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Autore: deuxexmycroft    19/01/2013    5 recensioni
Cinque anni dopo aver fatto rinchiudere l'omicida Sherlock Holmes dietro le sbarre, emerge un feroce emulatore. Un riluttante John Watson è costretto a lasciare il suo pensionamento alla ricerca della consulenza dell'unico uomo che possa aiutarlo, un uomo che ha sviluppato per lui un'inquietante ossessione .
Genere: Drammatico, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Jim Moriarty , John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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la perdita 2

Bentrovati al secondo capitolo. Più vado avanti e più mi rendo conto  di quanto sia articolata questa scrittura (escludendo tutti i sinonimi di 'sguardo' che devo inventarmi XD). Questo mi porta a dover rimaneggiare alcune frasi per renderle comprensibili e credibili in italiano, ed è questo che mi porta via tanto tempo.

I capitoli sono diventati 6. Non vedo l'ora di arrivare in fondo.

Buona lettura!

***

John Watson arrivò al dipartimento di investigazione criminale la mattina successiva, mani in tasca e colletto della giacca sollevato sul retro del collo a combattere il freddo. Era vestito bene e sfoggiava la sua solita postura militare, ma la sonnolenza nei suoi occhi tardiva la stanchezza. Sally Donovan attendeva di incontrarlo all’accettazione; le sorrise quando la vide, più che altro per cortesia. Non erano mai stati grandi amici.

Sally gli rifilò un altro sorriso di rimando. “Il detective ispettore Lestrade mi ha detto di condurti nel suo ufficio,” disse, scortandolo attraverso l’edificio. John la seguì, ma avrebbe potuto percorrere la strada a memoria. Si guardò intorno così spesso da catalogare ogni dettaglio che era cambiato. “Hai tirato fuori qualcosa di utile da Holmes?”

Il sorriso di John vacillò. “Niente di concreto,” ammise e Sally si sentì egoisticamente vendicata. Tentò di scacciare quel pensiero, c’erano traguardi più grandi da raggiungere dinanzi a loro, ma era difficile non trarre piacere dal fatto che Holmes non era così utile come tutti solevano credere.

“Lestrade sembra pensare che quell’omicida ci aiuterà,” disse e si protese per premere il pulsante dell’ascensore. John attese pazientemente al suo fianco, mantenendo la sua espressione auto-protettiva mentre lei proseguiva. “Credo che stiamo perdendo tempo. A Holmes piace guardaci correre intorno facendo ciò che ci dice. Lo trova divertente. Siamo insetti per lui, John.”

John la giudicò con attenzione, poi si guardò i piedi. “Ricordo di averti sentito dire le stesse cose quando ancora lavoravamo con lui.”

Sally sussultò interiormente a quella memoria. “Tutti mi hanno dato della paranoica. So di aver dato quell’impressione, ma anche quando si è rivelato vero, non sono riuscita a dire ‘ve l’avevo detto’.”

Specialmente non al corpo spezzato che era andata a trovare in ospedale, con le interiora maciullate e gli occhi tristi. John aveva sicuramente ottenuto il peggio da quel tradimento. Il volto di lei arrossì e non proseguì oltre quella conversazione. John non insistette. Non aveva il desiderio di ripensare a quei fatti più di quanto non ne avesse lei.

Trascorsero il tempo in ascensore in un silenzio teso.

 

***

 

Per la prima volta, John si ritrovò nel mezzo del dipartimento di investigazione non come poliziotto, ma come testimone. La nostalgica familiarità che avvertì nell’essere tornato nel luogo in cui aveva lavorato per anni lo scosse. Lo condusse al limite. Inoltre, non era stato completamente se stesso dai giorni del Berkshire e gli inquietanti sorrisi di Sherlock.

Era seduto nell’ufficio di Greg mentre l’ispettore sfogliava le sue trascrizioni della conversazione con Sherlock, la sua emozione iniziale all’arrivo di John si stava lentamente smorzando in frustrazione. Era scoraggiante guardarlo arrivare alle stesse conclusioni a cui era giunto John a causa dell’ambiguità delle risposte di Sherlock.

Alla fine, Greg lasciò cadere i fogli sul tavolo e si riappoggiò allo schienale con espressione corrucciata. “Solitamente non è così criptico,” sospirò. “In genere non vede l’ora di dirti cosa sa realmente.”

John annuì. La sua postura era eretta, suo malgrado apprensiva. “Non so cosa farmene. Ha detto molte cose, ma sono tutti indovinelli.” John fece una pausa significativa e si inumidì le labbra. “Potrebbe sapere più di quanto ci dica.”

Greg si grattò la testa, gli occhi stretti a fessure. “Come se il killer stesse comunicando con lui?”

“Lo lascia intendere.”

John non aveva idea di cosa l’omicida potesse usare per comunicare e, data l’espressione di Greg, nemmeno lui.  Cambiarono velocemente argomento.

“E ha detto qualcosa a proposito delle conoscenze informatiche delle vittime.” John dovette tirare verso di sé gli appunti, rileggerli e ricordarsi le esatte parole.

“Qualcosa a proposito delle loro dita suggerisce che non erano persone molto tecnologiche. Non so come l’abbia capito, ma potrebbe essere un collegamento o un motivo per cui il killer ha scelto loro. Abbiamo i loro computer?”

Greg annuì, riacquistando la carica. “Abbiamo accesso a tutto. Cosa devo dire alla scientifica di cercare?”

“Procurati una lista di somiglianze tra loro.” John si sentì tornare indietro al suo ruolo di poliziotto. Qualcosa avrebbe potuto saltar fuori. “Dev’esserci un punto d’incontro.”

“Bene,” concordò Greg. Si piegò in avanti con ansia. “Così puoi portare l’elenco a Holmes.”

La testa di John si sollevò così in fretta che Greg reagì come se avesse sentito lo schiocco di una frusta. “Cosa?”

“Beh,” iniziò Greg, sorpreso. “Ci ha dato una nuova direzione da seguire. Forse potrebbe dirci di più.”

“Non sappiamo nemmeno se questa sia una direzione,” protestò John, il panico aveva preso il sopravvento sul suo primo istinto di cordialità. “Non sappiamo nemmeno se sia davvero dalla nostra parte. Non tornerò là a meno che io non debba.”

I grandi occhi castani di Lestrade guizzarono su John, la bocca si mosse senza produrre alcun suono prima di piegare la testa ed evitare lo sguardo di John. “Giusto. Mi dispiace.”

John si appoggiò all’indietro, producendo un sospiro quasi impercettibile. “Non voglio fare il difficile. Ma non sono… pronto. Mentalmente, intendo.”

L’ossessione di Sherlock per lui era evidente e preoccupante. John non aveva idea di come avesse potuto non notarla prima, dato che avevano lavorato insieme, alcune volte da soli e appartati riversando l’attenzione sulle prove, durante molti casi difficili. Lo Sherlock che aveva conosciuto in prigione gli aveva richiesto ogni grammo del suo coraggio per restare calmo in sua presenza mentre l’interno del suo corpo lo tradiva, il cuore batteva troppo velocemente e la pelle iniziava a sudare.

“Capisco,” disse Greg, anche se non ne aveva idea. John accettò, comunque, grato per il tentativo di comprensione. La sua cicatrice iniziò a prudere attraverso l’addome.

