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Autore: Sophia Holloway    17/01/2013    0 recensioni
«Devo morire» annunciò.
«Che novità. Anch’io devo morire. Spero a novant’anni, magari dormendo» ironizzai.
«Io però non morirò a novant’anni, magari dormendo. Morirò a breve, perché la Morte ha deciso di divertirsi ancora un po’ con me, invece di farmi riposare in pace facendomi stirare sull’asfalto da un’auto».
«Senti. Tu non stai per morire, ok? Il fatto che tu abbia evitato la morte per un soffio non vuol dire che… che la Signora con la Falce, o che so io, si è offesa e adesso ti verrà a cercare…».
«Te l’avevo detto, che non mi avresti creduto» disse, fredda, quasi offesa o delusa.
Lasciarla andare sarebbe stato semplicissimo. Ma chissà perché, avevo sempre disprezzato le cose semplici.

Prima classificata al contest "Cosa vorresti fare prima di morire?" gestito da ErinThe
Genere: Malinconico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Uno.
Collide

Quella mattina non avrei mai potuto dire che sarebbe successo qualcosa di speciale. La sveglia non suonò, la mia sorellina entrò nel bagno prima di me e mi ritrovai a correre in strada per andare a scuola solo alle otto e dieci. Tutto normale, insomma.
Poi, quando ero a metà strada lungo il viale in discesa che portava alla Newton High, sentii un prolungato stridore di freni, un clacson e uno spaventoso rumore di metallo su metallo, mentre mi giravo appena in tempo per vedere una vecchia Volkswagen azzurro sporco che andava fuori strada e sbatteva con violenza contro un palo della luce.
Rimasi a metà di un passo, sbalordito; l’auto era solo una decina di metri dietro di me. Il guidatore si muoveva debolmente, l’impatto attutito dal grosso airbag. Poco più in là c’era una ragazza, apparentemente illesa ma dall’aria sconvolta, in piedi a forse un metro dall’auto. Sembrava non essere stata colpita per un soffio. Tornai sui miei passi, finché non le arrivai vicino. «Ehi, stai bene?» le chiesi.
Era più bassa di me di quasi tutta la testa, i capelli castano ramato tagliati in un caschetto disordinato e grandi occhi nocciola spalancati in un’espressione di terrore e puntati davanti a lei, verso il ciglio della strada. Stringeva una cinghia dello zaino nero con forza tale da far sbiancare le nocche.
«Ehi» ripetei quando vidi che non reagiva, sfiorandole una spalla. «Va tutto bene?».
Lei sobbalzò e parve riscuotersi, ma i suoi occhi si posarono su di me senza vedermi «No, voglio dire, sì!» farfugliò quando riuscì a mettermi a fuoco. Tornò a rivolgersi verso l’auto. «Va tutto fin troppo bene! Cristo, sono viva!». Sollevò le braccia al cielo, poi si mise le mani nei capelli tirandoseli all’indietro, sul viso un’espressione che non riuscii a decifrare. Gioia e paura insieme, forse.
«Hai bisogno che chiami qualcuno?» dissi, preoccupato.
«No, certo che no…» mormorò guardandomi, poi riprese a borbottare tra sé e sé. «Diavolo, adesso vorrà qualcosa in cambio… che bastardo…».
«Scusami, come?». Sentii le sirene dell’ambulanza che stava arrivando in lontananza, probabilmente chiamata dalla donna che ora stava parlando a bassa voce col guidatore dell’auto, un uomo di mezza età. Magari sarei riuscito a farla andare all’ospedale comunque, per un controllo…
Quasi mi avesse letto nel pensiero, la ragazza si sistemò lo zaino sulla spalla e si avviò in direzione contraria alla Newton. Imprecai a mezza voce e le andai dietro.
«Che stai facendo? Sei scioccata! Dovresti andare all’ospedale!».
«Sto benissimo, grazie» si girò a mezzo verso di me, continuando a camminare. «E poi non posso sprecare tempo».
«Tempo di cosa? Ma che vai dicendo?» la superai in due falcate e la bloccai davanti a me, mettendole le mani sulle spalle. «E chi vuole qualcosa in cambio?».
Mi fissò negli occhi, soppesandomi. «Non mi crederesti» decise infine, quindi mi scansò e riprese a camminare. Chissà perché, mi diede fastidio essere giudicato così in fretta da una perfetta sconosciuta. Teoricamente, proprio perché non la conoscevo avrei dovuto lasciarla perdere e andare a scuola, sempre se non era troppo tardi. E invece la affiancai di nuovo, guardandola torvo mentre una pioggerella leggera cominciava a scendere.
