha fatto passare tutti questi guai e mi ha tormentato fin dall'inizio.-
Si fissarono, quasi nel tentativo di estirpare l'un l'altra i segreti dai rispettivi occhi. Avidità vorace e palpitante eccitazione in quelli di Law, ferma severità e ferrea risoluzione in quelli di L.
-Chi sono?- La voce della ragazza era ridotta ad un sussurro inconsistente, troppo fragile in quell'aria pesante. Appena un filo di vetro. -Io non sono nessuno. Forse avrei potuto esserlo, se mio padre fosse stato una persona diversa. Ma così sono solo l'ombra di qualcun altro, destinata ad addossarmi il suo futuro perduto, a vivere la sua vita interrotta. Niente più che un'ombra, Lawrence, e anche tu lo sei.-
Il silenzio si fece instabile, esitante, mentre le parole di L venivano confusamente elaborate e una risposta adeguata attendeva d'essere composta. Una davanti all'altra, due ombre di carne e sangue, due echi di una canzone soffocata, e quegli occhi che si esaminavano con intensità appartenevano ad altri.
Law si prese diversi secondi per cercare una replica. -Può sembrare così, certo, ma loro erano loro e noi siamo noi. La loro epoca è finita, e rivangarla è inutile almeno quanto fare confronti. Io sto compiendo questa missione perchè è quello che ritengo più giusto per il mondo che mi circonda, non perchè anche mio padre lo faceva. Se non fossi stato d'accordo con la sua logica, non l'avrei abbracciata.- La sua espressione si era leggermente increspata di nervoso disappunto.
L sogghignò con scettismo, sotto la porcellana bianca della maschera. -Permettimi di dubitarne. L'idea di ottenere l'approvazione di uno spettro ti ha davvero perseguitato, Yagami, e ad un certo punto il tuo lacerante e deleterio bisogno di amore mai esistito ha iniziato a fare del male anche agli altri, oltre che a te stesso. Un'emulazione tanto disperata che oserei definire patetica. Imitandolo cosa cerchi, il rispetto di un morto? L'ammirazione di chi non può ammirare più nessuno? Vuoi sentirti dire bravo da papà? A quanto pare non hai imparato la lezione che a Light è costata la vita. Non ho mai visto una persona più tormentata di te, lo sai? Si vede nei tuoi occhi che ti stai facendo a pezzi. Insieme a tutti quegli uomini che definisci feccia, hai ucciso pezzo per pezzo tutta la tua umanità. E cosa ti resta? Ti sei mai chiesto cosa accidenti vuoi, Yagami?-
Il silenzio fra loro cadde come una tagliola. Sepolcrale, imponente, che pietrificò su volto di Law tutto il suo sbigottimento. L tacque e rimase a fissarlo con uno sguardo distaccato e privo di veli, quasi crudo. Rowena, in piedi alle spalle del ragazzo, ansimava piano con le labbra socchiuse, in preda ad un'ansiosa esaltazione.
Vi fu un minuto che non iniziò nè finì mai, oltre al tempo ed allo spazio, un vuoto inclassificabile dall'insipido sapore dell'incredulità che sottrae, impedisce la parola. Rowena e Law sembravano soffocare in un incantesimo implacabile, mentre L li squadrava con noncurante disapprovazione. Era una nebbia atrofizzante, una coltre anestetizzante che stagnava e faceva effetto in silenzio, costringendoli ad inghiottire le parole in fondo al petto.
Poi Law rise. Una risata sguaiata, insolente, sferzante, quasi quel suono tagliente dovesse fare del male ad L. Gettò appena la testa all'indietro, incapace di contenere l'esagerata ilarità, e quando riuscì appena ad affievolire i suoi sghignazzi contagiosi le conficcò negli occhi uno sguardo tanto violento, brutale, iniettato di una follia così spaventosa che solo una persona audace e contegnosa come L riuscì a non arretrare sulla sedia.