Greg aveva fatto del suo meglio, dopo tutto. La sera prima, John aveva chiamato Greg appena sceso dal treno dal Berkshire che lo aveva portato a casa, e aveva raccontato cos’era accaduto in maniera cautamente sobria. Si sentiva prosciugato fino alle ossa dopo un così lungo periodo in compagnia di Sherlock, e Greg, cogliendo la tensione nella sua voce, non aveva fatto altro che ordinargli di andare a dormire e lasciare il resoconto per il giorno dopo.

Queste persone erano dalla parte di John. Lavoravano assieme, cercando di catturare quel maniaco.

“Se hai bisogno che lo consulti, allora andrò,” si offrì John. “Ma sto parlando di ultima spiaggia.”

“Bene,” disse Greg. “No, grande, John. Sei già stato d’estremo aiuto.” Il suo tono di voce era molto sincero. Si alzarono entrambi e si strinsero la mano, Greg lo fece con cautela come temendo di spezzare il metacarpo di John. “Ti serve qualcuno che ti accompagni fuori?”

“Me la caverò,” lo rassicurò John, stringendo fermamente la mano di Greg e poi lasciandola. “Tienimi aggiornato.”

“Certamente.” Greg fece balenare un sorriso che metteva in luce la speranza di nuove prove e uscì a grandi passi dall’ufficio per dare istruzioni alla sua squadra. John lo seguì con qualcosa che sembrava attenzione e cercò di tenere la testa bassa finché non si fosse allontanato. Voleva tornare a casa, sdraiarsi, e lavorare alla sua nuova storia.

Stava indossando la giacca quando una grande mano gli afferrò la spalla. Era il detective ispettore capo Toby Gregson, con un luccichio amichevole negli occhi. L’appena promosso detective ispettore capo Gregson era un uomo alto, solido, con una forte personalità che John aveva visto mutare da affabile con i testimoni a estremamente intimidatoria con i sospettati. In quel momento era piacevole.

Forse era un’opinione azzardata, ma John sentì di essere finito in trappola.

“John,” disse Toby gioviale, come se si fossero incontrati per caso in un pub. “È bello vederti, come stai?”

“Bene,” rispose John con un sorriso fugace. “Sto bene. Riposo.”

Toby si guardò attorno fugacemente per accertarsi che la sua squadra stesse lavorano, poi ricambiò il sorriso di John. “Perché non vieni a chiacchierare un po’ con me nel mio ufficio?”

John aveva una vaga idea di ciò di cui voleva parlare. “Sono un po’ occupato, veramente…” mentì.

“Cinque minuti,” promise Toby, e ignorando ogni protesta guidò John  in un ufficio ben illuminato con grandi finestre e modernamente ammobiliato.

“Senti,” disse John, dopo esser stato letteralmente spinto su una sedia e una tazza gli fu messa tra le mani. “So cosa intendi dirmi e non sono interessato.”

Toby si sedette di fronte a lui e bevve un sorso del proprio tè. Non offese l’intelligenza di John e andò dritto al punto. “Potrei farcela se un agente esperto come te tornasse con noi, John. Tutti noi potremmo farcela.”

John scosse la testa e posò cautamente la tazza su un piattino. “Non avete bisogno di me. Non sono più di alcuna utilità alla polizia.”

“E se fossi io a decidere cos’è utile e cosa non lo è?” Gentile, ma salda pressione. Era come una leggera spinta sulla spina dorsale per farlo muovere nella giusta direzione. Toby aveva una voce così placida mentre diceva alle persone cosa dovevano fare. “Non ho mai avuto un uomo come te, John. Il modo in cui hai gestito la cosa di Holmes, ieri…” Toby in interruppe per emettere un basso fischio. “Vorrei essere stato lì.”

John non aveva gestito Sherlock, Al contrario, la loro conversazione si era svolta unicamente secondo le regole di Sherlock. “Mi piace la vita che conduco ora,” disse con fermezza, nel tentativo di portare la conversazione a una conclusione. “L’ultimo caso in cui ero coinvolto mi ha quasi ucciso. Non voglio passarci di nuovo, questa volta.”

“A me sembri stare bene,” disse Toby in tono ragionevole. “Sono quasi cinque anni.”

“Io sto bene,” rispose John un po’ troppo sulla difensiva. Fissò il tè che si raffreddava, le guance arrossate.

“Allora dovresti tornare a fare ciò in cui sei più bravo.” Toby si appoggiò allo schienale della sedia producendo uno scricchiolio, sistemandosi il risvolto della giacca con il pollice. “Ci sono vie, nella Polizia Metropolitana, che potrebbero permetterti di tornare al lavoro facilmente, e con grandi benefici. Non devi fare nulla, mi occuperò di tutto io. Solo, fai a tutti un favore e lavora a questo caso per noi.”

John esitò prima di rispondere e Toby parlò di nuovo.

“Abbiamo due giorni prima che la prossima ragazza muoia, John.” Era tutto fuorché contento. “Abbiamo bisogno del tuo aiuto.”

Le foto balenarono  nella mente di John in forma di tagli sanguinanti e trasalì. Nel profondo, qualcosa dentro di lui stava pregando, supplicando di lasciarlo in pace, di andarsene adesso e riprendersi prima che qualcosa, nella sua mente, si rompesse a causa di tutta quella tensione.

Ma se John poteva davvero fare qualcosa per questi omicidi…

Inghiottì la sua stessa paura e incontrò lo sguardo inflessibile di Toby. “Va bene,” disse. “Ma ho bisogno di velocizzare le cose. Devo vedere la scena del crimini con i miei occhi.”

“Certo.” Toby sembrava sollevato. “Dirò a Lestrade di portartici. Per qualunque cosa, John, bussa alla mia porta.”

 

***

 

Ogni volta che Sherlock veniva legato, per permettere la pulizia della stanza, il dottor Culverton Smith appariva e cercava di ottenere una reazione da lui. O, come gli faceva piacere dire, “psicoanalizzarlo’. Quell’uomo era ridicolmente semplicistico. Sherlock compativa l’intero sistema della salute mentale se un uomo come quello ricopriva una tale carica in un ospedale psichiatrico.

Culverton portò con sé delle lettere per Sherlock, da una larga varietà che alcuni noiosi idioti credevano essere unica, o che i giornalisti cercavano per mettere su una storia.

“Ci sono molte signore impazzite che ti mandano lettere, Sherlock,” rimarcò Culverton, sedendosi sul suo cappotto e sfogliandole con gesti pomposi. “Credono di poterti cambiare. In cosa? Un vegetariano?” Rise alla propria stupida battuta.

Sherlock non rispondeva mai ai suoi ammiratori. Tutte le lettere sembravano fondersi l’una con l’altra, dopo un po’ di tempo, ma le leggeva comunque quando era annoiato. La bocca iniziava a dolergli, per cui tese la mandibola contro la maschera, simile a una museruola, che gli teneva i denti lontani dalla faccia di chiunque, imitando uno sbadiglio, poi fece schioccare i denti. Il suono fece fare un salto a Dimmock, che asciugava il pavimento di fronte a lui.

“Eppure,” commentò Culverton con un ghigno furbo. “Non sono esattamente le donne a stuzzicarti, non è così Sherlock?”

Ovvio. Tipico di Culverton. Prendere una reazione isolata ed applicarla all’intero genere. L’umore di Sherlock, già non dei migliori, virò a pessimo alla presenza di tale idiozia.