«Cosa te lo fa pensare?».
«Intuito femminile?» ironizzò, stringendo attorno al corpo il sottile cardigan grigio scuro che indossava.
Alzai gli occhi al cielo, irritato dal fatto che quella conversazione fosse sfociata in una specie di litigio tra bambini. «Che ti costa dirmelo?».
Si fermò di nuovo, le mani sui fianchi e una ciocca di capelli incollata alla fronte; la scostò con un gesto secco. «Se te lo dico mi lascerai stare?».
Annuii. La vidi esitare per qualche istante, poi puntò gli occhi nei miei.
«Devo morire» annunciò.
«Che novità. Anch’io devo morire. Spero a novant’anni, magari dormendo» ironizzai. Vidi le sue labbra muoversi in fretta ma senza rumore, e fui quasi sicuro che mi avesse insultato.
«Io però non morirò a novant’anni, magari dormendo. Morirò a breve, perché la Morte ha deciso di divertirsi ancora un po’ con me, invece di farmi riposare in pace facendomi stirare sull’asfalto da un’auto».
La fissai, non capendo. Anzi, desiderando con tutto me stesso di aver capito male. Poi però vidi che continuava a fissarmi con aria spavalda e dovetti constatare che lei a quello che aveva detto ci credeva davvero.
«Senti» le dissi, con tutta la cortesia e la cautela che riuscii a racimolare. «Tu non stai per morire, ok? Il fatto che tu abbia evitato la morte per un soffio non vuol dire che… che la Signora con la Falce, o che so io, si è offesa e adesso ti verrà a cercare… Non finirai impiccata con il filo interdentale o… o…». Vidi che mi fissava con aria interrogativa, come se il pazzo fossi io e non lei. «”Final Destination”» spiegai. «Il film. Mai sentito..?». Non mi rispose. «Beh, comunque nella realtà queste cose non succedono. Hai avuto fortuna, sii felice e vivi la tua vita…». Chissà perché, le mie parole sembrarono indurire ulteriormente la sua espressione.
«Te l’avevo detto, che non mi avresti creduto» disse, fredda, quasi offesa o delusa. Poi girò i tacchi e tornò a camminare su per la salita.
La fissai, il cardigan che ondeggiava per le raffiche di vento.
Lasciarla andare sarebbe stato semplicissimo. Quello sarebbe diventato un aneddoto da raccontare ogni tanto agli amici o alle feste squallide dove nessuno si diverte. “Ehi, una volta ho assistito a un incidente e c’era questa ragazza, sì, totalmente pazza… Credeva di essere condannata a morte!”
Sarebbe stato semplice. Ma chissà perché, avevo sempre disprezzato le cose semplici. E anche quelle razionali. Invece, a far polemiche ero bravissimo.
«Come puoi pretendere che uno creda a una storia del genere?» sbottai, alzandomi la giacca di pelle fino al mento per evitare che l’acqua gelida che cadeva sempre più insistentemente scivolasse giù per la mia schiena. Tornai a inseguirla, ma lei stavolta non sembrava avere la benché minima voglia di fermarsi.
«Io non ho preteso nulla. Sei tu che hai iniziato a seguirmi per chissà quale motivo» ribatté, acida.
«Sai com’è, un’auto si è appena schiantata a pochi passi da te e mi sono sentito in dovere di darti una mano». Mugugnò qualcosa che non riuscii ad afferrare. Ormai camminavamo fianco a fianco, in fretta, ma mentre io provavo – con scarsi risultati – a non bagnarmi, lei camminava con le mani affondate nelle tasche del cardigan, che copriva una maglietta a mezze maniche che una volta doveva essere gialla, ma che adesso a causa dell’acqua sembrava arancione; i capelli le si erano divisi in ciocche scomposte e lievemente arricciate.
«Grazie» ripeté più forte, quasi di malavoglia. «Il tuo dovere da bravo scout… o quel che è, l’hai fatto. Puoi andare, adesso», si sentì in dovere di aggiungere poi.
«Bella gratitudine» sbuffai a mezza voce. «Non ti lascio andare da nessuna parte. Sei sconvolta!».
«E chi ti dice che lo sono?».
