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Autore: Loda    19/01/2013    3 recensioni
Se non ti guardi allo specchio, non lo vedi che stai piangendo. Ma le lacrime ne hanno anche un altro di riflesso, che è tutto interiore, ed è più crudele di esse stesse, infinitamente.
Si tratta del sangue.
"Non si tratta di essere buoni o cattivi, non si è mai trattato di questo. Ci sono solo epoche da attraversare, scelte da compiere e personalità che crescono. Nessuno vive così poco da non cambiare volto nemmeno una volta"
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 19
CAPITOLO XIX
FULGIDA STELLA
 
 
 
Germania, 1983
 
C’era un’atmosfera cupa a Berlino.
La sera in giro non c’era nessuno, erano ormai troppi quelli che credevano all’esistenza dei vampiri. In Inghilterra se ne parlava nei giornali, alla televisione, ovunque. C’era ancora qualcuno che diceva che era tutta opera dei terroristi, altri sostenevano fosse opera dei russi. La guerra, quella c’era sempre, nell’aria, anche se era fredda,  proprio come i vampiri. La paura dei vampiri e la paura del pericolo atomico stavano trascinando il mondo sempre più giù. Anche i vampiri avrebbero dovuto avere paura della bomba atomica no? Ma a che scopo, pensava Eike, cos’abbiamo noi da perdere?
Dopo la guerra, la Germania non aveva mai avuto modo di riprendersi, era stata schiacciata senza pietà dalle altre potenze mondiali –  come lei aveva schiacciato un intero popolo e non solo – e non lo facevano per punirla, ma per fare i loro interessi, ovviamente.
C’era stato un periodo, negli anni Quaranta, in cui ognuno, ogni mostro che era stato a imporsi nei lager, era tornato tranquillamente alla propria attività, col sorriso e modi cortesi di un’altra persona. Poi era scoppiata quella che chiamavano la grande vergogna.
La Germania era stata sconfitta, l’opera di Primo Levi era arrivata non dall’Italia, no, ma da una recondita parte di tutti i tedeschi, come un velenoso ricordo o segreto che era stato sepolto, ma non troppo a fondo.
Pochi sapevano, e avevano taciuto. Qualcuno l’aveva sentito, ma non ci aveva creduto. Molti avevano il sentore di qualcosa, ma non si erano interessati. Tanti avevano una vaga sensazione, che avevano represso. Troppi avevano sorriso, ciechi e sordi, mentre il sangue e le urla erano ad un passo da loro.
Eike tornava a Berlino ogni tanto, per vedere come stava, quella patria che odiava, e per allontanarsi da Acilia e Jacque.
Pensava di odiarla, sì, la sua città, ma in realtà non rimproverava nessun tedesco. Perché anche lui – e Jacque, e Acilia – avevano capito ed erano stati fermi. Ma loro erano già mostri così com’erano, che differenza faceva?
Rimproverava i suoi genitori forse, sì, loro. Jacque era incredulo e arrabbiato, ma degli sconosciuti dopotutto che si può sapere? È inutile additarli e giudicarli. Ma più ci pensava più si rendeva conto che anche i suoi genitori erano degli perfetti sconosciuti, per lui. Ricordava che suo padre parlava così bene delle Camicie Brune. Ricordava che lui, Eike – suo figlio dodicenne! – era stato ucciso dalle Camicie Brune.
E ora non ci sono più nazisti, pensava Eike avanzando in quella strada buia e deserta, ma la paura che prima o poi qualcosa accada, che qualcosa esploda, che qualcosa ti prenda e ti morda, ti succhi il sangue, ti uccida. La paura non finisce, la vergogna non cede il posto a niente.
C’era molto sporco in giro. Pezzi di cartone bagnati dalla pioggia abbandonati in strada, lattine di coca cola in piedi sui marciapiedi. L’aria era densa, grigia, maleodorante. Non trovava più il parco in cui giocava coi suoi compagni di scuola. I tempi erano cambiati, nulla gli sembrava come quando era bambino. Tutto evolveva – o involveva –  solo lui rimaneva sempre uguale, ennesima macchia di un mondo che stava andando a rotoli. I suoi genitori dovevano essere già morti, gli importava poco.
Acilia e Jacque avevano passato anni senza rivolgersi quasi la parola. Erano irritanti, perché si ostinavano comunque a vivere insieme. Il loro rapporto era talmente consolidato che non c’era più bisogno di parlare, ma neanche se ne accorgevano. Erano tornati in rapporti civili ma Eike non aveva visto più un solo bacio. Che lo facessero di nascosto non sembrava, si vedeva dalla faccia di Jacque.
Ma non erano i suoi genitori e lui era grande ormai per rattristarsi per queste cose.
Grande
In lontananza vedeva ergersi un alto muro di cemento armato. Era lui, era ancora lì. Il muro di Berlino, quello che dall’altra parte chiamavano Barriera di protezione antifascista, si ergeva da più di vent’anni ormai.
Eike si accertò che in giro non ci fosse nessuno e si mise a correre per raggiungerlo. Pochi secondi e con la mano poté toccare il cemento macchiato di colore. C’era una grande confusione di scritte e disegni, varie calligrafie in vari colori e varie lingue. Al di là del muro c’era quello spazio che chiamavano striscia della morte. Poi un altro muro, con altre calligrafie ma gli stessi colori e le stesse lingue.