“La conoscono tutti, sai,” continuò Culverton. Sherlock desiderò poter voltare la testa. “La tua ossessione per quel piccolo ex poliziotto. Ero così ansioso di conoscerlo, ma è davvero così ordinario, anche se un po’ a pezzi. Non sono sicuro del fascino, per quanto mi riguarda.”

Lo disse come se costituisse un insulto per Sherlock e attese una reazione che Sherlock non gli avrebbe offerto. In verità, Sherlock si sarebbe sentito più offeso se a Culverton fosse piaciuto John Watson.

“Qualcuno ha fatto delle analisi sulla tua strana cotta. Ci sono stati degli articoli.”

Suonava leggermente geloso, e Sherlock sapeva esattamente il perché. “Il tuo libro è stato rifiutato da un altro editore,” disse in tono piatto e Culverton prima sussultò per la risposta, ma poi la sua espressione tornò di pietra.

“Non lo sarebbe stato se tu ti aprissi un po’ con me,” scattò.

Sherlock sospirò, deluso. “Non ho alcun interesse nel fornirti altra credibilità o denaro.”

Il personale continuava a pulire, tenendo fermamente le teste basse contro l’atmosfera pungente della stanza.

Poi Culverton, il suo sguardo fisso su Sherlock, si chinò e afferrò deliberatamente la foto di John che Sherlock custodiva. Sherlock si lanciò contro di lui, ma non riuscì a muoversi di un centimetro a cause delle costrizioni. Ciò fece ghignare Culverton.

“Spero che gli darai una bella occhiata quando verrà a visitarti, dottor Holmes,” lo schernì Culverton. “Terrò questa con me.”

E il pessimo umore di Sherlock diventò omicida.

 

***

 

A metà strada tra la macchinetta del caffè e il suo ufficio, con una tazza di forte caffè nero, Greg fu fermato dalla larga mano del detective ispettore capo Toby Gregson che si serrò sulla sua spalla.

“Lestrade. Ho bisogno che porti John Watson sulle scene del crimine,” disse Toby, con un preoccupante luccichio di determinazione negli occhi. Accennò oltre la sua spalla, dove John sedeva nel suo ufficio, guardando assente fuori dalla finestra e muovendosi appena per respirare. Come se fosse stato legato alla sedia da prigioniero e si fosse stancamente rassegnato al suo destino.

Greg aggrottò le sopracciglia e si raddrizzò un poco. Non era sicuro che fosse una buona idea e un sentimento strisciante, sgradevolmente simile al senso di colpa, gli attanagliò lo stomaco. “John lavora al caso?”

Toby annuì. Sembrava, Greg non poté fare a mano di notarlo, soddisfatto di se stesso.

“Come accidenti hai fatto a convincerlo a farlo?” La voce di Greg assomigliava a una risata inquieta. “Quando abbiamo parlato sembrava essere sul punto di correre fuori dall’edificio.”

Toby scrollò le spalle con leggerezza. Era sempre stato bravo a persuadere le persone. “Ricorda solo questo, Lestrade,” disse serio, scrutando Greg da sotto la fronte bassa. “Il coinvolgimento di Watson è molto importante per quest’investigazione, quindi cerca di non spaventarlo. Lascia che sia lui a fare le cose.”

Greg strinse gli occhi. “Importante?” chiese, Toby continuò a guardarlo impaziente.

“Oh, sì. Essenziale.” Toby sollevò un sopracciglio. “Ricorda, se abbiamo Watson abbiamo anche l’accesso a qualcuno di molto utile.”

Greg deglutì con amarezza e represse un brivido. “Sherlock Holmes,” disse, riluttante.

“Sherlock Holmes.” Toby lo disse con soddisfazione. Gli assestò un’altra manata sulla spalla, il palmo caldo contro la stoffa della giacca, e gli lanciò un’occhiata penetrante. “Tieni John con noi, Lestrade, non importa come. Ora vai.”

 

***

 

Fu un viaggio tranquillo in direzione sud, verso Guildford,  umido e piovigginoso.

Greg guidava, picchiettando spesso le dita sul volante, come se stesse battendo un ritmo di musica. Occasionalmente gettava occhiate incuriosite al suo passeggero, che aveva iniziato la giornata vigile e pronto ad aiutare, ma che adesso sembrava parecchio pallido. John era chiuso in se stesso sin dalla prima scena del crimine.

John passò la maggior parte del viaggio a guardare fuori dal finestrino le distese di grigio, gli occhi che guizzavano sopra l’asfalto, il cielo, le nuvole, il luccichio dell’auto grigia di Lestrade. La pioggia, che batteva pesantemente sul parabrezza, aveva un effetto soporifero sul suo umore. Si concentrò sui rivoli di pioggia che si allargavano come ragnatele nel tentativo di dimenticare gli schizzi rossi che avevano macchiato le pareti dell’appartamento a Londra.

Non era il pensiero giusto. Proprio di fronte agli occhi di John c’era uno schizzo di pioggia che aveva colpito il vetro, e tutto ciò che John poté vedere fu un corpo bagnato di sangue stampato su una carta da parati, poi l’immagine di una giovane donna macellata. Trasse un respiro profondo e scacciò un brivido fissando lo sguardo sulle proprie mani. Greg lo stava guardando preoccupato.

“Stai bene?”

John strinse le mani a pugno finché non sentì male alle braccia. “Quand’è che sono diventato così molle?” chiese, per metà ridendo, per metà attraverso i denti stretti.

Gli occhi di Greg erano dolci e comprensivi, o almeno tentavano di capire. Avrebbe dovuto prestare più attenzione alla strada. “Sei stato lontano dal lavoro per molto tempo,” disse con ragionevolezza. “E hai visto più di quanto altri uomini hanno fatto.”

John annuì, sfregando un pollice sulla pelle secca del dorso della mano. Non sembrava convinto.

“Vuoi ascoltare un po’ di musica?” domandò Greg in tono più gioviale, ma John scosse la testa.

“Non sono molto in vena.” Ammiccò in direzione di Greg. “Voglio dire, puoi ascoltarla se vuoi – ”

“No, va bene così.” Greg sorrise educatamente, anche se non riuscì a nascondere la preoccupazione nei suoi occhi. Dopo alcuni minuti tesi parlò di nuovo. “Ascolta, John. È davvero grandioso, sai. Tu, quello che stai facendo.”

John chinò di nuovo il capo. “Beh,” disse, con un colpo di tosse. “Se ho il potere di aiutare…”

“Mi sento male, alle volte. So che ci siamo persi di vista dopo che ti sei ritirato, e non voglio che tu pensi che ti stia usando –”

“Greg,” disse John stancamente, a voce bassa. “Va tutto bene.”

La pioggia si stava facendo più fitta e il cielo più nero quando smontarono per andare verso l’appartamento della seconda vittima. Greg aveva un ombrello, quindi scese per primo e lo aprì prima di andare dal lato di John. Riuscirono ad arrivare all’interno quasi asciutti.

“Chiavi?” chiese John, sembrando leggermente agitato, e Greg gli sventolò davanti la cartellina con un ghigno.

La vittima viveva al secondo piano, salirono le scale assieme. Era un bel condominio, pensò John. Spazioso. Soffitti alti.

“Credi che faccia parte del metodo del killer?” chiese John mentre Greg perdeva tempo col lucchetto. “Entrambi gli omicidi sono avvenuti nelle case delle vittime.”

“E quindi?” Greg si bloccò, le mani sulla maniglia.