Inarcai le sopracciglia. «Non è una colpa. Hai tutto il diritto di essere scioccata».
Si morse le labbra. «Diavolo, in effetti sono appena morta e resuscitata…».
Ignorai quell’ultimo pezzo, aggiunto a voce tanto bassa che forse credeva non l’avessi sentito. «Comunque, me lo dice il fatto che stai praticamente scappando! ...da cosa, poi?».
Sbuffò. «Non sto scappando. Sto correndo e basta».
«A che pro? Piove, fa freddo. Prenditi una pausa». La presi per un gomito, la sentii irrigidirsi attraverso le dita e poi rilassarsi leggermente. Parlò senza guardarmi negli occhi.
«Ho già… perso troppo tempo. Non posso… non voglio sprecarne altro».
La fissai mentre si tormentava una ciocca di capelli, arricciandola attorno a un dito, con lo sguardo basso. Non riuscivo a crederla pazza nemmeno usando tutta la mia immaginazione. E non riuscivo a lasciarla sola, mi sembrava troppo vulnerabile.
La tirai per la manica, facendole rialzare lo sguardo. Accennai un sorriso. «Sediamoci un momento, ti va? Così magari mi spieghi la tua… teoria. Magari non ti crederò lo stesso, ma quando diventerò un grande sceneggiatore Hollywoodiano userò la tua storia e insieme faremo milioni». La vidi sul punto di ribattere qualcosa, ma l’ignorai e indicai un bar poco distante, in una piazzetta. «Ti offro una cioccolata calda. La cioccolata calda non è mai tempo perso».

Accettò di sedersi ad un tavolino all’interno, appartato e vicino ad un termosifone; lei ci poggiò sopra il cardigan perché si asciugasse, e vidi che sulla maglietta gialla c’era stampata un’auto, la DeLorean di Ritorno al Futuro. Cosa per cui in un altro momento avrei potuto sposarla.
Ordinammo due tazze di cioccolata, e quando arrivarono ancora non avevamo aperto bocca. Il silenzio mi faceva sentire stupido, quindi decisi che parlare della sua teoria del Sto-Per-Morire non poteva essere tanto peggio.
«Allora» iniziai. «Tu dici che… che la Morte – non potei impedirmi di gesticolare in modo un po’ sarcastico – tornerà a prenderti presto, perché… perché…».
«Perché la mia vita finora ha fatto cagare» disse, concentrata sulla cioccolata calda. «Oddio, lui è stato un po’ più gentile di così, ma il succo è questo».
«Lui?».
«La Morte. Era un ragazzo. Si è manifestata come un ragazzo coi ricci rossi» spiegò, stropicciandosi le palpebre; il trucco si era sciolto, probabilmente per la pioggia, e così finì col disegnarsi due grossi archi neri sotto agli occhi. Presi un fazzoletto dal distributore sul tavolino e glielo porsi.
Il discorso già mi sapeva di nonsense. La morte non avrebbe dovuto essere una donna? Magari una vecchia? O anche bella, giovane, armata di falce, vestita interamente di nero. Da dove diavolo usciva un ragazzo coi ricci rossi?
Premetti due dita sulla base del naso. «Senti, che ne dici di raccontarmi tutto dall’inizio?».
Lei finì di ripulirsi gli occhi, e quando del trucco nero rimase solo un leggero alone grigiastro, annuì. «Ero in un viale. Non sapevo come ci ero arrivata, e ricordo che ho avuto l’impressione di sentirmi come Alice nel Paese delle Meraviglie» abbozzò un minuscolo sorriso. «Ho percorso il viale e ho trovato questa specie di saloon, dove c’era… lui. Abbiamo parlato. Mi ha detto che ero morta, e anche se prima non lo sapevo poi mi è tornato in mente. Incidente d’auto. Poi lui si è fatto strano, mi ha detto che potevo avere una seconda possibilità, anche se breve, per fare quel che avrei voluto, per non lasciare… affari in sospeso. Mentre me ne andavo ha detto che però avrebbe… avrebbe…». Chiuse forte gli occhi e si coprì il viso con le mani. «Non lo so. Credo che mi abbia minacciata. Ha detto che chi ha molto, ha anche molto da perdere. E che avrei fatto meglio a vivere ogni momento come se fosse l’ultimo, perché uno sarà l’ultimo». Sospirò e prese un altro sorso di cioccolata bollente. Io la stavo ancora mescolando col cucchiaino, pensieroso.