Eike fece vagare il suo sguardo a destra e a sinistra. Il muro sembrava essere infinito. Era una cosa incredibile, separare le persone. Era questo il divertimento dell’Unione Sovietica? I tedeschi non avevano bisogno di un muro per stare separati, avevano bisogno di confrontarsi, di parlarne, di perdonare…
Lesse qualche scritta. Ce n’erano di malinconiche, ce n’erano di arrabbiate. Una frase di addio. Eike non le aveva mai lette, non c’era mai stato in quella parte di muro. Una calligrafia tremolante attirò la sua attenzione, forse perché le lettere erano grandi, forse perché c’era scritto il suo nome.
Eike, torna da me.
Sotto quella frase, intricata ad altre parole, c’era una firma, dello stesso colore, e di certo Eike non l’avrebbe notata se non avesse ben distinto una I. Dopo la I c’erano delle ondine, delle m, Eike socchiuse gli occhi. Se lo stava immaginado, certo, ma anche se non fosse stata la sua immaginazione, quante donne c’erano a Berlino che si chiamavano Imma? Tantissime. E quante che chiedevano ad un uomo di nome Eike di tornare da loro? Molte, o poche, ma di sicuro qualcuna c’era. E poi lui era morto per Imma, sua sorella non avrebbe mai pensato di…
Sei tornato da lei. Una volta.
Eike vacillò davanti a quella scritta, era come se tra le parole vedesse sua sorella, la piccola Imma, spaventata davanti a lui, e che cresceva, sempre con quell’espressione confusa e spaesata, e piangeva…
Perché l’ho fatto?
Attaccò i polpastrelli al muro, ansimando, come in cerca di qualche indizio.
Lo trovò. Di fianco alla parola Imma c’erano altre parole, era un indirizzo! Qualcuno ci aveva scritto sopra con un altro colore, maledizione! Strinse gli occhi, si ripeté che i suoi sensi erano super sviluppati e cercò di districare ogni lettera. Lesse l’indirizzo – o quello che credette di aver letto – e lo ripeté più volte per memorizzarlo. Sfrecciò via ma dove sarebbe andato? Aveva dodici anni quando era morto e non li conosceva i nomi delle vie!
Si sforzò di ricordare… un appoggio, un qualunque aiuto…
Un bar, davanti al bar tre cassonetti della spazzatura. Quel posto gli era familiare… Sentiva le scarpe che calpestavano le pozzanghere, i pantaloni gli si stavano bagnando… L’odore non gli diceva niente, niente. Era tutto così nuovo, così diverso!
Eike, torna da me.
Non è che le aveva rovinato la vita?
Fece due conti. Imma ora doveva avere… sessantacinque anni! Quanto tempo era passato… Quando l’aveva scritta quella frase? Massimo ventidue anni prima. Pensava ancora a lui? E se non fosse stata più viva? Ma dove pensava di andare?!
Smise di correre, per ragionare. Voltò la testa a destra e a sinistra. C’era una coppia di anziani signori che camminava tenendosi per mano.
Avrebbe potuto chiedere indicazioni, che problema c’era? Per loro lui sarebbe stato un innocuo bambino di dodici anni, mica avrebbero pensato che fosse un vampiro. Oppure poteva incantarli! Immaginò la faccia di Acilia se fosse stata lì presente, in quel momento critico dovevano ridurre i rapporti con gli umani al minimo (per il nutrimento)… Ma tanto li avevano già scoperti! Non c’era più niente da fare… Niente… Dall’altra parte della strada, vicino al palo della luce c’era un’altra persona, un uomo, immobile, sul ciglio del marciapiede. Aveva l’espressione ferma, a parte per gli occhi, quelli saettavano di qua e di là velocemente. Vestito tutto di nero come se fosse a un funerale, mortalmente pallido.
“Ehi, ragazzino, non dovresti girare per strada a quest’ora”.
Eike sussultò e si voltò.
Dietro di lui c’era una donna, con un braccio attorno a un cesto, che lo guardava con un misto di preoccupazione e severità sul volto. Aveva le sopracciglia folte e un accenno di rughe.
Neanche lei, signora.
“Mi sono perso, mi può aiutare?” si buttò Eike, tentando di usare i vocaboli che avrebbe usato un bambino.
Il volto della donna si ammorbidì.
“Devo andare in Oranibruger Strasse” continuò lui in fretta.
Lei alzò un sopracciglio. “Intendi Oranienbruger?”.
“Sì, forse, può essere” farfugliò lui.
“È qui vicino” rispose lei, guardandolo poco convinta, alzando il braccio libero e indicando l’incrocio davanti a loro. “Vai a destra, poi dopo un centinaio di metri giri ancora a destra. Quella è la via”.
Eike sorrise, sinceramente contento.
“Grazie mille!” esclamò.
La donna annuì e senza aspettare che lei dicesse altro, Eike si buttò in mezzo alla strada per attraversarla. Passò vicino all’uomo eretto di fianco al palo della luce e si ricordò di lui, non era certo umano.
Si fermò un attimo a guardarlo ma l’uomo non era interessato a lui. Stava avanzando, nelle sue lucide scarpe nere, verso la donna col cesto. La donna, tranquilla, non l’aveva visto, si stava allontanando nella direzione apposta.
Se ci fosse stato Jacque, avrebbe fatto qualcosa. Ma Eike non era Jacque, lo capiva quando non c’era niente da fare. E si allontanò in fretta, inseguendo quello che avrebbe potuto fare un tempo, o quello che non avrebbe dovuto, inseguendo i ricordi che riuscivano ad avere solo una fanciullesca trasparenza.
 