John agitò la cartellina nelle sue mani e si leccò le labbra secche. “Forse,” suggerì, “c’è qualcosa, nel suo metodo, che fa sì che possa colpire le sue vittime solo quando si trovano in casa.”

Greg annuì seccamente. “Sì, forse,” disse, la bocca leggermente aperta. “È questo che ha detto Sherlock?”

A quel nome, John represse un sussulto. Dio, stava diventando patetico. “Ha menzionato qualcosa in merito ai computer, ricordi?”

“Giusto.” Greg tornò a guardare la porta, poi nuovamente John, con cautela. “È lo stesso dell’altra volta. Polizia e scientifica sono già state qui e hanno preso tutto ciò che serviva loro. Se non ti sentirai a tuo agio –”

“Starò bene,” disse John, leggermente brusco. Era infermo sulle gambe e si sentiva già sul punto di non farcela. Con un brivido, nonostante il calore dell’atrio, John spinse le mani nelle tasche.

Greg lo squadrò, poi inclinò la testa e aprì la porta dell’appartamento.

Le luci erano spente, la stanza immersa nelle tenebre. Le loro ombre si proiettavano sul tappeto grazie alla luce del corridoio, sopra a una pedana con un incontaminato miscuglio di scarponi invernali, scarpe da ginnastica e con i tacchi. C’era un cappotto di un grigio tenue appeso dietro alla porta, una delicata ragnatela si tendeva dal morbido polsino fino alla carta da parati stampata. John avvertì un tuffo al cuore e si protese in avanti, distruggendo il filo col tocco del suo indice e accarezzando gentilmente la pelliccia. Dietro di lui, Greg lottava contro il fascio di luce tremolante della torcia.

“Dove sono i maledetti interruttori…”

Si udì un click e la stanza fu inondata di luce. Greg richiuse la porta dietro di loro e John indietreggiò, guardandosi attorno. Era un bell’appartamento, forse un po’ disordinato. La porta di fronte si apriva nell’area pranzo la quale era collegata a una cucina con i piatti ancora impilati nel lavello. C’era un divano imbarcato, un tavolino da caffè di fronte alla televisione, con i cerchi lasciati dalle tazze su tutta la superficie, un paio di riviste di gossip. Aveva ricoperto i davanzali con ornamenti.

“Da questa parte,” disse Greg, una mano sulla spalla di John.

“Aspetta,” disse John. “Ricordami, a che ora è stata uccisa?”

“Uuh…” Greg sfogliò il fascicolo. “Il patologo fissa l’ora della morte alle 7 e mezza di sera.”

Un orario inusuale per uno strano omicidio, pensò John, ma poi ricordò che niente, in quel caso, era normale. Lei aveva appena finito la cena. Probabilmente si stava rilassando guardando la televisione o altro. Quindi, perché era stata uccisa nella camera da letto? Aveva provato a fuggire dal suo aggressore? Mentre Greg gli faceva strada, John eliminò mentalmente quell’opzione. La porta era intatta e non aveva segni di forzatura.

Greg spalancò la porta e John su assalito nuovamente dalla visione di schizzi rossi sulle pareti, il pavimento e la trapunta sgualcita, come un tipo di arte astratta particolarmente morboso. Batté le palpebre, già stanco, e compì un passo all’interno.

“Le ha preso i reni,” stava dicendo Greg mentre procedeva verso la sagoma di nastro bianco dove il corpo era stato trovato sventrato, riverso sul materasso. “Solo dopo averla pugnalata diverse volte con uno dei suoi coltelli da cucina. L’abbiamo trovato la prima volta in cui siamo entrati nell’appartamento. L’aveva riposto nel ceppo dei coltelli.” Greg deglutì faticosamente, ricordando quella particolare sorpresa. “Nessuna impronta, ovviamente, ma il metodo di esecuzione di quest’uomo prevede che non lasci quasi nessuna traccia dietro di sé.”

Come l’impronta di scarpa parziale, taglia 43, nel sangue sul pavimento. John annotò sul fascicolo del caso tutti i dettagli che individuava a mano a mano che si addentrava nella piccola stanza, aggirando attentamente il sangue spanto. Greg sfogliò alcune pagine dietro di lui.

“È stata trovata il giorno dopo da un amico a cui non aveva risposto al telefono e quando siamo arrivati abbiamo riconosciuto subito le somiglianze con il caso di Holmes.” Greg inspirò lentamente e scosse la testa. “Quel momento di realizzazione è stato terrificante.”

John lanciò un’occhiata al luogo dove il computer portatile della ragazza era stato appoggiato sul tavolo nell’angolo della stanza, prima che la scientifica lo portasse via per analizzarlo. La sedia era stata tirata indietro. Andò più vicino, come attirato da quello spazio, con la strana sensazione di stare evitando qualcosa di estremamente importante. Lo stuzzicava da un margine della sua mente come un movimento colto con la coda dell’occhio. Visibile, tuttavia completamente indistinguibile.

Greg lo guardò. “Ti sei fatto una buona idea delle scene, dunque?” domandò.

“Sì,” disse John lentamente. Strinse forte i pugni e fissò lo sguardo tra il tavolo vuoto e il letto macchiato di sangue.

 

***

 

Quella notte, dopo che Greg l’ebbe portato a casa, John non dormì. Fissava il soffitto, le membra flosce, la mente al lavoro mentre ripassava tutto ciò che sapeva sul caso, le prove, ma soprattutto le vittime. Il cuore di John piangeva per loro. Sapeva che passare troppo tempo a compiangere le vittime, invece che focalizzarsi a riordinare la confusione, non era una buona pratica. Come poliziotto, questa era una delle cose che gli facevano odiare di più la sua etica professionale. Il fatto era che risultava difficile, per John, vedere le persone come statistiche, o nomi su una pagina, o fotografie sanguinose. Non poteva fare a meno di provare empatia.

E lui era inesorabilmente connesso a questo caso come nessun altro. La minaccia implicita per cui, quando l’emulatore avrebbe iniziato ad esaurire le vittime, sarebbe rimasta una sola persona.

Hai considerato il finale del gioco di questo killer?

John rabbrividì e si rigirò nel letto,  le mani raccolte sotto il cuscino.

Queste persone avevano un metodo per scegliere le vittime. Quello di Sherlock era più casuale e difficile da predire, prendendo persone che lo irritavano e pianificando le loro morti nei modi più crudeli, con qualunque cosa gli fosse capitata in mano. L’emulatore avrebbe dovuto essere più efficiente. Doveva adottare un metodo che gli fruttasse una vittima nel giorno in cui Sherlock aveva ucciso la sua. Non poteva seguire una persona a caso, in quel giorno, e sperare che vivesse da sola, o che non avesse un incontro urgente con qualcuno che non avrebbero incontrato. Diversamente da Sherlock, lui non le rapiva, non era ritualizzato, al contrario uccideva le sue vittime nel luogo in cui si trovavano in quel momento.

Forse non aveva abbastanza forza per farlo. O forse la scoperta dei corpi, i quali lo collegavano a Sherlock, era considerata più importante del modo in cui gli omicidi erano portati a termine.

Ma come riusciva a trovare le vittime in casa da sole? Come riusciva a vederle?

Sherlock lo saprebbe, pensò John, stringendo forte i pugni come se si stesse preparando a una rissa. Forse l’avrebbe capito quando avesse visto i rapporti dei casi, e ora avrebbe solo voluto vedere cosa sarebbe accaduto se se ne fosse rimasto zitto. E mancava un solo giorno prima che l’emulatore colpisse di nuovo.