«Non mi torna» dissi infine. «Perché la Morte dovrebbe dare una seconda possibilità a te? Senza offesa» aggiunsi in fretta «ma se avesse questo potere, perché non farlo con tutti? O con più persone, almeno».
«Magari lo fa» ipotizzò. «Ma nessuno viene a dircelo. Io te l’ho detto, ma solo perché mi hai quasi costretta» mi fissò, ma sul suo viso aleggiava un sorriso. «E poi nemmeno mi credi. Quindi non è una cosa che ha pubblicità».
Annuii, infilandomi in bocca un cucchiaino di cioccolata. «Già». Non potevo dirle che le credevo. Non era vero. «Scusa se non sono stato proprio gentilissimo» dissi invece.
«Lo sei stato» ribatté. «Chi altri avrebbe inseguito una povera pazza sotto la pioggia per assicurarsi che stesse bene? Io forse no» ammise.
Esitai, poi le porsi una mano. «Io sono Nate». Mi fissò, forse sorpresa, e la strinse. «Juliet».
«Piacere di conoscerti, Juliet».
«Sì?» chiese, divertita. «Anche se sostengo di avere la Morte alle calcagna?».
«Tanto anche i miei amici sono strani. Uno più, uno meno…» scherzai, e lei rise.
Scese di nuovo il silenzio, forse un po’ meno pesante di prima. La osservai mentre intingeva un biscotto nella cioccolata, pensieroso.
Era pazza e non le credevo. Ma non m’importava. In quel momento era solo una ragazza spaventata con tanta voglia di vivere. In fondo, pensandoci bene, avevo preso la mia decisione quando l’avevo seguita.
«Proviamo a… a mettere da parte per un attimo il lato della vendetta della Morte, ok?» dissi, tra un sorso di cioccolata e l’altro. «Mettiamo che stamattina ti sei svegliata e hai realizzato che… che…» tentai di trovare un modo di essere gentile.
«Che non mi piace come ho vissuto la mia vita finora» suggerì lei, e annuii.
«Ecco, esatto. Questo posso crederlo» le sorrisi.
Mi fissò. «Perché ti stai applicando tanto?».
«Non lo so. Perché mi interessa sapere come va a finire la storia. E perché non si può sopportare di sapere di dover morire a breve senza dirlo a nessuno. Vero o falso che sia ».
«Grazie» disse, un po’ più rilassata.
«Beh, allora? Che vuoi fare?».
Sgranò gli occhi. «In che senso?»
«Prima di morire».
«Ah. Non ci ho mai pensato» ammise.
«Puoi farlo adesso. Tanto, ormai abbiamo ufficialmente bigiato». Le indicai l’orologio, che segnava le nove meno cinque, e sorrise.
Ordinammo due fette di torta e, pescati un foglio e una penna dal suo zaino, cominciò a fare un elenco. Io tirai fuori l’iPod dalla tasca della giacca e m’infilai una cuffietta, tenendo basso il volume.
La vidi mordicchiare la penna, scrivere un paio di cose, fermarsi, cancellare e fermarsi ancora, per poi infilarsi una mano nei capelli e scuoterli; erano ancora umidi di pioggia. «Non so che scrivere. E mi sento incredibilmente stupida» ammise. Poi aggiunse, a bassa voce, come se si vergognasse: «Puoi aiutarmi? Per favore».
«Non credo di essere la persona migliore per aiutarti. Insomma, non ti conosco».
«Già. Strana situazione, non ti pare?» sorrise. Alzò la testa verso l’orologio, che era quasi alle mie spalle. «Mi chiamo Juliet Collins, ho quasi diciassette anni, dovrei compierli a febbraio. Ho una sorella minore e… il mio colore preferito è il rosso. E in genere non sono così estroversa».
«Il mio nome completo è Nathan Lewis, ho diciotto anni, una sorella di nove, e il mio colore preferito è… il verde. E in genere non vado in giro a perseguitare povere ragazze sotto la pioggia».
«E tutto questo mi aiuta in qualche modo?» commentò, seccata. «Direi di no». Sospirò e fece per alzarsi.
«Aspetta» le dissi, non sapendo bene perché l’avessi fermata.
«Perché?» mi chiese, infatti.
«Te l’ho detto».
«Seriamente, stavolta».
Esitai. «Perché se mi capitasse, vorrei che qualcuno lo facesse per me».