*
 
 
Era da un po’ che temporeggiava, il momento di divertirsi era finito. Se l’era vista brutta quella notte, ormai aveva capito che Dubris e la sua combriccola gli erano sempre alle calcagna.
Bisognava fare le cose per bene, insomma. Non voleva certo fare il vampiro scapestrato fuorilegge per sempre. No, non sarebbe stata una vita piacevole.
Alzò lo sguardo. Ad Arcangelo non riusciva mai a vedere un bel cielo stellato, anche quello gli sarebbe piaciuto. Il buio, la notte e le sue luci, una tela dipinta coi colori dell’oscurità, la sua oscurità…
Kaeso rilassò il corpo e inspirò l’aria.
Quando poi i colori del buio si macchiavano di rosso, era magnifico. Adorava il rosso. Carminio, amaranto, cremisi, scarlatto… Ogni sua sfumatura.
“Cosa stiamo aspettando?” fece Svetlana, nervosamente, appoggiata alla Dacia nera parcheggiata e impegnata a guardarsi lo smalto sulle unghie.
Kaeso si voltò a guardarla, un po’ infastidito.
“Rilassati, goditi questa serata”.
Il vento fischiava leggermente e le insegne luminose dei negozi stavano cominciando a spegnersi, in un gioco di suoni e bagliori.
Svetlana si mise una ciocca di capelli dietro l’orecchio, sbuffando piano. Anche i suoi capelli, così chiari e lucenti, creavano un bellissimo contrasto, così, intagliati nella notte.
Un gruppo di ragazzi che portavano i pantaloni a vita bassissima le passarono a qualche metro di distanza e fischiarono nella sua direzione.
Svetlana fece un sorrisetto e sembrava intenzionata a muovere dei passi verso di loro.
“Ferma” le ordinò Kaeso, guardando le mutande bianche e grigie dei ragazzi che sparivano dietro l’angolo. Quanta poca eleganza.
“Potevi metterti qualcosa di meno appariscente” disse poi, guardando la sua minigonna rosa shocking.
“Certo, papà” digrignò lei, tra i denti.
“Non sono tuo padre e tu non sei mia figlia” disse Kaeso, mettendosi le mani nelle tasche dei jeans e guardando da un’altra parte. I vampiri facevano una gran confusione tra i termini creatori e genitori, creati e figli. Lui no.
Sentiva addosso lo sguardo pungente della ragazza. L’aveva creata il secolo scorso, aveva solo ventitré anni. L’aveva trovata in mezzo ad una strada.
“Kaeso” fece una voce perplessa.
Finalmente.
Kaeso alzò lo sguardo e il suo sangue ribollì per l’emozione.
Lyuben era in piedi, davanti a lui, la giacca nera chiusa, delle chiavi in mano. Aveva l’aria vagamente confusa, ma non allarmata.
Kaeso balzò in avanti, superando la Dacia. Gli conveniva cambiare macchina ogni tanto, a Lyuben, per evitare di essere seguito.
Il biondo recuperò un’espressione pacata. “Una bella serata, non è vero?”.
Ti converebbe arrestarmi subito, e lo sai.
“Non c’è neanche una stella” obiettò Kaeso, fermandosi a pochi metri da lui. Lyuben non l’avrebbe mai attaccato. Erano le nove di sera e ancora la gente era in giro.
“Bella macchina” disse ancora lui, accennando alla Dacia. Di nuovo guardò fisso il Presidente. “Non trovi più pratico volare?”.
“Io mi voglio integrare, Kaeso” rispose l’altro, tranquillo “E gli umani non volano”.
Kaeso non riuscì a trattenere una grossa risata. “E dove volevi andare, caro Lyuben, con questa bella macchina e senza scorta? A integrarti?”.
“A pregare. E volevo essere solo”.
Kaeso alzò un sopracciglio e fissò lungamente il suo nemico. La vaga aria di un quarantenne, sicuro nella bocca, preoccupato nella fronte.
“Pregare?” ripeté lui “Lyuben, sei nato tremila anni fa, dovresti saperlo che non c’è nessuno da pregare”.
“La religione è ciò che serve agli umani per trasforamare il caos, l’indistinto, in qualcosa di definito” rispose l’altro, tranquillamente “E noi non siamo così diversi da loro, solo che ognuno ha la propria, di religione”.
Kaeso si sentì toccato dall’argomento. Sapeva bene che non doveva perdere tutto quel tempo, ma era interessato. Il cielo continuava ad essere blu scuro, i passanti non li degnavano di uno sguardo, Svetlana dava leggeri segni di impazienza e di nervosismo. Era tutto racchiuso in un momento che non sarebbe mai più tornato, che senso aveva sprecarlo?
“Parli di Caino? Non crederai a quelle fandonie” disse, con una smorfia.
I fanatici credevano che il primo vampiro fosse stato Caino, che da Caino derivasse la stirpe dei vampiri, e da Abele quella degli umani.
“No” rispose Lyuben “Parlo di una storia che probabilmente tu non potresti capire”.
Kaeso aggrottò la fronte. Non conosceva alcun vampiro più vecchio di Lyuben, nessuno… Che fosse stato lui il primo? Il vero Creatore? Non credeva in Caino perché non credeva in Dio, ma qualcuno, qualcuno doveva pur aver cominciato a generare qualcun altro!
“Sei così convinto che non esista Dio, Kaeso” proseguì Lyuben “Non credi nelle cose inspiegabili? Non credi nelle cose paranormali? Dovresti aver cominciato a crederci quando sei stato trasformato”.
Si stava avvicinando e Kaeso avvertì per la prima volta un accenno di nervosismo. La sentiva quasi nell’odore, la potenza del vampiro che aveva di fronte. La verità era che aveva smesso di credere a qualsiasi cosa, quando era stato trasformato. Tutti gli dei gli si erano ritorti contro, e lui aveva voltato le spalle a loro.
“Dove saresti andato a pregare?” domandò, quasi in un bisbiglio “Sulla tomba di chi?”.
Il volto di Lyuben era impassibile e il sibilo di Kaeso si fece più arrabbiato: “Dimmelo!”.
Il biondo lo guardava dritto negli occhi, senza la traccia di alcuna sfida. “Lo vedi, Kaeso, che anche tu hai bisogno di trasformare l’indistinto in qualcosa di definito?”.
Kaeso tentò di mantenere la calma ma Lyuben lo afferrò per la mascella, lo stringeva fortissimo, gli faceva un gran male. Gli sembrava che la sua faccia si stesse sciogliendo. Svetlana fece un passo avanti con un mormorio ma Kaeso alzò una mano per fermarla.
“Vorrei arrestarti” disse il presidente, una traccia maligna negli occhi, senza mollare la presa “Ma immagino che mi renderai la cosa impossibile, non è vero? Non sei uno sciocco, sarai venuto ad affrontarmi con i dovuti rinforzi”.
L’osso, l’osso gli si stava rompendo… Ne sentiva il rumore, sentiva il sangue, che affluiva nella sua faccia, che sgorgava dal naso…
Kaeso provò ad afferrare il polso del suo nemico, e a spingerlo. Sembrava fatto di acciaio.
“Non ti dirò niente a proposito del mio creatore” continuò Lyuben, conservando ancora quell’aurea malvagia che non apparteneva al suo viso “Non ti darò la possibilità di dare un senso alla tua vita, non ti darò nessuna speranza di redenzione”.
Così come era cominciato, il dolore cessò. Lyuben l’aveva lasciato andare con un gesto sprezzante e si era allontanato di un passo.
Kaeso fece un debole sorriso, mentre sentiva la sua faccia lavorare per tornare come prima, e il dolore riprese a martellargli nel mento, ma lui lo ignorò.
Habere et non haberi, come disse D’Annunzio” disse, con un lieve fiatone. Allargò le braccia e alzò la voce. “La vita è una gigantesca opera d’arte, da plasmare come vuoi! È questo l’unico senso della mia vita, del resto non me ne frega nulla”.
La malvagità che Lyuben aveva mostrato poco prima parve scivolare via come un drappo che cade dalla testa, fino ai piedi. Manifestava solo malinconia.
“Se devi sempre dire ciò che hanno già detto altri” disse, mestamente “significa che in realtà tu da dire non hai niente”.
Fece per avvicinarsi di nuovo a lui, con più cattiveria, con l’intenzione di ucciderlo forse ma poi si fermò, un urlo che gli deformava il volto e le mani, brucianti, che cercavano di togliersi di dosso ciò che gli aveva appena cinto il collo, una catena d’argento.
Qualcun altro urlò e Kaeso si voltò.
Un gruppetto di quattro umani stava guardando la scena a bocca aperta.
“Sve” disse lui, prontamente “Pensaci tu”.
Svetlana si mosse velocemente, compiaciuta e lui tornò a fissare Lyuben, intrappolato ormai nella stretta di più catene d’argento, macchiate di sangue, accerchiato dai suoi compagni.
Lo guardava, non spaventato, neanche arrabbiato, quasi rassegnato.
Kaeso alzò lo sguardo al cielo, mentre sentiva i passi dei fuggitivi e le grida della gente.
Era apparsa una stella, splendente perché unica. Una macchia fulgida e brillante nella tela nera dell’universo.
Sorrise, poi il sorriso si spense, come se qualcuno avesse premuto l’interrutore, spento la luce, e quasi si aspettava che anche la stella svanisse.
Bright star” recitò, a bassa voce, immaginando la natura e la poesia di Keats. L’amore? “Would I were stedfast as thou art…”
Abbassò lo sguardo, incrociando quello di Lyuben, i capelli biondi, luminosi nella notte come la stella, rosso di sangue, in ginocchio, legato, i denti che digrignavano e gli occhi che non esprimevano però, inspiegabilmente, alcuna sofferenza.
Poi il prigioniero, con un urlo, le mani e il volto ustionati, grondante di sangue, allargò le braccia, si liberò dalle catene e si rialzò in piedi.
 