Alla fin fine, non è che avesse davvero scelta.

 

***

 

La mattina successiva era fredda e invernale, e Greg spese qualche minuto seduto fuori, su una panchina della stazione con un silenzioso John Watson e una tazza di caffè istantaneo zuccherato con una goccia di whiskey. Il treno di John per il Berkshire era in ritardo.

Greg continuava a lanciare occhiate a John, non poteva farne a meno, l’uomo sembrava una statua se si ignorava il vento che gli agitava i capelli. Ti ci ho fatto entrare io, in tutto questo, era tutto ciò che Greg riusciva a pensare e il pensiero gli stava consumando la mente come un veleno. “Come ti senti?” chiese, per la terza volta da quando era passato a prendere John, nonostante lui non lo avesse chiamato.

“Sto bene,” disse con un sorriso stirato, le sue parole fuoriuscivano in nuvole sottili. Si strinse meglio il cappotto attorno al corpo e alzò gli occhi al cielo. “Starò bene. So cosa mi aspetta questa volta.”

“Te ne puoi semplicemente andare, ricordalo,” disse Greg. “Se si spinge troppo oltre. Lui ti vuole lì. Sei tu quello che ha il potere.”

John annuì in tacito consenso e sorseggiò il suo caffè caldo. “Lo so,” mormorò. “Ma non è quello che sembra.”

La memoria della confusione in cui John era precipitato dopo  l’ultima volta che aveva visto Sherlock balenò nella mente di Greg, e gli angoli della sua bocca si tirarono rabbiosamente. Si guardò attorno alla ricerca della bancarella dei biglietti. “Forse dovrei venire con te.”

“No,” disse John immediatamente. “Mi servi alla stazione al mio ritorno. Se avrò delle informazioni, avrò bisogno di te per iniziare a lavorarci il prima possibile.”

Con la coda dell’occhio Greg scorse un bagliore e si girò per vedere l’arrivo ritardato del treno. Le persone iniziarono ad alzarsi, radunando le borse e sospirando in direzione dei loro orologi. Qualcosa nell’espressione di John si era indurita; finì il caffè, gettando la tazza nel cestino di fianco mentre il treno si trascinava con uno stridio d’acciaio.

Greg percorse con lui quei pochi metri, sentendosi protettivo per ragioni che non voleva analizzare. John si voltò a guardarlo quando fu salito a bordo, una piccola mano guantata afferrata alla maniglia della porta. Sembrava un po’ perplesso, ma aspettò che fosse Greg a parlare.

Dobbiamo mantenere un atteggiamento professionale, Greg ricordò a se stesso. “Ricorda,” disse seriamente, “il collegamento di questo caso con Sherlock è ancora segreto finché non decideremo il contrario. Non dirlo a nessuno.” Concluse, ricordandosi i verbali. “Specialmente al dottore capo, non mi piace.”

“Me ne ricorderò,” disse John e le porte si chiusero. Attraverso il finestrino, Greg lo vide spostarsi alla ricerca di un posto, camminando con cautela sul treno oscillante. Aspettò sul binario finché il treno non scomparve alla sua vista.

 

***

 

Il dottor Culverton Smith fu molto meno amichevole dell’ultima volta in cui John Watson era apparso alla sua porta. John fu lasciato fuori dall’ufficio del dottore, ad aspettare, ascoltando alcune telefonate rabbiose a mala pena attutite dal muro. Apparentemente la sua presenza stava interferendo con una delle punizioni di Sherlock. Si udì un’invettiva particolarmente  rumorosa che fece sollevare un sopracciglio a John, e un inserviente che spingeva un carrello con ruote attraverso i corridoi catturò la sua attenzione. I due si scambiarono un sorrisetto.

“Non mi piace,” disse più tardi Culverton, un’affermazione che ormai era più che ridondante considerata la sua espressione, come un capitano la cui ciurma si è appena ammutinata. “Questo è il mio ospedale e diventa spaventosamente difficile dirigerlo se sono schiacciato dalla burocrazia!”

“Mi occorrono solo alcuni dettagli in più su questo caso, dottore,” disse John rigidamente. C’era una pila di giornali sulla scrivania di Culverton che attirò il suo sguardo.

“Perché così tanta fretta?”

“Nessuna fretta,” gli assicurò John. “È solo che abbiamo così tanto tempo libero da riempire con questo genere di cose. Programmi, capisce.” Sorrise, ma si bloccò quando notò la foto in prima pagina del giornale in cima. Culverton seguì il suo sguardo, un sogghigno a stento nascosto, ma John capì che fremeva in attesa di ricevere domande in proposito, quindi tenne la bocca chiusa.

Anche se Culverton non aveva l’autorità per negare a John il permesso di entrare, questa volta fu molto meno cortese, delegando a qualcun altro il compito di scortarlo e borbottando qualcosa a proposito dei suoi diritti. Attraverso occhi furiosi stretti a fessure guardò la piccola figura di John scomparire nel corridoio, poi tornò a sedersi, pensieroso. La sua penna dorata appoggiata contro il labbro inferiore arricciato.

La psichiatria cannibale sembrava un premio quando era arrivato per la prima volta: Culverton credeva di aver trovato il biglietto per uno stile di vita tra gli autori famosi.

Ma Sherlock non era testabile e non parlava mai con nessuno.

Oh, ma aveva visitatori, il numero schizzava ogni qual volta un omicidio finiva tra le notizie e dei professori di psicologia volevano sfruttare quel momento per farsi un nome – ma venivano lasciati tutti a mani vuote e frustrati da quell’uomo pallido che giaceva in silenzio sulla sua branda e apriva bocca solo per dispensare insulti taglienti. Lo dicevano con occhiate saccenti – avere a che fare con Sherlock faceva sicuramente venire voglia di gridare per la frustrazione a Culverton.

E poi c’era John. Culverton si infilò con cautela la penna in tasca e sollevò il giornale più recente. John era impallidito quando lo aveva visto lì appoggiato sulla scrivania, quel giovane affettato e vivo per miracolo, ma poi si era ripreso e aveva scandagliato Culverton con un’occhiata che poteva essere descritta solo come disprezzo. Ciò aveva portato Culverton a odiare John immensamente;  

detestava essere interrotto durante i suoi tentativi di fiaccare l’animo.

Dopo cinque anni di sdegnoso silenzio da parte di Sherlock, arriva John Watson, e tutt’un tratto sente parlare di come quell’uomo riesce ad avere Sherlock alla sua mercé. Si era aspettato un John sudato e terrorizzato ricomparire dopo dieci minuti, ma no, Sherlock lo aveva trattenuto là sotto per più di un’ora con una discussione impegnata. Era apparso soddisfatto quanto un gatto ben nutrito per il resto del giorno.

La stampa non sapeva nulla delle visite di John alla casa di cura e, Culverton aveva controllato, non era più un vero detective. C’era sicuramente qualcosa di sospetto sotto, e non avrebbe fatto più alcun tentativo per risultare accomodante con tutti coloro che trattavano il suo ospedale come un caffè dove incontrarsi e salutarsi.

Quindi alzò il telefono per fare una soffiata anonima alla stampa.

 

***

 

Quando John arrivò alla cella di Sherlock, notò subito cos’era cambiato.