-Ahah! Sei incredibile, L. Ti ho proprio sottovalutata. La tua capacità retorica è eccellente, dovresti darti alla politica. Incanteresti certo quella massa ignorante e stolida che sta appiccicata ai televisori come se fossero oracoli. Ma me?! Me?! Non sono il solo ad avere sottovalutato qualcuno, qui. Sul serio credevi che ci sarei cascato? Che mi verrà una crisi di coscienza per le tue toccanti parole?! Affascinanti, davvero, in un libro farebbero la loro figura. Abbiamo capito, insomma, che avresti dovuto fare un altro lavoro!-
Riprese a ridere, senza controllo alcuno, perdendo del tutto la compostezza ostentata nei primi momenti del loro incontro. Anche Rowena ridacchiava, in maniera stridula e un po' isterica, ma con meno enfasi e convinzione del ragazzo. L non sembrava affatto offesa o scalfita dalle frecciate e continuava a guardarlo con un misto di accusa e apatia, senza azzardare alcuna emozione se non quell'impassibile aspro biasimo.
-E' inutile, L. La tua psicologia per matti non attacca con me. Tientela pure. Se hai complessi di inferiorità nei confronti del tuo defunto genitore, non deve essere per forza anche un mio problema. Io so quello che faccio e perchè lo faccio. Mio padre sì, è stato il mio maestro, colui che ha ideato questo progetto di depurazione. Ma sai cos'è che conta? Che ha fallito. Fallito. Light Yagami ora è solo un fallito! E io non ho di sicuro bisogno della sua ammirazione, piuttosto dovrebbe essere il contrario! Perchè sarò io, Lawrence, a riuscire dove lui ha fallito. Io sarò il vero dio del mio nuovo mondo, e nessuno -nessuno!- potrà essere considerato più grande di me! Ti è chiaro?-
L ascoltò senza interrompere la sua pazzia farsi parole spezzate, un delirio nauseante dove almeno cento patologie si fondevano in un'unica analisi impietosa. Capì, senza stupore, che parlargli ormai era inutile: la tela di ragno in cui era riuscito ad invischiarsi era tessuta troppo abilmente. Sarebbe stato divorato dai suoi stessi inganni. Lawrence Yagami stava marcendo.
-E ti chiedo un'altra cosa. Sai qual'è il dettaglio esatto che rese Light Yagami un perdente e me un vincitore?- Il suo volto trasfigurato era irriconoscibile.
L non rispose. Fu come se non le avesse rivolto la parola. Quegli occhi bicolori specchiavano la sua insanità, una sentenza lapidaria.
Law non attese troppo a lungo la sua risposta. Si allungò verso di lei, chinandosi sul tavolo, finchè i loro volti non furono abbastanza vicini.
-Che lui non riuscì ad annientare il suo nemico in tempo.- sibilò piano con voce ardente. I suoi occhi erano fiamme, a bruciare la maschera di carta che non riusciva più a portare. -Invece tu sei qui, L. E stai per morire.-


Bastarono poche spallate ben assestate affinchè le assi inchiodate alla porta iniziassero a cedere ed incrinarsi. Gli agenti che accompagnavano Matsuda le strapparono fino a creare un passaggio sufficientemente grande per far passare una persona a testa china. Marion era inquieta e continuava a spostare lo sguardo di qua e di là, sospettosa, anche verso il cielo, quasi temendo franasse.
-C'è qualcosa che non mi quadra.- sentenziò. -Come può Kira essere stato così sconsiderato da non supporre che L avrebbe chiamato soccorsi?-
Craig scosse la testa, assente. Harmony canticchiava fra sè, ma i suoi occhi erano torvi. Quello che c'era fra loro era un silenzio nervoso.
Matsuda tentò un sorriso d'incoraggiamento. -Beh, allora? Entriamo?-
-Aspetta. Là dentro c'è una ragazza con il potere degli occhi. Abbiamo qualcosa per coprire il volto?- li interpellò Lidner, lanciando loro un'occhiata ammonitrice.
Fu in quel preciso istante che lo udirono. Era un grido femminile, una voce spezzata ad esplodere come sangue, che lasciò dietro di sè un'eco all'interno del buio edificio e nelle loro menti.