 
 
 
Inghilterra, 1983
 
Qualcuno stava bussando alla porta. Jacque poggiò ben volentieri il giornale sul tavolo e si alzò dalla sedia. Non gli piaceva proprio per niente la lingua inglese, non l’avrebbe mai imparata correttamente. Nervosamente, sbirciò oltre le tende delle finestre e subito rimpianse la lettura di inglese che si stava infliggendo. Dubris era fuori dalla porta.
Jacque contemplò per un momento l’idea di lasciarlo lì poi decise di infischiarsene e di andare a sentire cosa volesse.
Aprì la porta, consapevole di avere un’espressione ostile in volto.
Dubris parve sorpreso di vederlo, per un attimo quasi in imbarazzo.
Mi prendi in giro?
Jacque si sentiva vagamente intimidito da lui. Fisicamente era più vecchio di lui ed era morto da molto più tempo, era molto più alto ed era stato vicino ad Acilia per cinque secoli.
“Cercavi Acilia?” domandò il giovane, con una piccola smorfia.
Dubris esitò. Poi disse: “Sì”.
“È andata a mangiare”.
“Non cacciate insieme?”.
Jacque alzò le sopracciglia. Non erano affari suoi. “Non più”.
Nessuno disse niente per un po’, poi il rosso chiese: “Eike come sta?”.
Jacque non poté non stupirsi per la domanda. “Sta bene. Al momento è a Berlino”.
“Da solo?”.
“Sì”. Jacque incrociò le braccia e inarcò le sopracciglia. “Se la sa cavare”.
Dubris non sembrava convinto. “Certo”.
Jacque attese che il visitatore disse qualcos’altro, ma non diceva niente e si accinse a rientrare.
“Volevo dire” esclamò subito Dubris. Fece una pausa. “Volevo ricordare ad Acilia che tra poco ci sono le elezioni, per il nuovo presidente”.
Lo scrutò. “Tu… Non puoi ancora votare, vero?” aggiunse.
“No” rispose Jacque, secco.
“Finalmente si cambia” disse il rosso, con un’alzata di spalle. Si sforzava di essere cordiale, ma gli veniva malissimo. “Anche se ormai temo che il danno sia già stato fatto”.
A Jacque poco importava che gli umani li avessero scovati. Gli dispiaceva che il panico dilagasse, certo, ma lui… Che ci poteva fare? In ogni caso doveva vivere nell’ombra, nascosto, come se fosse qualcuno di orribile, qualcosa di sbagliato, e, dopotutto, lo era, lo sapeva di esserlo.
Fece un cenno di assenso e di nuovo fece per rientrare.
“Tu mi odi, Jacque” disse Dubris d’un tratto, abbandonando quella finta espressione cortese che aveva dipinta in faccia “Perché credi che io ti abbia portato via Acilia”.
Jacque sgranò gli occhi. Gli avrebbe volentieri sbattuto la porta in faccia.
Se ne stava lì, nella sua felpa color mattone, ad accusarlo di cosa? Anche se erano più scuri, i suoi occhi erano gli stessi di Acilia… Freddi, opportunisti! Erano tutti uguali.
“Se proprio devi credere che sia una sfida tra noi due” continuò Dubris “ricordati che tu sei venuto dopo”.
Jacque sentì un moto di stizza. Dovette trattenere l’impulso delle sue zanne di saltar fuori.
“E quindi sarei io che te l’ho portata via?” sbottò.
Dubris teneva lo sguardo abbassato su di lui, fermo e deciso. “È lei che ci ha portato via entrambi”. Fece un sorrisetto frustrato. “Non ama nè te nè me, renditene conto. Ama solo se stessa”.
Jacque sentì la rabbia invaderlo. Gli veniva da prenderlo a pugni, un gesto insensatamente umano.
Ama solo se stessa.
Ci aveva pensato anche lui, tante volte, ma poi la rivedeva con le lacrime che non poteva avere, mentre lo proteggeva, lo teneva con sé, il loro stupido modo di vivere.
“Se pensi questo di lei” disse, con calma ma serrando i pugni “puoi anche smettere di ronzarle intorno”.
Dubris gli si avvicinò con sguardo truce. Aveva gli occhi, piccoli, stretti, nessuna luce al loro interno. La mascella protesa, le parole vennero fuori quasi forzatamente, e ringhiose: “Credi di aver capito già tutto. Sei solo l’ultimo arrivato”.
Jacque non riuscì a trattenersi. La sua rabbia era la stupida rabbia di un ragazzo che voleva difendere la sua donna e se stesso, o l’idea di loro insieme, o semplicemente la sua dignità. Le zanne spinsero e, prima di rendersene conto, la sua mano era stretta intorno al collo di Dubris.
Quello emise una risatina. Poi scacciò via il suo braccio, come se scacciasse una mosca.
Per un momento Jacque temette che lo colpisse ma poi il rosso scosse la testa e biascicò qualcosa come vampiro infante.
“Ti saluto, Jacke” disse poi, pronunciando il suo nome con un forte, fastidioso, accento inglese.
Jacque non rispose e quello gli voltò le spalle, e si allontanò.
Tornò in casa e sbatté forte il portone per la rabbia. Non voleva pensare ad Acilia, non voleva! A volte pensava che lui ed Eike se ne sarebbero dovuti andare a vivere da un’altra parte. Ma cos’avrebbero fatto? Lei era la sua creatrice…
Appunto, è la tua creatrice e basta.
Ricordava quando Acilia gli spiegava che era complicato, che creatrice e creato non potevano stare insieme! Ma che significava, non era mica sua madre… E allora perché diavolo non si metteva insieme a Dubris? Lui era più vecchio, più esperto e non era suo.
Jacque, cosa ti aspettavi? Noi non siamo umani, non possiamo fare quello che fanno gli umani.
La stessa cosa valeva anche per Dubris dopotutto. Loro non era umani, e basta.
Ama solo se stessa.
Vaffanculo, pensò Jacque, buttandosi sul divano, senza sapere se si riferiva a Dubris o ad Acilia. Forse a se stesso, o a tutto il mondo, che gli faceva sempre più schifo.
E non gliene fregava proprio un cazzo delle elezioni.
 