Sherlock era seduto al suo tavolo ora vuoto, la sua elegante figura completamente immobile, le mani giunte come in preghiera sotto il suo mento. Come parte della sua pena per dei crimini non menzionati, la cella di Sherlock era stata privata di ogni cosa remotamente stimolante per il suo cervello. Il suo letto era un piccolo quadrato, senza cuscini. I suoi libri e i suoi giornali erano spariti, persino le mensole erano state tolte dai muri, esponendo i supporti di metallo come una ferita. Tutto ciò che aveva erano il suo letto, una sedia, un tavolo e la toilette. Apparentemente, aveva fatto qualcosa di abbastanza grave.

“John,” disse col suo basso brontolio, senza muoversi. “Ho saputo che tu e Lestrade avete trascorso molto più tempo insieme, di recente.”

I suoi tristi occhi si posarono su John e le sue narici si dilatarono temporaneamente mentre inspirava.

John decise di ignorarlo e si sedette, avvertendo un brivido di trepidazione lungo la spina dorsale mentre osservava la cella spoglia, la tensione che faceva contrarre la mascella di Sherlock come il conto alla rovescia di una bomba. Appese la giacca allo schienale della sedia, gli occhi spalancati in confusione. “Cos’è successo?” domandò, realizzando solo allora in cosa consistesse la “punizione” di cui Culveron aveva parlato.

Sherlock non rispose per lungo tempo, poi le sue labbra di allungarono improvvisamente in un ghigno. “Quel dottore privo di senso ed io abbiamo avuto una discussione. Questo è il mio compenso. Non che non me lo aspettassi – a quanto pare sono mentalmente malato, non ho i diritti che hanno gli assassini sani.

“Forse potrei parlargli,” iniziò John, ma Sherlock reagì sbattendo con violenza le mani sul tavolo, quasi ringhiando. John si ritrasse.

Forse. Forse forse forse. Che parola inutile. Sei solo una delusione dopo l’altra, vero?” Si alzò, la sedia si schiantò sul pavimento dietro di lui, e fu in piedi contro il vetro con i suoi furiosi, freddi occhi così in fretta che per poco John non cadde all’indietro. “Allora, hai passato un giorno sul caso e hai già rinunciato? Non mi meraviglia che la tua vita sia un tale casino.”

John ricambiò lo sguardo con freddezza, ma la sua bocca era del tutto asciutta. “Non parlarmi così,” rispose, ma Sherlock stava già ridendo prima che avesse finito.

“Posso parlarti come voglio,” disse bruscamente. “E tu accetterai le mie parole, vero? È una singolare virtù, John, sei una vittima di prima classe.”

John resse quell’occhiata folle il più possibile, poi si alzò, prendendo la giacca con gli occhi bassi.

Lo sguardo di Sherlock si fece più tagliente. “Dove stai andando?” grugnì, indignato, le mani premute contro il vetro.

“A casa,” disse John semplicemente, con tutta l’autorità che riuscì a radunare. “Sono venuto per ricevere aiuto, non perché qualcuno mi urlasse contro.”

“Non puoi andartene e basta!” esclamò Sherlock.

“Sì che posso,” rispose John, un’espressione dura sul volto. Fece qualche passo.

Alle sue spalle poté percepire Sherlock ribollire di rabbia “Capisco,” mormorò a bassa voce. “Un gioco di potere. Che bassezza da parte tua, John, manipolarmi in quel modo.”

John si bloccò e si voltò, incontrando quello sguardo feroce. “Non far finta di essere estraneo alla manipolazione.”

Sherlock lo ignorò, le mani scivolarono lungo il vetro con uno stridio di pelle premuta. Appariva spettrale sotto la forte luce, i suoi vestiti candidi e la pelle erano quasi abbaglianti. “Credi di avere in mano le redini del nostro piccolo accordo solo perché mi fa piacere vederti?” chiese, il suo sorriso era quasi pietoso. Assunse un atteggiamento sdegnoso in un secondo, come se qualcuno avesse acceso un interruttore. “Ti dimentichi che, anche se mi godo il fatto di averti attorno, non mi faccio problemi a sbarazzarmi di te per un’esigenza personale.”

La cicatrice di John prudeva sotto la camicia, sgradevole pizzicore di nervi recisi e sudore.

Un coltello attraverso la morbida carne.

“Non l’ho dimenticato,” disse a bassa voce.

“Allora smetti di dire idiozie e siediti.” Sherlock si fece indietro, gesticolando verso la sedia come se stesse invitando un ospite di mettersi a proprio agio. “Perché darsi tanta pena per fingere di andarsene? La vita è piena di menzogne così com’è senza doverne aggiungere altre alla messinscena.”

“Non è una menzogna,” disse John fermamente. La mano richiusa a pugno sopra alla giacca. “Posso andarmene quando voglio.”

Sherlock emise una risata quasi muta, ruotando gli occhi all’indietro. “No, non puoi. Non se vuoi salvare la prossima vittima.”

John si irrigidì.

“E tu lo vuoi, vero?” continuò Sherlock candidamente. “Vuoi salvare tutti. È ciò che ti fa andare avanti, è ciò che ti ha fatto tornare nelle forze di polizia dopo tutto quel tempo –” la sua mano colpì il vetro mentre parlava “ – anche se ti risucchiano la vita da fin dentro le ossa. Permetti a quelle persone di usarti e valuti la vita di questi estranei più della tua. Non sono un disilluso. So che c’è una sola ragione per cui sei qui, a parlare con me.”

John realizzò che stava respirando come se avesse corso. Si inumidì le labbra, senza ancora muoversi verso Sherlock. “Non ho messo in pericolo la mia vita venendo qui.”

Il sorriso di Sherlock si allargò. “È così?”

John deglutì, spostò il peso su un piede. Si sentiva alla deriva.

“Fai ciò che ho detto e siediti,” ordinò Sherlock, il sorriso scomparve dal suo volto mentre si raddrizzava, rendendosi più alto. “Perché devi affrontare la realtà. Sono io quello che ha il controllo. Sono io la ragione per cui sei ritornato su questo caso. Sono io che decido cosa verrà dopo, perché se non mi dai ciò che voglio, non ti rivelerò nulla.”

“Assumendo che tu abbia qualcosa da dire,” replicò John bruscamente, così teso da sentire dolore.

La mandibola di Sherlock si contrasse, come se volesse mordere. “Siediti,” disse, come se si trattasse di un suggerimento e non di un’istruzione.

John voleva ribattere, voleva una valida ritorsione a tutto il veleno di Sherlock. Invece tornò alla sedia, sentendo lo sguardo di Sherlock su di lui come corde che lo trascinavano inesorabilmente più vicino. Poteva andarsene, scappare prima di essere tirato ancora di più dentro a tutto questo, ma la codardia di John sarebbe stata la ragione per cui un’altra ragazza avrebbe finito col morire.

E non poteva lasciare che ciò accadesse.

Sherlock sembrava trionfante. “Bene,” disse in un sospiro. “Grazie, John.” Le sue mani ricaddero dal vetro, ma rimase ancora inquietantemente vicino, gli occhi pallidi che scorrevano sopra di lui come se stesse cercando di memorizzarne ogni dettaglio.

“Okay,” disse John, inclinando la testa. “Come ci riesce? Come le trova?”

“Non così veloce,” disse Sherlock, con una breve contrazione delle labbra. “Non te lo dirò in cambio di niente.”

“Sono qui, no?”

Lo sguardo di Sherlock si spostò di lato, le palpebre abbassate. “Per quanto piacevole sia avere la tua forzata compagnia, John, la tua presenza, per quanto gradevole, non vale ciò che so.”

