One day for a promise
[Frank
Sinatra –
Una nota positiva in tutto quel trambusto c’era stata: il suo
appartamento, al quattordicesimo piano di un bell’edificio
né nuovissimo né
troppo vecchio era spazioso e rappresentava un rifugio decisamente
stabile.
Avere finalmente una stanza da letto, una da usare come studio e
riempire di
libri e apparecchi, una cucina, un bagno e addirittura un salottino era
più di
quanto avesse mai sognato di possedere, ed era il minimo che potessero
darle,
visto e considerato quanto le avevano chiesto in cambio.
La prima settimana,
dedicata ad arredare e sistemare gli ultimi
dettagli della sua nuova sistemazione, l’aveva trascorsa
senza pensare a nulla,
completamente immersa in una sorta di trance organizzativa che le aveva
sgombrato la mente. Una volta che tutto era tornato a posto,
però, quando il
nome JANE FOSTER era comparso, nuovo fiammante, sulla targhetta del
citofono e
la sua camera da letto aveva finalmente assunto un aspetto decente, si
era
accorta di quanto si sentisse sola.
Le mancava Darcy, le sue chiacchiere e lamentele, le sue battute
divertenti e la leggerezza – anche eccessiva – con
la quale affrontava certi
argomenti; le mancava Erik, che riusciva sempre a infonderle coraggio
con la
sua gentilezza e il modo di fare quasi paterno… e poi le
mancava lui,
soprattutto lui. Thor.
Sospirò, passandosi le dita sulle tempie stanche dopo almeno
tre
ore di studio intensivo sui libri che aveva preso in prestito alla
biblioteca.
Darcy ed Erik li avrebbe potuti sentire al telefono, almeno, e chiedere
loro se
avevano voglia di trascorrere qualche tempo nella città che
non dormiva mai…
con Thor, invece, non aveva avuto più alcun tipo di
contatto, e non aveva idea
di come avrebbe potuto fare per averne ancora, a parte continuare con
le sue
ricerche.
Si
alzò, decisa a prepararsi una tazza di tè e ad
andare a letto.
Come
poteva caderci così bene ogni volta? Era passata da un
Donald
Blake che capiva meglio i suoi pazienti della sua ragazza ad una cotta
– perché
di una cotta si trattava, nonostante il bacio che si erano scambiati e
la
sicurezza di essere ricambiata – per un tizio uscito fuori
dal nulla che aveva
investito due volte e che si era intrufolato nella base di
un’organizzazione
militare come se niente fosse. Se a tutto ciò si aggiungeva
il fatto che si
trattava di Thor, figlio di Odino, padre di tutti gli dei, la
situazione si
prospettava piuttosto complicata. Proprio quello che ci voleva.
Sbuffò e portò la tazza fino alla sua camera,
sostituendo il libro
che stava leggendo con un romanzo e concedendosi un po’ di
relax. Lui le aveva
promesso che sarebbe tornato, era vero, ma come poteva essere sicura
che
avrebbe mantenuto la sua parola? Per quanto in cuor suo desiderasse
crederci,
non era una stupida, e sapeva che rivederlo non sarebbe stato semplice.
Mentre
si addormentava, sperando che la sua mente stanca le
concedesse un po’ di tregua, si chiese se non fosse un suo
marchio di fabbrica
quello di trovare sempre qualche persona strana di cui innamorarsi.
Thor
sorrise automaticamente, rivolgendo lo sguardo agli occhi
nocciola di Jane che lo osservavano dal foglietto. Ottenere
quell’informazione
era stato più semplice del previsto, ma non per quello la
considerava meno
importante, anzi: se non fosse stato per la gentile agente che gli
aveva fatto
la cortesia di scendere a patti con la creatura che chiamavano
“stampante”, non
avrebbe mai ottenuto un punto di partenza a cui appoggiarsi per
cercarla.
Nonostante i più lo considerassero uno che si affidava
maggiormente ai muscoli rispetto all’intelligenza, anche lui
sapeva usare
l’ingegno, e aveva capito che da solo non sarebbe mai stato
in grado di far
funzionare gli arnesi elettronici, né poteva perdere tempo
provando a copiare i
dati che gli occorrevano, col rischio di essere interrotto e dover
fornire
delle spiegazioni. Non restava che l’astuzia, e una giovane
agente, impietosita
dalla richiesta (tutto sommato innocente) di poter tenere una foto
della
ragazza che amava con sé, era stata la vittima ideale.