Mi scrutò ancora, scannerizzandomi con i suoi occhi nocciola. Il suo cellulare vibrò, mettendo fine a quell’esame. «Devo andare» disse, alzandosi di nuovo.
Annuii, senza sapere cosa pensare di quella breve conversazione.
Lei si alzò dal tavolino, prese il cardigan e lo zaino e si avviò verso la porta. Si fermò a metà strada, scarabocchiò qualcosa su un pezzetto di carta e me lo passò. Era un numero di cellulare.
«Nel caso poi ti vada di sapere come va a finire» spiegò. «Grazie di tutto, Nate».

Intorno all’una, appena uscì di scuola, il mio migliore amico Steve mi chiamò. Io ero tornato a casa da un pezzo, senza nemmeno provare a entrare lo stesso.
«Nate, che fine hai fatto oggi?» fu il suo saluto.
«Ho avuto… dei problemi» dissi, sperando che gli bastasse. Girai un’altra pagina del fumetto che stavo leggendo.
«Che tipo di problemi?» chiese invece.
Sbuffai. «Ho assistito a un incidente».
«Oh merda! È grave?».
«Credo che solo il guidatore dell’auto si sia fatto male, ma neanche tanto. Deve aver perso il controllo».
«E allora perché hai fatto tardi?». Mi chiesi da quando Steve fosse diventato peggio di un agente della CIA.
«Perché una ragazza non è stata colpita per un soffio, era sconvolta e ho deciso di darle una mano».
«Come sei cavaliere!» esclamò Steve teatralmente. «E lei com’è?».
«Non ho avuto modo di conoscerla granché in un’ora scarsa» gli risposi. Poi ci pensai su. «Aveva una maglietta di Ritorno al Futuro».
«OH MIO DIO! Nate!» esclamò.
«Steve, mi hai distrutto un timpano!» protestai, ma lui m’ignorò.
«Nate, amico mio, non farti scappare quest’occasione» tentò di persuadermi Steve. «Probabilmente una così non l’incontrerai mai più».
«Non posso chiamare una ragazza e… e dirle… “Ehi, ho notato che avevi la maglietta di Ritorno al Futuro. È il mio film preferito. Forse è anche il tuo. Ti va di uscire insieme?”. Ma per favore, Steve. Anche perché non mi è parsa…» trovai un modo leggero di dirlo. «Molto in sé, in quel momento».
«Ci credo, ha evitato la morte per un soffio!» mi rimproverò lui, facendomi sobbalzare per quel riferimento così chiaro. «Aspetta… chiamare? Ti ha dato il suo numero?».
«Ehm… sì, ma…» balbettai, tentando di distrarlo, ma ormai era troppo tardi.
«È fatta, Nate! Ti abbiamo trovato una ragazza!» gioì.
«Tu sei pazzo» l’apostrofai. «Non ho la benché minima intenzione di… di…» balbettai, ma non mi ascoltò nemmeno.
«Fantastico, fantastico! Poi dimmi come va a finire, io devo chiudere o perdo il pullman. A dopo!».
Non mi diede nemmeno il tempo di salutare che aveva già riattaccato, mandando a quel paese i miei propositi di dimenticare quella ragazza e farmi i fatti miei.
Non per i motivi di Steve, ovviamente. Sembrava strano, ma il fatto che lei fosse stata catapultata nella mia vita così bruscamente non mi sembrava un caso. Pensandoci bene, io al caso credevo ben poco.
Lasciai il fumetto aperto a metà sul pavimento, stendendomi sul letto. Sentii mia madre e mia sorella tornare poco dopo. Quest’ultima aprì la porta della mia camera e venne ad abbracciarmi.
«Ciao, Nate!» mi salutò, entusiasta. Aveva i capelli castano chiaro lisci e tenuti all’indietro da un cerchietto, le guance rosa e la bocca aperta in un sorriso.
«Ehi, Maggie» la salutai, dandole un bacio sulla guancia.
«Com’è andata oggi?» chiese mia madre, comparendo sulla porta. Aveva i miei stessi identici capelli neri, ma i suoi erano ricci e tenuti in una coda alta.
«Bene» mentii.
«Hai visto? Qui vicino c’è stato un incidente». Spalancai gli occhi, sorpreso che lo sapesse già. Quando ero tornato, intorno alle nove e mezza, c’era già il carro attrezzi pronto a recuperare i rottami. «Davvero?».