Gli occhi di Marion corsero a sondare invano le tenebre impenetrabili come pietra, spasmodicamente. -L.-
-Era L?!- le fece eco Craig allarmato. Marion scosse la testa, interdetta. Non l'aveva mai sentita urlare, o anche solo parlare a voce alta, e poi quell'urlo era stato troppo fulmineo ed inaspettato per permetterle di ascoltarlo bene ed identificarlo con certezza.
-Non ne ho idea,- ammise, -ma... chi altro può essere, sennò?-
Nessuno si mosse, gli sguardi truci ed aggrottati in maniera che Marion trovò insopportabilmente stolida; trattenendosi dall'insultarli, si avvicinò al varco e sporse una gamba verso il buio indistricabile dall'altra parte. La sua espressione era rigida ed irremovibile, intagliata nel marmo di una determinazione tediata e sofferta, graffi e graffi ad esasperare la sua sopportazione strenua ed esausta. La sua smorfia di vitrea certezza invitava a sopprimere ogni parola stesse per essere pronunciata.
-Dove accidenti vai, ma sei impazzita?!- Craig fece per afferrarle in braccio. Lei si voltò ed i suoi occhi erano avvelenati da un'asprezza violenta e tremante.
-Faccio quello che siamo venuti a fare! L'abbiamo cercato per un casino di tempo, noi e Near, e adesso è qui! Perciò io entro e gli faccio saltare le cervella. Cos'è, è sparito tutto il coraggio?!-
Fulminò con lo sguardo i presenti, con una sorta d'ira sprezzante, e si voltò chinando la testa per entrare nell'edificio. La cortina di buio si scompose e riavviluppò attorno a lei quando il buco nella porta la inghiottì, come un sipario nero. Craig la seguì senza esitare con la piccola figlia di Near al fianco, Harmony fece lo stesso con blanda inquietudine. Matsuda fece un cenno nervoso con la testa ai suoi uomini, così precedettero Lidner e Gevanni all'interno.
Craig, appena posato il piede sinistro sulla catasta di vetro e cemento che soffocava l'intero pavimento in una pozza di frammenti, si affrettò ad avanzare alla cieca: fu caldo e magnanimo sollievo quello che irradiò i suoi muscoli come un astro nuovo, quando le sua mani allungate cautamente in avanti cozzarono contro un impedimento che non tardò a riconoscere come la schiena di Marion. La ragazza si era fermata lì, in silenzio. Era stato il buio a frenare il suo impeto?
-Che c'è?- le sussurrò piano.
-Datemi una torcia.- tagliò corto lei freddamente. Craig si voltò. Uno dei poliziotti aveva sentito e, dopo aver lottato con la cintura dov'erano appesi diversi strumenti, tese al ragazzo una piccola pila tascabile con poche pretese. Lui ringraziò sommesso e tese il piccolo oggetto a Marion, che l'accettò e accese subito; proiettò fascio cereo abbacinante e pallido come un fantasma, che strappò un brandello di buio con artigli biancastri. La ragazza mosse la luce con circospetta rapidità, di qua e di là, rivelando pareti nude che abbandonavano pezzi d'intonaco come fanno i soffioni e ammassi di ghiaia e polvere e macerie, che talvolta raggiungevano l'altezza delle loro ginocchia. Marion esaminò con sguardo muto e impietoso quella rovina e volse la torcia a sinistra: sporgenze goffe e malamente abbozzate nel cemento grezzo, ancora informi, che volevano assomigliare senza riuscirci granchè bene a dei gradini, ostentando persino una sottospecie di corrimano di lamina, sottile e acuminato come un fioretto -l'idea di aggrapparcisi rievocava in mente soltanto tagli sanguinanti e tetano. Allora, senza scalfire la sua espressione d'indecifrabile disgusto, provò verso destra. Una porta scarna e scura come una bara era un'ombra spettrale contro il muro ingrigito dagli anni e dalla muffa, la maniglia ruvida di ruggine sporgeva promettendo un ausilio decisamente poco affidabile. Marion volse lo sguardo prima da una parte e poi dall'altra, indecisa.