Non sarebbe mai arrivato ai livelli di Loki, ma sapeva cavarsela
anche lui, rifletté tra sé. Specialmente se si
trattava di una buona causa:
sapeva che lo SHIELD aveva interesse nel proteggere Jane, ma voleva
mantenere
la sua promessa di andarle a fare visita finché ne aveva la
possibilità, specie
ora che suo fratello era lontano e non sembrava intenzionato a cercarla.
Tutto
sembrava pronto per l’azione. Eppure, la parte più
difficile
doveva ancora arrivare: come poteva raggiungere casa di Jane?
Se lo avesse visto suo padre…
Quel pensiero bastò a farlo riscuotere: nessuno avrebbe mai
assistito alla disfatta del potente figlio di Odino, anche se ad Asgard
non avevano
tutte quelle strane bestie meccaniche e le strade erano molto
più ampie e meno
intricate. E poi, in ogni caso, non voleva che i suoi compagni lo
considerassero un vigliacco: bastava trovare un altro umano che si
mostrasse
gentile come l’agente, e avrebbe risolto in un attimo.
La soluzione sembrava essergli piovuta direttamente davanti, nella
forma di un gruppo di persone che varcavano la soglia di un locale che
un’insegna a caratteri rossi qualificava come Morrison
Café.
La sua esperienza gli insegnava che un’azione rapida era
sempre la
strategia migliore: si avvicinò a grandi falcate alla porta
contrassegnata dai
cartellini che indicavano l’orario di apertura e di chiusura
e l’elenco delle
carte di credito accettate e la spalancò, illuminando per un
attimo un
gruppetto attonito di mattinieri che si godevano un caffè al
bancone.
“Chi
di voi è il figlio di Morris?”
Il
barista lasciò cadere una delle tazze che stava lavando,
alla
vista dell’uomo biondo e decisamente massiccio che lo fissava
con aria risoluta,
chiedendosi dove fossero in momenti del genere gli avventori che si
lamentavano
di quanto fosse noioso il suo locale.
****
Sogni che, tanto per cambiare, avevano Thor per protagonista e si
concludevano in maniera assurda, con il loro matrimonio in cima ad un
grattacielo, o angosciante, con l’enorme mostro di ferro
contro il quale
l’aveva visto combattere che lo finiva mentre una voce
stridula rideva. Si era
svegliata con gli occhi pieni di lacrime – non sapeva neppure
lei se di paura o
di tristezza – e aveva deciso che, per quella notte, ne aveva
abbastanza di
brutti sogni: guardare la tv sul divano del salotto avvolta nel plaid
di pile
che le aveva regalato Darcy le sembrava l’unica maniera di
dimenticare
l’incubo.
Com’era possibile che una persona che aveva frequentato
così poco
le avesse lasciato dentro tanti ricordi e sensazioni così
difficili da gestire?
Non
c’erano state tante parole tra lei e Thor. Mancavano le
discussioni e le riappacificazioni, i confronti e i pensieri condivisi
che
l’avevano legata a Donald per tanto tempo, per quanto la loro
diversità li
avesse portati alla rottura; mancava la consapevolezza di essere nel
bel mezzo
di una relazione che, nel bene e nel male, la completava, la faceva
sentire
minuto dopo minuto una donna realizzata e innamorata. Ecco, forse stava
proprio
lì la differenza: con Thor non aveva mai dovuto pensare
troppo.
I suoi sguardi, i tentativi prima impacciati poi sempre più
sicuri
di adattarsi a quell’ambiente del tutto nuovo per lui, le
piccole attenzioni
che le rivolgeva le scaldavano il cuore, solleticavano quella parte di
lei che
era rimasta affascinata dallo straniero caduto dal cielo dal primo
istante in
cui lo aveva visto. Poco importava se un universo intero sembrava
dividerli;
l’astrofisica così razionale da voler controllare
anche un sentimento
inafferrabile come l’amore (soprattutto dopo
l’ennesima delusione) si era
lasciata andare guidata da quella scintilla che l’aveva
colpita, e tutto il
resto non contava più nulla. Nel bacio che gli aveva
lasciato prima che si
separassero aveva infuso tutto il suo desiderio di fargli capire quanto
avesse
rappresentato per lei, nonostante il poco tempo a disposizione, e la
volontà di
lasciargli un segno, uno qualsiasi, purché mantenesse la sua
promessa…
E
invece se ne stava lì, a farsi coprire di pioggia e a
riflettere
su quanto fossero assurdi e sbagliati i suoi gusti in fatto di uomini,
lontana
chilometri dal luogo in cui era abituata a vivere, sola e costretta a
farsi
proteggere da un’organizzazione che fino a pochi mesi prima
neppure aveva mai
sentito nominare. Ah, e senza ombrello né acqua calda per
farsi una doccia, ora
che ci pensava, dato che quella mattina una vicina di pianerottolo
l’aveva
gentilmente informata che sarebbe mancata almeno fino al primo
pomeriggio, a
causa di alcuni lavori.