*
 
 
Lyuben era ancora più forte di quello che pensava. Le catene ai suoi piedi, le lunghe e affilate zanne ben in vista, noncuranti della folla, lottava per salvarsi. Manuel era già a terra, e dopo poco il suo corpo sparì, lasciando spazio alla sua vera consistenza, sangue e basta.
Kaeso lanciò un sommesso grido di rabbia, mentre Lyuben teneva testa a tre dei suoi, contemporaneamente. Uno lo teneva fermo per un braccio, l’altro per la testa, il terzo con la bocca, lo stava mordendo, e sangue sporco, nero, usciva a fiotti da ogni foro della sua pelle.
Gli umani correvano di qua e di là, una sirena gli preannunciò l’arrivo dei cacciatori. Era ovvio che sarebbero arrivati, ma Kaeso pensava che per quel momento loro avrebbero già finito il lavoro.
Fece vagare il suo sguardo inquieto sui suoi compagni. Alcuni tentavano di aiutare i loro amici in difficoltà, altri guardavano Kaeso spaesati, in attesa di istruzioni.
“Svetlana, Christoph, Philippe, Andrea e Katrin” sbottò, nominando alcuni, facendo attenzione a mescolare giovani e vecchi “Voi occupatevi dei cacciatori e degli umani”.
Quelli fecero un passo in avanti e corsero verso la folla di umani che si stava disperdendo, e stava lasciando posto a uomini corazzati e armati.
Gli umani erano stupidi, se se ne fossero stati buonini nessuno di loro si sarebbe fatto male. No, quella sera tutte le energie sarebbero dovute essere dedicate a Lyuben, non c’era tempo di festini. E invece gli umani dovevano intromettersi, benvenuti allora! E, terrorizzati, forse si chiedevano perché mai dei vampiri lottassero tra di loro. La stessa domanda che poteva porsi un gatto, un cane o un uccello, vedendo continuamente gli umani in lotta tra loro. Era tutto così chiaro, era un altro segno del fatto che loro vampiri fossero ad uno scalino più avanzato dell’evoluzione umana!
Kaeso estrasse dalla tasca della giacca dei guanti neri e li indossò velocemente. Afferrò una catena d’argento e si buttò nelle esplosioni di sangue che stavano avvenendo attorno a Lyuben, e ogni esplosione era un nome, un urlo e la violenza e la rabbia che crescevano, sempre di più.
Spiccò il volo e lanciò un estremo della catena addosso a Lyuben, non curandosi degli altri che venivano colpiti. L’argento non li avrebbe uccisi.
Lyuben, il volto ricoperto di sangue e piaghe, cadde.
“Avanti! Legatelo!” gridò Kaeso, lasciando cadere la catena.
Con varie smorfie e ringhii, Patrick e Florian, i due che erano addosso a Lyuben, feriti in volto, afferrarono la catena nei guanti e legarono il presidente, tenendogli braccia e gambe ferme. Lui pareva esausto, disperato, l’argento gli bruciava il viso e le mani, e lo immobilizzava. Non sembrava più avere alcuna forza, sdraiato a terra, col respiro pesante, le pelle rossa che fumava.
Ci furono degli spari e Kaeso alzò lo sguardo verso i cacciatori, allarmato. Svetlana era ancora in piedi, lei e gli altri li tenevano impegnati, ma qualcuno era stato colpito? Non sentiva niente dentro di sé, se qualcuno era stato colpito non era un suo creato, ma il pensiero lo spaventava. “Andate ad aiutare gli altri!” ordinò a Patrick e a Florian. Quelli, esausti, si stavano riprendendo e non si mossero. Kaeso urlò l’ordine più forte, più cattivo e i due, senza dire niente, presero il volo. Non gli importava quanto fossero stanchi, dovevano aiutare gli altri, non doveva morire nessun altro! Tutto per colpa di…
Diede un poderoso calcio al corpo di Lyuben, che incassò come un sacco di patate. Tossiva, dalla bocca e dal naso colava sangue.
Kaeso si chinò su di lui e lo afferrò per i capelli che ricordava biondi, ma ora erano neri e rossi, sporchi, appiccicosi, morenti. Anche loro non erano altro che sangue.
Tirò i capelli e gli inclinò la testa violentemente, costringendolo a guardarlo.
Lyuben ricambiava lo sguardo, senza espressione. Ma il suo corpo, rinchiuso nell’abbraccio d’argento, tremando, lo tradiva.
“Dimmi, Lyuben” disse Kaeso, dolcemente, tirando senza pietà “Che cosa rimpiangerai di più? Non aver realizzato il tuo patetico sogno di integrazione? O non essere riuscito a fermarmi?”.
Il suo nemico lo guardava con odio, dagli occhi chiari uscivano rivoli di sangue. L’azzurro, il rosso e il bianco si mescolavano ma lui chiuse le palpebre e digrignò i denti, mentre le braccia si muovevano freneticamente.
“O ti dispiace lasciare da soli i tuoi amichetti? Lasciare sola Ramona?” continuò Kaeso, melenso.
Lyuben soffocò un grido.
Kaeso tirò più forte i capelli. “Non rispondi, Lyuben? Dov’è finita la tua galanteria?”.
Gli prese il volto, arrabbiato e gli strinse con una mano le guance. “Guardami!”.
Lyuben aprì a fatica gli occhi, ma quelli non esprimevano più niente.
“Non ti chiedi cosa c’è dopo la morte?” sbottò Kaeso, arrabbiato “Non hai paura di morire davvero?”.
Il biondo aprì la bocca e tossì. Poi disse, con parole lente, ansanti e sofferenti: “No, perché io… Lo so… Cosa c’è. Dopo. Tu non lo sai. Tu avrai sempre… paura”.
Furioso, Kaeso gli afferrò la testa e tirò con tutta la potenza che aveva. L’ultima parola che lesse sulle labbre di Lyuben era molto simile al nome di Ramona e lui tirò così forte che sentì la pelle che gli veniva via dalle mani.
Il collo di Lyuben Vladimir si strappò in più punti, e il sangue, come desideroso di vedere finalmente il mondo, uscì subito, ciascun rivolo rincorreva l’altro. Il corpo ricadde su se stesso e, con la sua testa tra le mani, Kaeso si alzò da terra e lanciò un grido di trionfo.
La battaglia tra vampiri e cacciatori era ancora in atto, gli spari e le grida erano la colonna sonora di quel magico momento.
Poi la testa di Lyuben si deformò come un pallone che si sgonfiava ed esplose, imbrattando di sangue il braccio di Kaeso, e lasciando posto a un pezzo di cielo, all’universo, all’ignoto, che lui non poteva più sperare di capire. La stessa stella che aveva visto poco prima brillava ancora più intensamente e il piacere lo invase, come luce che arriva dalle tenebre.
To feel for ever its soft fall and swell,
Awake for ever in a sweet unrest,
Still, still to hear her tender-taken breath,
And so live ever, or else swoon to death…
 