Fu allora che lo sentirono di nuovo: l'urlo, acuto, potente, penetrante nella carne e nelle orecchie come un proiettile. Nessuno riuscì a trattenere un sussulto. La loro vicinanza ravvicinata lo fece risuonare fra quelle pareti nere in maniera ancora più energica.
-Ma proveniva da destra o da sinistra?- Craig parve confuso. Marion si infastidì non poco.
-Non ho capito. Sembrava... sembrava da entrambe.-
Harmony s'intromise, abbracciandosi le spalle per il freddo infido. -Ma è impossibile, è ovvio che era una voce sola, una persona sola e non due.-
Il fatto che non ci fosse nemmeno una parola politically scorrect o un'imprecazione colorita in un'intera frase dimostrava la sua visibile preoccupazione. E se si preoccupava Harmony, la situazione era davvero disperata, ragionò Marion amaramente.
-Lo so.- brontolò. -Però l'ho sentita sia a destra che a sinistra.-
-E' vero.- concordò Tennyson, accigliato. -Anche a me è parso così. Però... non mi sembrava la voce di L.-
-E quando mai l'abbiamo sentita urlare?- ribattè Craig. -Impossibile dirlo.-
-Fatto sta che Kira è qui, da qualche parte, e noi dobbiamo muoverci.- puntualizzò Marion impaziente. -Ci sbrighiamo sì o no?-
-Il punto è- esclamò Matsuda con disappunto, più indietro di lei, -se non sappiamo da dove viene quella voce, dobbiamo andare a destra o a sinistra?-
Il silenzio durò solo l'istante necessario per formulare la classica proposta che porta sempre guai.
-Non ci resta che dividerci.- dedusse Marion, senza esitazione.
Craig afferrò la mano della sorella e quella della piccola. -Noi veniamo con te.-
-E io pure.- aggiunse Tennyson asciutto, quasi sfidando qualcuno a contestare.
-Puoi giurarci, sister.- sorrise Harmony.
Lidner e Gevanni rivolsero loro un'occhiata sconvolta e severa, da qualche parte fra le tenebre. Matsuda, vicino a loro, le intercettò.
-Non preoccupatevi, vado io con loro. Così siamo sei e sei. Voi andrete con i miei uomini ed io con i ragazzi.-
Gevanni fece per replicare, piccato, ma Lidner gli posò una mano sulla spalla in un gesto di tenera fermezza. -Lascia che vada lui.- gli bisbigliò.
L'uomo esitò, ma infine annuì stancamente. Quando Matsuda si voltò verso Marion, aveva un sorriso entusiasta che lo fece assomigliare ad un bambino eccitato.
-Da che parte andiamo??- domandò sollecito. La ragazza inarcò appena un sopracciglio, ironica, ma non commentò.
-Saliamo le scale.- si limitò a rispondere. -Quindi gli altri varcheranno la porta.-
Accordati su ciò, i due gruppi si salutarono brevemente (Gevanni abbracciò Tennyson come se fosse stato certo di non rivederlo più, e Lidner guardò lui e Marion in maniera tanto indicibilmente intensa che la ragazza non potè fare a meno di sorriderle nel tentativo di rassicurarla) e si avviarono per le rispettive vie.
Le scale, in stato di abbandono da più di un decennio, da quand'erano ancora in fase di costruzione, cigolavano e gemevano in maniera così pietosa e raccapricciante che fu impossibile per Marion e gli altri correre o almeno procedere in fretta come avrebbero preferito, ma saggiarono ogni gradino con sospetto e attenzione prima di appoggiarcisi; Craig ripeteva di continuo alla bambina di stare aggrappata forte a lui e di non lasciarlo mai, ed era tentato di chiedere la stessa cosa a Marion, se non fosse stato per ovvie ragioni fraintendibile -e poi, conoscendo il tipo, si sarebbe indispettita a morte e non gli avrebbe rivolto la parola per mesi, offesa (-Ti pare che io abbia bisogno di aiuto?! Chi credi che sia?!-). Harmony invece veniva generosamente aiutata da Tennyson, che con un sorriso compiaciuto e paziente la portava praticamente in braccio, e se la situazione non fosse stata così grave gli altri avrebbero riso della loro azzardata spudoratezza, tutti tranne Craig s'intende. Matsuda era in coda alla fila e lanciava occhiate timorose nel buio insondabile, senza però riuscire a nascondere un bizzarro entusiasmo.