L’autobus per fortuna era arrivato. Facendosi largo per
salire,
Jane non poté trattenersi dal pensare che, se proprio lo
SHIELD aveva
intenzione di aiutarla, avrebbe fatto meglio a pagarle una vacanza di
un anno
in qualche posto lontano e riposante.
L’ultima
stanza a ricevere la sua visita fu quella dove la ragazza
dormiva.
Rispetto
alle altre, in quella regnava un certo ordine. Il letto
era stato rifatto, la piccola libreria era ammassata di libri sistemati
in pile
e il tappeto dal disegno floreale abbinato alle tende sembrava essere
stato
sbattuto da poco. L’unico elemento che turbava
quell’armonia apparente era il
comodino. Thor gli si avvicinò incuriosito, per scoprirlo
ingombro di vari
oggetti capovolti, come se una manata li avesse colpiti
all’improvviso: una
scatola di pillole semi-aperta, un romanzo dalla copertina rigida
rotolato a
terra e una cornice rovesciata a faccia in giù, che ad un
più attento esame
rivelò contenere una sua foto.
Chissà
dov’era lei, in quel momento. Chissà se il suo
arrivo le
avrebbe fatto piacere. Con gli occhi della mente vedeva una Jane
spaventata fare
un incubo e rovesciare ciò che si trovava sul comodino, in
un impeto di paura
nel dormiveglia, poi cercare di calmarsi, accarezzare con le dita
quella foto (lo avrebbe fatto davvero?)
e tentare di
ricominciare la sua routine quotidiana che l’avrebbe portata
alle sue ricerche…
senza sapere che, a non molti chilometri da lei, l’oggetto di
quelle ricerche
si era messo sulle sue tracce e la cercava, con la sua stessa
testardaggine.
Solo che avrebbe potuto metterci molto meno, sospirò. E, per
la
prima volta in quella giornata, il suo sorriso baldanzoso
sembrò sfumare.
Quella
doveva essere la giornata delle sorprese, rifletté
amaramente la giovane scienziata. Ricapitolando: incubi, pioggia,
niente acqua
calda, neppure un ombrello, autobus stipato, vestiti fradici addosso,
buste
della spesa che minacciavano di cedere, e ora anche dei ladri
mattinieri? Oh,
fantastico. L’ideale per completare la giornata!
I
visitatori in questione non dovevano essere proprio dei maestri
nel loro “lavoro”, dato che la maniglia era
lì dove un forte colpo l’aveva
mandata, e sia il pomello al centro della porta che lo stesso legno
erano
ricoperti di impronte. Il concetto però non cambiava:
c’era qualcuno in casa,
qualcuno che doveva essersi fatto pochi scrupoli a sfondare la sua
porta
(incurante del fatto che sul pianerottolo c’erano altri tre
appartamenti
abitati, pieni di persone che sarebbero potute accorrere allarmate dai
rumori)
e a penetrare all’interno, attratti dall’idea di
poter accumulare un presunto
bottino. Se non fosse stata preoccupata da quanto avrebbe potuto
trovare in
casa probabilmente le sarebbe scappata una grossa risata al pensiero
che quella
gente la ritenesse ricca, o come minimo in possesso di apparecchiature
appetibili. Poveri illusi…
Varcò la soglia con attenzione, posando le buste alla base
dell’attaccapanni e dirigendosi con la massima lentezza verso
la sua stanza,
laddove i rumori le sembravano più forti. Si
rammaricò di non avere con sé un
dissuasore elettrico, nonostante Darcy le avesse raccomandato
caldamente di
procurarsene uno (“È sempre utile, non ne potrai
più fare a meno… ho steso
quella montagna di muscoli del tizio biondo in un secondo, non male
no?”), ma
avrebbe comunque trovato un valido sostituto: setacciando il salotto
con lo sguardo,
l’occhio le cadde sulla scopa che aveva dimenticato di
riporre dopo l’ennesimo
tentativo di dare una ripulita. Se la sarebbe fatta bastare.
A
noi due, ladro.
Con
un colpo rapido di gambe si portò di fronte alla porta della
stanza, la scopa protesa sopra la testa in equilibrio precario, la
bocca
spalancata nell’anteprima di un grido che avrebbe dovuto
spaventare il suo
avversario…
Fu in quel momento che il ladro decise di voltarsi. E bastò
uno
sguardo a farla ammutolire, mentre la scopa cadeva a terra con uno
schiocco
sordo al quale nessuno prestò attenzione.