*
 
 
Eike vagava avanti e indietro, lungo quella via. C’erano varie palazzine, in quale avrebbe trovato l’illusione che cercava?
Una ragazza dai ricci capelli biondi e con un lungo vestito celeste stava camminando con delle buste, davanti a lui. Eike la seguì e quando lei si mise di profilo, di fronte a una porta, Eike dovette trattenere l’impulso di urlare “Imma!”.
Ci assomigliava così tanto, quella ragazza. Aveva il suo stesso profilo, i suoi stessi capelli.
La porta si aprì e lei scomparve alzando le scarpine nere.
Eike avanzò piano e titubante verso quella casa. Era uguale a tutte le altre, in cemento. Eike non ricordava di aver vissuto mai in una casa così. Erano abitazioni strane, che non sentiva come sue, non le sentiva autentiche.
Alzò lo sguardo. La casa era a due piani e c’erano due balconi, uno per piano. Avrebbe potuto spiare da lì, ma come ci sarebbe arrivato? Non c’erano appigli, nulla. E se qualcuno fosse passato di lì cos’avrebbe detto nel vedere un ragazzino che si arrampicava sul balcone di una casa?
Raccolse una cartaccia da terra che piegò accuratamente in quattro parti e, dopo grandi attimi di esitazione, e si ritrovò a bussare alla porta.
La stessa ragazza di cui aveva visto la nuca e il profilo aprì con aria interrogativa.
Eike notò che aveva gli occhi più grandi di Imma, erano quasi sproporzionati rispetto alla faccia.
“Sì?” fece.
Eike sventolò in fretta il foglio piegato che aveva in mano. “Devo consegnare un messaggio alla signora…”. Esitò. Signora cosa? Qual era il cognome di Imma ora? Si era sposata? Decise di tentare. “Imma Lehmann”.
Per un momento pensò che la ragazza gli dicesse che non esisteva nessuna Imma Lehmann e che aveva sbagliato casa. Ma poi sbatté le palpebre dei suoi grandi occhi e tese la mano.
“Dammi pure, glielo consegnerò io”.
“No” disse subito Eike “Devo darglielo personalmente”.
La ragazza fece una risatina. “Ma chi sei?”.
“È una cosa importante”.
Quella ancora rideva.
“Mia nonna non vive qui” disse dopo un po’ “Hai sbagliato, abita nella casa qui affianco”. Indicò verso destra.
Nonna.
“Ma ti ripeto che puoi darlo a me, lo darò a mia madre. Tanto va a trovarla spesso, le può…”.
“No, non importa, grazie mille” disse Eike in fretta, facendo un abbozzo di inchino.
La ragazza incrociò le braccia al petto e di nuovo ridacchiò, con una vaga traccia di imbarazzo. “Sei un ragazzino strano”.
Eike la ignorò, pensando che gli sarebbe piaciuto entrare per conoscere sua madre. La figlia di Imma…
“Allora ciao” disse la ragazza, la porta in mano.
“Ciao” fece Eike, debolmente, guardandola bene, cercando di imprimersi la sua faccia nella sua memoria. Ma poi la porta si chiuse e lui ebbe l’impressione di aver già dimenticato tutto, anzi, che l’avesse solo sognato.
Si fece coraggio e corse di fronte alla casa subito a destra.
Suonò il campanello e attese. Dopo quella che parve un’eternità una voce rugosa chiese: “Chi è?”.
Eike trattenne il respiro. Cosa doveva dire? Se diceva la verità gli avrebbe aperto la porta? Ma era lei che voleva rivederlo, no?
“Eike” rispose, con un filo di voce.
La voce non disse nulla. E poco dopo la porta si aprì.
Eike alzò lo sguardo e vide una donna alta, col viso segnato dalle rughe, i capelli grigi legati in una crocca. Ma gli occhi erano gli stessi che lui ricordava, quegli occhi vispi e attenti, indagatori del mondo.
Lasciò andare un debole urlo, con aria spaventata. Si guardò intorno, nervosamente, poi si spostò, invitando Eike ad entrare.
Lui obbedì, sentendo che le sue gambe leggere e veloci si erano improvvisamente fatte di piombo.
Imma chiuse la porta e non si voltò. Si teneva una mano sul petto e sussurrava con voce tremante: “Oh Signore… Oh Signore…”.
Si voltò piano e aveva ancora gli occhi sgranati. Dopo un po’ disse, con la stessa voce fioca: “Pensavo che questo giorno non sarebbe mai arrivato”. Aveva un debole sorriso, racchiuso tra due piccole strisce di pelle bagnata dalle lacrime. Si avvicinò a lui con una mano protesa, ma poi la ritrasse, come se avesse paura di toccarlo.
“Vieni, siediti” disse poi, scostando lo sguardo e avanzando verso una stanza. Camminava piano, come se fosse stanca.
Eike la seguì in quella che doveva essere la cucina. Lei si sedette al tavolo e lui fece altrettanto.
“Come… Come mi hai trovata?” domandò lei.
“Ho letto l’indirizzo sul muro”.
Imma aprì la bocca in una mezza risata incredula. “Quel dannato muro… Allora serve a qualcosa. Chi l’avrebbe mai detto, ho scritto quella frase… quanti saranno? Quindici anni fa?”. Eike vedeva i suoi occhi saettare su di lui, in ogni angolo, non stavano mai fermi. “Sei proprio uguale” disse poi lei “Sei… come in una foto”.
“Ho visto tua nipote” ribatté Eike.
Imma sbatté le palpebre. I suoi occhi per un momento si fermarono. “Quale?”.
“Era una ragazza… Quindici, sedici anni, forse”.
“Quindici” confermò Imma, annuendo “È sempre fuori casa quella ragazza… Non lo capisce che…”. Sospirò, senza finire la frase.
Eike le si avvicinò. Non riusciva a smettere di guardarla, come lei non riusciva a smettere di guardare lui. Lui cercava i cambiamenti in lei, lei cercava i suoi ricordi.
“Non ha paura dei vampiri?” domandò.
“Non ha paura di niente, di nessun demone” rispose Imma, abbassando lo sguardo  “Neppure di quelli del passato”.
Demoni del passato, ripeté Eike riflettendo.
Imma tornò a puntare gli occhi su di lui, di colpo, come se si fosse improvvisamente ricordata di qualcosa.
“Chi è stato, Eike?”.
Chi è stato.
“Mi hanno ucciso le Camicie Brune, in un vicolo, per sbaglio” rispose lui “Colui che mi ha riportato alla vita, se si tratta di vita, non ha alcuna colpa”.
Imma aveva l’aria nauseata. Poi si riprese. “Come sei cambiato”.
“Non è vero”.
“Sì, parli in modo diverso”.
Eike fece spallucce. “Gli anni passano anche per noi, solo che vanno molto più lenti”.
Imma non diceva più niente. Gli occhi erano ancora sbarrati. Ma ci credeva davvero a quello che stava vedendo? Eike si aspettava di sconvolgerla di più. Ma Imma… Imma riusciva sempre a sorprenderlo.
“Nostro padre si era arruolato nelle SS, Eike” disse finalmente la donna, con un sospiro “Ed è una cosa per cui non smetterò mai di provare vergogna. Ma sapere che è colpa loro se…”. Non finì la frase, gli occhi brillarono di nuovo di lacrime.
Eike non si sorprese. Suo padre era lontano anni luce.
“È morto?”.
“Sì, anni fa. Anche la mamma”.
Eike non disse niente e Imma continuò: “Se fossero vissuti qualche anno in più, avrebbero scoperto dell’esistenza dei vampiri anche loro e, forse, mi avrebbero chiesto scusa”.