John lo osservò. “Cosa vuoi?”

Invece di rispondere, Sherlock emise un lungo sospiro e si girò, calciando verso l’alto la sedia ed afferrandola, sbattendola a terra di fianco al vetro. Ricadde su di essa e unì insieme i polpastrelli, fissando John con il suo sguardo di ghiaccio. Fece un cenno con la testa. “Porta la tua sedia più vicino.”

John rimase fermo, sentendosi molto simile a una preda.

“John…” disse Sherlock piano. Un avvertimento.

Stava testando il proprio potere.

Quando John trascinò la sua sedia qualche metro più vicino, riuscì a scorgere il sorriso compiaciuto di Sherlock da dietro le sue dita. “Eri qualcos’altro prima di diventare un detective,” disse Sherlock, puntando le mani verso John. “Non è così?”

John si irrigidì, la mente prese a lavorare nel panico. “Questa non è una deduzione. L’hai letto, o qualcuno te l’ha detto.”

Sherlock proruppe in una risata sguaiata e si asciugò la bocca. “Ero sospettoso la prima volta che ti ho incontrato,” ammise. “Così ho rubato un’occhiata ai tuoi file. È stata una lettura alquanto interessante.”

Era sempre stato interessato a John. John aveva interpretato il suo comportamento come eccentricità, anche se ora lo conosceva meglio, molto meglio. “Non avevi il diritto di farlo,” disse freddamente. “Quei file erano privati per una ragione.”

Sherlock allargò le mani in segno di scusa. “Mi avevi incuriosito. Non sono riuscito a trattenermi.”

“Non capisco. Perché hai bisogno che ti dica ciò che sai già?”

“Dimmelo e basta,” disse Sherlock con semplicità, appoggiandosi allo schienale della sedia come se si trattasse di un trono.

John voltò la testa, sospettoso. “Sembra un prezzo bizzarro per la tua conoscenza.”

“Le storie possono essere così prive di interesse quando sono inchiostro sulla carta. Preferisco sentirlo dalle tue labbra.” Le sue dita erano di nuovo premute insieme davanti alla bocca, i suoi occhi fissi in quelli di John.

“E se lo faccio,” chiese John, “tu mi dirai come opera il killer?”

“Hai la mia parola, John,” disse Sherlock, gli occhi si strinsero agli angoli in un mezzo sorriso. “Qualunque cosa ciò significhi per te.”

Logicamente, John sapeva che non doveva dare valore a una promessa proveniente da un bugiardo di tale abilità. Al contrario, trovò la promessa di Sherlock stranamente soddisfacente. “Okay,” disse, leccandosi nervosamente le labbra secche. Era stato ripetutamente messo in guardia dall’aprirsi con Sherlock. “Prima di essere un detective, ero un ufficiale delle forze armate.”

Gli occhi di Sherlock sembrarono brillare a sentire ciò, e guardò le mani di John appoggiate in grembo come cercando di trovare indizi, nonostante il fatto che fossero passati molti anni dall’ultima volta in cui John aveva impugnato una pistola, sparato un colpo. “È stato bello?” chiese, l’eccitazione gli vibrò in gola.

Le spalle di John si alzarono. “Molto bello.”

“Ti è piaciuto?”

“Sì,” ammise John, serrando leggermente il pugno sinistro. “Suppongo di sì.”

“Cosa ti è piaciuto di più, dello sparare alla gente?” I suoi occhi luccicavano.

“Non si trattava di quello,” ribatté John. “Si trattava di salvare vite.”

Sherlock piegò la testa. “Prendendone altre?”

“Raramente abbiamo dovuto sparare a qualcuno. Voglio dire… dovevamo mantenerci in esercizio, poligono di tiro, procedure, eccetera. Non ci sono così tante pistole a Londra, quindi alle volte ci bastava farci vedere per convincere i criminali ad arrendersi. Ho sparato con l’intento di uccidere una volta sola.”

Irruzione attraverso la porta principale, i secondi necessari ad abituarsi al buio, la corrente tagliata. Appropriarsi della zona e salire le scale, combattendo contro il peso del giubbotto antiproiettile, lo scricchiolio del legno sotto ai piedi. L’urlo violento di un uomo.

Il grido di una ragazza che si spegne all’improvviso.

John rabbrividì a quel ricordo; il buio ambiente dell’ospedale lo stava facilmente riportando al passato.

Lo sguardo di Sherlock era senza pietà. “E il tuo intento è diventato realtà?”

Sangue schizzato sul legno vecchio, penetrando nelle fessure come se stesse cercando di espandersi il più possibile, cercando di fuggire.

“Sì.”

Sherlock rimase in silenzio, osservandolo, affascinato. Le mani di John stavano tremando. Lo notò solo quando ne fece scorrere una tra i capelli e questa tremò sopra al suo orecchio.

“Il killer usa un virus per trovare le sue vittime ideali,” disse Sherlock nel mezzo del silenzio. “Sospetto che il programma si auto-elimini, ma se i tuoi della scientifica informatica hanno abbastanza talento e tenacia, potrebbero trovarne le tracce in entrambi i computer.”

John fu trascinato nuovamente al presente e fissò Sherlock scioccato. “Un virus? Come?”

Sherlock si piegò in avanti. “Amavi il tuo lavoro.”

John avvertì un’ondata di nausea.. “Non cambiare argomento!”

“Era eccitante,” continuò Sherlock, ignorandolo. “Una scossa di adrenalina, facevi del bene al mondo. E nonostante questo l’hai lasciato. Perché?”

“Forse mi ero stancato,” ribatté John.

“Ma non è così,” disse Sherlock, con un sorriso furbo. “Non mentirmi, John. Me ne accorgo.”

John lo guardò impotente, poi scosse la testa. “Volevo soltanto cambiare.”

Sherlock respinse quella risposta. “Qualcosa ti sta dando la caccia,” disse, quasi dolcemente. “Lo vedo nei tuoi occhi, in ogni respiro tremante che trai quando pensi al tuo passato. Qualcosa ti ha spezzato, non è vero? Quel cambiamento di carriera è stata, più che una decisione presa per capriccio, una necessità.

John si sentiva completamente spiazzato. “Perché vuoi che te lo dica?”

“Mi diverte,” disse Sherlock. “Potrei chiederti così tanto, ma tutto ciò che voglio da te è questo, John. Poi ti dirò quello che vuoi sapere.”

John non ne parlava da anni e trovò difficile raggruppare gli eventi nella sua mente tra le vecchie paure che ora stavano strisciando di nuovo in lui, costringendolo sull’orlo del baratro. Sherlock rappresentava ora un punto di stabilità, seduto nella sua cella con lo sguardo fisso, le gambe elegantemente accavallate come se fosse tornato ad essere uno psichiatra nella propria casa. Potrebbe sembrarlo, pensò John, se non fosse stato per qual bagliore feroce dietro gli occhi di Sherlock non appena John aveva mostrato segni di turbamento.

“Era un giro di pedofilia,” disse infine John, dovendo masticare quelle odiate parole. “Il caso andava avanti da mesi, forse anni, ma alla fine il sistema aveva iniziato a incrinarsi. Avevano rintracciato uno dei principali implicati, ma egli non si rivelò… collaborativo.”

Sherlock piegò la testa, ma rimase in silenzio.