Jane aveva fantasticato a lungo sul suo ritorno, sia durante le
notti insonni che nei momenti in cui si dedicava ai suoi studi: lo
immaginava
come un evento felice, si, ma decisamente poco realizzabile, almeno per
il
tempo in cui si trovava. L’idea che il giovane sarebbe potuto
apparire così,
all’improvviso, senza alcun avvertimento e soprattutto
lasciando dietro di sé
maniglie staccate e disastri non l’aveva minimamente presa in
considerazione…
eppure, la sua figura alta avvolta nel mantello che gli aveva visto
addosso
durante il loro ultimo incontro e Mjolnir stretto in mano lasciavano
poco
spazio alle alternative. E poi c’era il sorriso, quel sorriso
nato da un misto
di amore e spensierata felicità che, lo aveva scoperto
presto, dedicava solo a
lei, e i capelli che sembravano catturare la luce del sole, gli occhi
che si
piantavano nei suoi e li riempivano d’azzurro, e il suo
sguardo, e…
La
sua mente continuava ad inviarle messaggi impazziti di euforia,
ma lei non riusciva a trasformarli in azioni. Le tremava il labbro,
mentre
cercava le parole adatte.
Farfugli poco comprensibili, di chi sembra riprendere un discorso
interrotto da poco.
“Ti
sei introdotto qui senza dire nulla. Mi hai distrutto la
porta. Riempito il bagno di calcinacci. Impolverato tutti i pavimenti.
E… e…”
Una
pausa. Sentì le lacrime fare capolino all’angolo
degli occhi,
ma cercò di scacciarle. La voce, però, non voleva
saperne di restare salda.
“Hai
mantenuto la promessa”.
Lui
si limitò a sorridere, di nuovo. “Sono
tornato”.
Buttargli
le braccia al collo e rannicchiarsi tra quelle del
compagno come una bambina poteva non essere un’azione degna
di Jane Foster,
astrofisica e brillante studiosa, ma era più che sufficiente
ad esprimere ciò
che provava in quel momento.
Senza che se ne fosse resa conto, le lacrime erano iniziate a
scorrere, e assieme a quelle i piccoli pugni che gli tempestavano il
petto e facevano
da intervallo ai tentativi di lui di farla star ferma, di rassicurarla
sul
fatto che era lì davvero, non si trattava né di
un incubo destinato a
sciogliersi, né di un sogno troppo realistico.
Continuò a versare lacrime che
non sapeva definire di gioia, di sollievo o di rabbia, e mentre ogni
consapevolezza
crollava sentiva di essere stupida, stupida a credere che quello
sarebbe stato
l’inizio di qualcosa di duraturo e ancora più
stupida a voler tagliare ogni
speranza alla radice, e intanto continuare a piangere, come se non ci
fosse
nient’altro intorno a loro, a quello scenario vagamente
assurdo di una casa
semi-dissestata dove un dio sceso da Asgard e un’umana che da
troppo tempo non
ascoltava i suoi sentimenti si incontravano…
Il
silenzio, ora totale, la assordava. Come mai non sentiva il
battito del cuore? Eppure, da quanto sembrava darsi da fare sbattendo
contro la
cassa toracica, avrebbe dovuto risultare forte e chiaro, come un
uccellino
impazzito che cercava di sfondare un vetro…
Alzò gli occhi e, incontrando quelli di lui,
sentì di conoscere la
risposta ai dubbi che l’avevano assalita poche ore prima:
aveva scelto Thor –
lasciandosi Donald alle spalle – perché con lui
non doveva mai fingere nulla.
Di fronte a quelle parole, alla protezione nata dal suo abbraccio,
era impossibile arrabbiarsi, o anche solo pensare di aver fatto la
scelta
sbagliata: in fondo, gettare per un po’ la sua maschera di
efficienza e restare
la ragazza impacciata (innamorata) che si imbarazzava e non sapeva bene
come
rispondere al suo baciamano non poteva che farle bene. E Thor, per
quanto
potesse sembrarle inavvicinabile, impetuoso, assurdo…
era la sua scelta.
Lo
baciò di nuovo, con la stessa foga del loro ultimo bacio,
attirando il suo viso verso il basso e affondando le mani nella chioma
bionda,
cercando di imprimersi nel cuore ogni secondo di quello strano lasso di
tempo
che li vedeva assieme.
Come risposta era più che eloquente.