Eike si ritrovò di nuovo a trattenere il fiato mentre la solita pioggia di domende lo assaliva. Cos’era successo ad Imma dopo la sua riapparizione? Cos’aveva pensato? Cos’aveva detto? Stava annegando, tra le domande.
Imma dovette leggergli nella mente, ma disse semplicemente, e senza l’ombra di un rimprovero: “Non mi credevano. E dopo un po’ smisi di credermi anch’io. Ma quando la gente ha cominciato a parlare di vampiri, io lo sapevo fin da subito che non erano fandonie”.
Eike non ebbe il tempo di dire niente perché Imma non smetteva di parlare. “Avrei voluto lottare di più, avrei voluto continuare a credere a quello che avevo visto… Avrei voluto anche trovare un modo per dire a nostro padre di smetterla. Di ascoltarmi, di non seguire Hitler, di non cercare la guerra, di pensare di più a noi!”. Fece una pausa, come se una sola parola in più l’avrebbe fatta esplodere. Le lacrime scorrevano lungo la pelle bianca e ruvida. “Ma ero solo una bambina”.
Anche Eike avrebbe voluto lottare di più. Neanche sapeva per cosa, forse contro il mostro che stava nascendo dentro di lui, contro i suoi impulsi.
“Raccontami della guerra” disse. Pensava a Jacque, a come avrebbe voluto lottare, una lotta tutta umana, e quasi più mostruosa di loro.
“Si può solo ricordare, solo ricordare fino allo sfinimento” fece Imma, stringendo le labbra.
I demoni del passato.
“Quando Thomas Mann fece quell’annuncio alla radio, quando parlò di Auschwitz e delle camere a gas, la mamma mi disse che non era vero niente. Ho pensato che mi stesse mentendo ma solo dopo ho capito che noi non crediamo alle cose che non hanno senso di esistere, non le accettiamo. Non aveva voluto mentirmi davvero”.
Eike cercò di rispecchiarsi negli occhi luccicanti di Imma. Se avesse potuto piangere, forse avrebbe voluto ricordare anche lui. “Io preferisco dimenticare… tutto quello che ho fatto”.
Imma sospirò, posandosi una mano sul petto, ricoperto da un maglioncino grigio. “Sulle cose che non possiamo comprendere, il giudizio deve restare sospeso, in eterno”. Lo guardava dritto negli occhi.
C’erano tante cose che Eike non comprendeva, ma non poteva essere una giustificazione! Avrebbe voluto essere come Jacque, fin da subito. Lui ci era riuscito, non era impossibile.
“Da quanto tempo esistono i vampiri, Eike?” domandò Imma, mantenendo fermo lo sguardo.
“Non lo so” rispose lui, sinceramente “La creatrice del mio creatore ha millenovecento anni, ma non è la più vecchia”.
Imma sgranò gli occhi. “E ce ne siamo accorti solo ora…”.
Eike abbozzò un sorriso. “Nessuno ci credeva, perché non aveva senso” disse, ripetendo le parole di Imma.
Lei non ricambiò il sorriso. Era avvolta in una glaciale maschera di paura, che solo dopo qualche secondo si sciolse un poco. Lanciò uno sguardo fuori dalla finestra. I vetri erano appannati e goccioline di umidità scivolavano sul vetro.
“Non ho mai conosciuto la pace, Eike…”.
“I vampiri hanno un sistema politico” disse Eike, senza neanche pensare “È appena finito il governo di un pazzo incosciente, vedrai che le cose andranno meglio”.
Imma era stralunata. “Sistema politico?”.
“Abbiamo delle leggi. Non siamo dei mostri sanguinari, non tutti. Quelli come me si nutrono senza uccidere”.
La donna aveva ancora quello sguardo allibito, poi ad un tratto si alzò e circondò Eike con un abbraccio. Quello si sentì come paralizzato, mentre la sorella scoppiava a piangere. “Lo sapevo… Lo sapevo che non eri… Non eri…”. Non riusciva a finire la frase ed Eike capì che lei aveva avuto paura di lui. Aveva paura di quei demoni di cui aveva parlato subito, i demoni del presente, e del passato, che si mescolavano in una danza dell’orrore e la tenevano appesa ad un filo. Aveva paura per se stessa, per i suoi figli, i nipoti… Quella ragazzina che aveva riso davanti ad Eike, sulla soglia di casa sua, non aveva conosciuto l’assurdità terribile del passato e non si rendeva conto del pericolo del presente.
“Imma” fece Eike, con l’immagine di quegli occhi grandi e ignari ancora in mente “Dov’è tuo marito?”.
Lei si staccò dall’abbraccio e si portò una ciocca di capelli bianchi uscita dall’acconciatura dietro l’orecchio. “Siamo separati da vari anni ormai”.
“Oh. Come mai?”.
Imma scrollò le spalle. Lentamente, si sedette di nuovo. “Quando mi sono sposata ero così giovane… E solo perché volevo fuggire da quella casa”.
Eike annuì. Poteva comprendere, forse… No, non poteva. Lui non avrebbe mai amato, mai, nessuno…
“Mi piacerebbe conoscerli i tuoi figli e i tuoi nipoti” disse.
Imma sorrise, scuotendo la testa. “E come ti dovrei presentare? Farebbe male a me, e soprattutto a te”.
Eike si mordicchiò il labbro, incupendosi.
“Non puoi, Eike, non sarebbe giusto”.
Lui si limitò ad annuire, poi comprese quello che lei intendeva. Gli avrebbe fatto male conoscere la vita che era andata avanti dopo di lui, conoscere quello che lui avrebbe potuto fare, quello che avrebbe potuto essere, pensare di poter avere ancora una vita umana… Doveva andarsene da lì.
Si alzò.
“Meglio che torni a casa” disse. Qui non c’è posto per me.
“Qual è la tua casa?” chiese Imma, con una leggera ansia “Dove vivi? Con chi?”.
“Sto in Inghilterra” rispose lui “Con la mia attuale famiglia”. L’unica che poteva avere, e dalla quale doveva tornare.
Fece per dirigersi verso la porta e lei lo seguì, più velocemente che poteva. Faceva fatica a stargli dietro, neanche si rendeva conto, lui, quanto camminava in fretta.
“Eike” lo chiamò “Ti ho sempre voluto dire una cosa…”.
Lui si voltò e la guardò, confuso.
“Mi dispiace” dichiarò lei, asciugandosi gli occhi. “Mi dispiace…”.
Eike non capiva. “Per cosa?”.
“Per tutta la paura… Quelle storie… Ti spaventavo e basta”.
Se Eike non avesse saputo tutte quelle storie coi vampiri, forse all’inizio non si sarebbe sentito così potente, non sarebbe stato così contento.
Fece un sorrisetto. “Eri troppo sveglia per avere un fratellino fifone come me”.
Era arrivato il momento dell’addio, quell’addio che si era negato cinquant’anni prima, che aveva sprecato a causa del suo stupido infantilismo, ora era veramente arrivato. E lo sapeva anche Imma, che piangeva, e sorrideva, allo stesso tempo.
“Hai realizzato il sogno di ogni bambino… E-essere un eterno P-Peter Pan, insegui la tua stella, e non… Non ti fermare…”.
Lo abbracciò di nuovo, più a lungo. Tremò. “Come sei freddo…”.
Eike ricambiò l’abbraccio, la strinse forte, in quel corpo debole, che presto sarebbe morto… E lui no, mai, mai…
Senza più dire niente, si staccò da lei, guardò per l’ultima volta quegli occhi azzurri, i più intelligenti che avesse mai conosciuto, e uscì. 
 