«Già. Me l’ha detto la signora Williams». La nostra vicina con dozzine di gatti. «È successo stamattina presto, quindi pensavo che magari avessi visto qualcosa visto che sei uscito dopo di noi».
«No, deve essere successo ancora più tardi» ipotizzai.
«Meglio così» commentò, sollevata. «Pare che invece una ragazza sia stata quasi investita. Maggie, vieni a lavarti le mani, tra poco si mangia» chiamò, cambiando discorso e uscendo, senza notare che ero impallidito.
No, decisamente il caso non esisteva.

Passai la serata e la mattina successiva a pensare a se chiamarla o no, il suo numero conservato nella tasca esterna del mio zaino a tracolla.
”Se la incontro, la invito a uscire” mi dissi mentre ero a scuola, ma in quel poco tempo che stetti fuori dalla classe non l’incrociai, anche perché saltai l’intervallo per colpa del compito di matematica. Alla fine della giornata non ero riuscito nemmeno a fare una chiacchierata decente con Steve. Quest’ultimo mi affiancò solo subito prima che entrasse in metropolitana. «Ci vediamo stasera, mezz’ora prima come al solito» mi disse.
«Cosa?».
Mi guardò come se fossi stupido. «Stasera suoniamo da Tom, ricordi?».
«Oh, certo» mentii, anche se me l’ero totalmente dimenticato.
«Bene. A dopo, allora». Attraversò la strada di corsa, facendo ondeggiare il codino di capelli lunghi e castani, finché non scomparve nella moltitudine di studenti.
Mi avviai su per la salita, in silenzio e con passo lento; riconobbi all’istante il punto dove l’auto si era schiantata, perché aveva piegato un paletto stradale e ammaccato un lampione. Sbuffai e mi sedetti su un muretto poco distante, prendendo il cellulare e frugando alla ricerca del numero di Juliet. Lo composi in fretta, prima che potessi ripensarci.
“Se risponde, la invito” mi dissi. “Altrimenti sarò soddisfatto del tentativo”.
Se fosse scattata la segreteria telefonica, chiedendomi di lasciare un messaggio, non avrei avuto idea di che fare. Squillò a vuoto quattro o cinque volte, finché non mi dissi che era stupido continuare.
«Pronto?».
«Pronto» sospirai.
«Chi parla?».
«Juliet? Sono Nate. Quello di ieri» aggiunsi poi.
«Oh sì. Ciao!».
«Ciao» ripetei.
«…Perché mi hai chiamata?».
«Oh, ehm… volevo chiederti se… se hai trovato un desiderio».
«Più o meno» disse. Sentii dei rumori di sottofondo, probabilmente stava cucinando. «Vorrei andare a un concerto. Non ci sono mai stata».
«Diavolo, se non è destino questo…» borbottai.
«Cosa?».
«Volevo invitarti a un concerto. Suonano gruppi emergenti, fanno sia cover che pezzi originali. Se ti fa piacere ti mando un messaggio con le informazioni. Porta un paio di amici, se ti va».
Ci pensò su. «Quando?».
«Stasera».
«Per me va bene. Mandami quel messaggio, ora devo andare. Ci vediamo stasera, quindi?».
«Sì, certo».
«Bene, allora ciao».
«Ciao» mormorai, chiudendo la telefonata. Impiegai pochi secondi a scrivere e inviare il messaggio.
Era fatta.



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Angolo dell'autrice
Come al solito non ho idea di cosa dire.
Innanzitutto ringrazio chiunque deciderà di leggere/seguire/recensire questa storia.
Come avevo detto, lo stile di questo capitolo (e dei successivi) è diverso da quello presente nel prologo.
So che è strano, ma io mi sono trovata meglio così. Spero che vi intrighi lo stesso, e che vogliate dirmi cosa ne pensate.
In tutta la storia ci saranno riferimenti ai miei interessi, ad esempio la mia passione smodata per
Ritorno al Futuro, ma soprattutto per i miei assurdi gusti musicali. Già nel prologo ho inserito i testi di
due canzoni, la prima, Afterlife degli Avenged Sevenfold, è quella che mi ha ispirato questa storia e il titolo stesso;
la seconda è Mad World di Gary Jules. Poi, ogni capitolo è chiamato come il titolo di una canzone.
Per maggiori informazioni chiamate il numero in sovrimpressione lasciate un commento, positivo o negativo o neutro che sia.
Alla prossima,
Soph.

  
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