All’incontro
burrascoso era seguita la tranquillità, come alla
fine di una tempesta. Jane sapeva bene di non poter sprecare un solo
istante, e
si era comportata di conseguenza: dopo averlo pregato di cambiarsi (per
fortuna
disponeva di una t-shirt da uomo scovata nel suo guardaroba, dare
nell’occhio
come nel New Mexico era l’ultimo dei suoi desideri) si era
mobilitata per
andare ad acquistare qualcos’altro per preparare un minimo di
cena adatto ad
entrambi, e Thor si era offerto di accompagnarla. Era bello passeggiare
per le
strade di New York fianco a fianco, una bustina di stoffa sottobraccio
e lo
sguardo del giovane che non la lasciava un attimo, come a volersi
assicurare di
averla veramente ritrovata; sembrava una normale uscita per spese di
una
coppia, un assaggio di vita quotidiana che la rendeva felice.
“Diciamo che mi hanno concesso un giorno di riposo. Lo
chiamate
così, giusto? Un giorno di riposo per ringraziarmi
dell’aiuto offerto loro…
ovviamente non potevo rifiutarlo.”
Si fermò, esitante. Avrebbe potuto raccontare la
verità, ossia che
la situazione era problematica e che Loki probabilmente aveva preso il
controllo su Erik (che quasi sicuramente Jane credeva al sicuro dove lo
aveva
lasciato), ma preferì omettere quella parte: voleva tenerla
il più lontana
possibile da quegli intrighi e da suo fratello. Così si
limitò a cingerle la
vita con dolcezza.
“Chissà
cosa direbbero se ci vedessero camminare tranquillamente
per le vie di New York, mentre secondo loro dovrei restarmene chiusa in
casa
nell’anonimato più totale per sfuggire a
chissà chi” sbuffò, per poi riprendere
con un sorriso rassegnato “tra l’altro, poco dopo
il mio trasferimento mi hanno
comunicato che la mia sistemazione qui è solo provvisoria,
tra poco mi
spediranno a Tromsø…
c’è da dire che, dato il freddo di ieri, mi
sto già allenando per il clima, ma la cosa non mi rende
granché felice.
Sugli occhi nocciola di lei cadde un’ombra. Thor le strinse
la
mano, come a volerle ribadire il suo appoggio: “Vuol dire che
prenderò Mjolnir
e ti verrò a cercare, dovunque tu sia.
Al pensiero di un Thor appeso al suo martello che fiancheggiava un
aereo di linea in volo tra le nuvole, Jane non riuscì a
trattenere una risata
divertita, liberatoria, così come non ne faceva da molto.
L’autobus che
avrebbero dovuto prendere spalancò le porte e la giovane
scienziata le varcò
con passo sicuro, accompagnata dal dio e da un senso di completezza al
quale
non poteva non rivolgere un caloroso bentornato.
Si sentiva sciogliere, la mente piacevolmente vuota (era ora), la
consapevolezza di essere nuda e al calduccio tra le braccia del suo
uomo che le
solleticava appena i pensieri e le impediva di sprofondare nel sonno
ristoratore che da tanto aspettava… non voleva addormentarsi
subito, non
poteva.
Si
girò piano e sfiorò col dito la guancia di Thor,
delineandone
il profilo, giocando con le piccole rughe d’espressione che
incontrava,
beandosi nell’osservare il suo respiro lento e regolare
fargli alzare e
abbassare il petto, fremere appena un labbro: a vederlo
così, nessuno avrebbe
mai riconosciuto in lui il figlio di Odino, il futuro re di Asgard: non
era
altro che un giovane addormentato, tranquillo come un qualunque essere
umano che
riposava.
Un sottile spiffero d’aria sfuggì dalla finestra
socchiusa e le
morse la pelle della spalla, facendole per un attimo tornare alla mente
Jane sorrise, nel silenzio della sua stanza. Era bello dormire
accanto a lui.
****
Per il resto, la fic si svolge in un periodo abbastanza
imprecisato, a grandi linee diciamo tra la fine di Thor e
l’inizio di The
Avengers, fino al momento in cui Jane viene trasferita in Norvegiab
(nel film
Thor vede il suo nome nel monitor che gli mostra Coulson). Ovviamente
è una
What if?, per cui prendete come licenze poetiche le eventuali sviste XD
Grazie anche a Timcampy_, Valery_Snape, Lady
Sigyn e Vaneshalla
per avere inserito la storia nei preferiti, e a Merihon
per averla inserita nelle seguite… E a voi lettori
“dietro
le quinte”, ma se mi lasciaste una recensione o una critica
– anche piccola
piccola – mi rendereste ancora più felice!
Alla
prossima,
Nat