John trasse un respiro profondo. “Non avrebbe parlato con la polizia. Quando ottennero il mandato ed entrarono in casa con la forza, lui sparò. Avevano giubbotti antiproiettile, ma una di loro fu colpito all’avambraccio.” John sfregò un pollice sopra al proprio braccio, consapevole dello sguardo di Sherlock che baluginava su di lui. “Le ha frantumato l’osso.”

“Ah, ricordo questo caso,” disse Sherlock, le labbra lievemente increspate.

“Sì, beh, è difficile per tutti dimenticare,” mormorò John. “Siamo stati mandati là non appena la stazione seppe della sparatoria.” Sollevò nuovamente la testa, la bocca serrata. “C’era un ostaggio.”

I pallidi lineamenti di Sherlock erano già rigidi nell’attesa, le labbra leggermente aperte. Fece cenno a John di continuare.

“C’era solo un uomo, all’interno, e gridava qualcosa su come non saremmo riusciti a prenderlo, su come potesse fare qualunque cosa, perché niente di ciò che avrebbe fatto avrebbe potuto peggiorare ulteriormente la sua situazione. Agitava la pistola, urlando minacce a pieni polmoni. Lui… lui aveva una ragazza tra le braccia.” John ammiccò velocemente. “Sua figlia.”

Sembrava così piccola nelle sua braccia, il suo viso bagnato di lacrime divenute perfettamente visibili dopo che la luce delle torce le ebbe illuminato gli occhi. Piangeva silenziosamente, fissando John come se lui potesse fare qualcosa. John ansimava nella sua pesante armatura, tremando, incredulo di fronte a quella scena, il ruggito furioso di un uomo con la pistola premuta contro la testa di sua figlia.

“Posso ucciderla prima che voi uccidiate me!”

“Non sapevo cosa fare,” disse John, passandosi le mani tra i capelli come un tic nervoso. “Non avevo in programma di sparargli, ma nessuno di noi si aspettava la presenza della ragazza. La reggeva davanti a sé, come uno scudo, e la pistola era premuta così fortemente contro il suo cranio da lasciarle un segno rosso sulla pelle.” Si massaggiò la tempia con un dito. “Non avrei dovuto sparagli.”

“Ma l’hai fatto.”

John si accasciò sulla sedia per alcuni secondi, la testa tra le mani mentre un’ondata di nausea e rimpianto lo trascinavano giù. Non riusciva a smettere di tremare. “Credeva di essere al sicuro con sua figlia come scudo,” disse rivolto al pavimento sotto i suoi piedi. “Ma… ho creduto di poter sparare. Lei stava piangendo, e io… le ho detto…”

“Andrà tutto bene,” aveva promesso John, tentando un sorriso che lei non avrebbe potuto scorgere da dietro la visiera.

“L’uomo perse la testa, sentendomi. Non so cosa fosse, forse il modo in cui si mosse, ma io sapevo che le avrebbe sparato. Ho reagito, soltanto…”

John si strinse la testa, gli occhi serrati. “Era troppo tardi. Lei era… era morta.”

Sangue schizzato sul legno vecchio.

Sherlock si era proteso in avanti, adesso, i gomiti sulle gambe, completamente rapito. John si raddrizzò, gli occhi pizzicavano. Sentiva la faccia calda e resistette all’impellenza di asciugarsi i palmi sudati sui jeans mentre Sherlock se ne stava lì con occhi attenti, crogiolandosi nella sua reazione emotiva.

“È stata colpa mia,” disse John intontito. Unì le mani in grembo. “Avrei dovuto portarlo fuori appena sono entrato e ho visto che c’era una bambina. Ma non l’ho fatto, perché ho avuto paura di qualche… ordine che ci imponeva di portarlo via vivo. Come potevo metterlo davanti alla vita di qualcuno?”

“Ti sei trasferito,” disse Sherlock con voce roca.

John annuì. Non riusciva a parlare.

“Sei diventato ispettore in fretta.” Sherlock continuava a incoraggiarlo. “Si è trattato di

uno sforzo consapevole?”

John scrollò le spalle, si schiarì la voce. “Se avessi lavorato abbastanza duramente non avrei dovuto ripensare a ciò che era accaduto.”

“Ma quando non lavori.” La sua voce lo sondava con cautela. “Quando ci sei solo tu, solo e stanco. Pensi a lei, in quel momento?”

John sollevò la testa per incontrare quegli occhi pallidi, i suoi stavano probabilmente luccicando, ma non gli importava. “Tutto il tempo.”

Sentì una lacrima minacciare di riversarsi lungo la sua guancia e si sfregò velocemente gli occhi, tirando su col naso. Si sentiva quasi violato, Sherlock lo guardò in silenzio per un po’. Improvvisamente, John udì la sedia grattare contro il pavimento quando Sherlock si mosse, e alzò lo sguardo per vederlo afferrare una scatola di fazzoletti dal suo letto e lasciarla cadere dentro la scatola scorrevole.

“Non intendo prendermi nient’altro da te,” disse, agitato, la voce proveniva da un punto profondo nella sua gola.

“Sono solo fazzoletti, John,” disse Sherlock con gentilezza, sedendosi nuovamente e chiudendo gli occhi con le dita premute sotto al mento. Non guardò John prenderli e tamponarsi gli occhi e il viso, come per concedergli un po’ di privacy.

Soltanto quando John ebbe riacquistato la sua compostezza, lo sguardo onniveggente si posò nuovamente su di lui.

“Sei abbastanza a pezzi, vero?” rifletté. “Penso che un solo tocco potrebbe farti andare in frantumi, se non fosse per il fatto che conosco personalmente la tua forza.”

John era troppo esausto per replicare. “Come fa l’emulatore a trovare le sue vittime?” chiese, spingendo di nuovo i fazzoletti nella cella di Sherlock.

“È un ragno al centro della sua rete,” disse Sherlock, con un sorriso vagamente divertito. “Un virus viaggia attraverso internet e si infiltra nei computer senza che lui li tocchi. Può accendere telecamere, microfoni, e quando trova qualcuno da solo, vulnerabile, va da lui.” Il sorriso si ampliò. “E poi, fa il suo lavoro.”

John annuì. “Quindi… stiamo cercando qualcuno bravo coi computer?”

“Un programmatore incredibilmente talentuoso,” specificò Sherlock, alzandosi. “Non sarei sorpreso se fosse così che ha scoperto i dettagli del mio caso. Il database del servizio di Polizia Metropolitana non è privo di falle nella sua sicurezza.” Con un sospiro arrogante piegò il collo all’indietro e John udì un leggero click. Sherlock gli andò più vicino. “Sembri così stanco, John,” mormorò. “Se tu fossi mio, mi prenderei cura di te.”

John arretrò con decisione. “Non ho bisogno di essere accudito.”

“Non hai idea di come appari al resto del mondo, vero? È questa la tragedia, davvero. Un’anima così resistente in un corpo tanto fragile.”

Sherlock appoggiò il braccio sopra la testa contro il vetro, allungandosi verso di lui. “Le persone ti guardano e tutto ciò che vedono è un uomo distrutto, in bilico sull’orlo dell’autodistruzione.”

John sbatté le palpebre lentamente, piegando la testa. “E cosa vedi tu?”

Sherlock sorrise e la sua voce si abbassò. “Io vedo acciaio.”

Per un istante, fu come se non ci fosse più un vetro tra loro.

“È stato un piacere rivederti, John,” disse Sherlock piano e questa volta lo sguardo famelico nei suoi occhi non venne mascherato.

  
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