*
Il posto del presidente era vuoto.
Era strano che Lyuben fosse in ritardo, non era da lui. Tutti se n’erano accorti, e nella sala c’era un po’ di trambusto.
Acilia notò che i mormorii provenivano soprattutto dall’ala destra. Il PO era cresciuto esponenzialmente. Erano la maggioranza, e questo le faceva intuire qualcosa, forse… Cosa succede quando la maggioranza cambia? No, si diceva, bisogna aspettare le prossime elezioni.
“Ma dov’è Lyuben?” fece Victorie, con aria preoccupata. Si voltò verso Ramona, in attesa di spiegazioni. Ma lei si limitò a dire che non lo vedeva dalla notte prima. L’espressione concentrata di Victoria, come se avesse un sospetto, come se temesse qualcosa, si trasferì in un baleno sul volto di Ramona che subito cercò il suo creatore, tra le file dei prefetti. Acilia seguì la traiettoria del suo sguardo e vide lo stesso terribile sospetto negli occhi di Dubris. E i mormorii dei membri del PO erano sempre più eccitati…
Acilia serrò in pugni. L’euforia… Era sempre un cattivo segno, l’euforia.
La porta al di sotto delle loro panche si aprì, una folata di vento, dei passi veloci, un volto ghignante, euforico.
Acilia si sentì agghiacciare il sangue, terribilmente, mentre Kaeso dichiarava di aver ucciso Lyuben e di essere il nuovo presidente. Dubris e molti altri si alzarono in piedi ma gli scagnozzi di Kaeso sembravano già pronti ad attaccare, a tutto pur di difendere il loro orribile impero, ed erano più di loro.
“La scorsa notte è stata fatta la storia, amici miei” disse Kaeso, con lo sguardo dritto in quello di Acilia “Ora si fa sul serio”.
 
L’urlo disperato di Ramona… Ancora le risuonava nelle orecchie, sarebbe risuonato in eterno.









Non pensavo che ce l'avrei fatta, invece, scrivendo piano piano una paginetta al giorno, sono riuscita a pubblicare prima del fatidico esame XD 
Dunque, il capitolo, come si evince dal titolo, sarebbe una specie di omaggio al poeta inglese Keats. Il fatto che Kaeso reciti un pezzo della sua poesia Bright star dovrebbe risultare grottesco: i puri versi che Keats indirizza alla sua amata Fanny sono per Kaeso indirizzati alla sua distorta e folle concezione di arte. Spero sia passata quest'idea, e che la cosa non sembri solo una vaga forzatura che non c'entra niente con tutto il resto.. XD 

Nene, grazie mille per i complimenti! E' importante per me sentirmi dire che non sono sempre uguale a me stessa, perché a volte ho proprio l'impressione contraria.. I personaggi pure mi sembrano tutti uguali, sarà perché uso per tutti loro la stessa "lingua", ma, ahimè, l'italiano medio di oggi è l'unica lingua che conosco.. Quindi mi fa un sacco piacere quello che hai detto ^^  Sì, Eike si comporta da un bambino perché è questo che è, è patatoso esatto XD un patato un po' macabro.. ma fase superata XD Per quel che riguarda Emily, ti correggo. Sono andata a rileggere per paura di essermi espressa male però non mi pare: ad Emily non è tornata la malsana idea di farsi trasformare tranquilla XD Semplicemente l'ha pensato per dirsi che sarebbe una gran cavolata, che - ed è questa la cosa importante - non se la sentirebbe proprio per niente di rinunciare alla sua vita solo per Jacque. E Kaeso sì, avrebbe proprio bisogno di uno strizzacervelli, di uno bravo ahahah! Grazie ancora :D 
Sara, anche a te è piaciuto quella specie di esperimento, che bello XD  Eeesattamente, hai c'entrato il punto, cerco sempre di scegliere i titoli dei capitoli nel modo più sensato possibile, a volte ci riesco, a volte di meno ma il titolo del capitolo scorso era proprio azzeccato. Le illusioni cadono giù per tutti i personaggi, come hai detto tu. E anche il pezzo di Kaeso in quel contesto aveva un suo senso, perché, mentre le illusioni degli altri cadono, lui se la crea, un'illusione/inganno, creando nel contrasto una "doccia fredda", termine molto adatto che hai usato tu XD  Molto bello anche il termine "psicoscopio" ahahaha! Nella mia ignoranza non sapevo che quella sindrome che lega oppressi e oppressori si chiamasse "sindrome di Stoccolma" però sì teoricamente sviscerare il rapporto tra le due parti era voluto XD Grazie mille per tutte le belle parole che hai usato *_* 

Sapete una cosa, mi sorprende che nessuno abbia mai detto che Acilia è un po' vacca XD Mi fa piacere perché vuol dire che sono riuscita a rendervi chiaro il flusso delle sue emozioni :DD
Duuunque, adesso faccio sto esame, poi tornerò entro fine gennaio con il capitolo-chiave! ;)

ps: Che Lyuben morisse era scontato fin dall'inizio (i troppo buoni e troppo potenti fanno sempre una brutta fine..) quindi mimimi non arrabbiatevi :333
   
 
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