Quando finalmente quelle scale magre e inaffidabili terminarono in un piano di legno male inchiodato, tutti parvero sollevati. Poi giunsero alle loro orecchie brusii, frammenti confusi di suoni indistinti, come una radio mal sintonizzata... ma che sì, avrebbero benissimo potuto essere parole.
Marion lanciò un'occhiata eloquente ai suoi compagni, agitata. Matsuda si portò subito l'indice alle labbra, un avvertimento deciso nello sguardo, e allungando un passo con più lentezza e accortezza possibile per avvicinarsi tese l'orecchio, concentrato. Le voci provenivano da una porta socchiusa, che filtrava uno spiraglio di luce sporca.
Nessuno osava respirare: quel ronzìo indecifrabile era Kira. Kira che parlava. Kira era lì.
Craig strinse la mano alla piccola fino a sbiancarsi le nocche quanto le guance, mentre lei non scomponeva un lineamento della sua espressione costantemente apatica e assorta nella cupa coltre dei suoi pensieri, sicuramente troppo adulti e gravosi per la sua età. Harmony si tastò automaticamente le tasche, alla ricerca dl pacchetto di sigarette come sempre quand'era nervosa, e Tennyson la fermò con un gesto precipitoso ed un sorriso incerto. Matsuda continuava ad aggrottare la fronte, intestardito nel tentativo di carpire qualche parola, e sembrava un po' un allocco.
Fu allora che Marion fece l'azione più sconsiderata e stolta dei suoi quindici anni di vita, "mandando allegramente a puttane tutti gli insegnamenti di Near, e buonanotte al cazzo", come disse Harmony in seguito sghignazzando.
Avanzò sulle tavole di legno polverose, scatenando com'era prevedibile un gracidìo e compassionevoli lamenti dal pavimento, causando un attacco di cuore ai presenti. Ma niente e nessuno avrebbe potuto fermarla, in quel momento; era la sete di sangue quella che scavava la sua espressione. Come in un sogno, strattonò la maniglia e scagliò la porta contro lo stipite, spalancandola.
Interdetto e rapido, uno sguardo incredulo e vagamente incuriosito d'occhi castani incontrò il suo, tagliente di un odio che nessuna parola che potrei tentare d'usare descriverebbe davvero.
Il silenzio, per lunghi secondi o forse per fulminei anni, fu pesante ed immobile come un blocco di cemento. Occhi negli occhi.
Con la calma placida dei gatti Law sorrise, con dolcezza maliziosa; era aguzzo quel sorriso, e il sangue esplose nelle vene di Marion in una rabbia sorda, che non conosceva più limiti nè cautele e s'increspò in onde sempre più imponenti e fragorose, fino a travolgere la sua mente di fiamme liquide. Non ci vide più.





















































Note dell'Autrice: Ed eccomi qui!!! Per farmi perdonare del ritardo, capitolo lungo. ^-^ Vi è piaciuto? Spero tanto di sì, perchè mi ci sono impegnata il più possibile.
E, a titolo informativo, questo era il penultimo. Il prossimo sarà l'ultimo e poi ci sarà l'epilogo. u.u
Quindi, il prossimo sarà il capitolo decisivo... cosa accadrà?
Mi raccomando recensite, miei cari lettori, che ormai siamo quasi alla fine! Ci tengo tanto a sapere che ne pensate!
Lucy
  
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