E ti scorderai di me,
quando piove i profili e le case ricordano te...
[...]
Io vorrei soltanto che la notte ora velocemente andasse
e tutto ciò che hai di me di colpo non tornasse.
[Tiziano Ferro, Nessuno è solo]
9 Gennaio,
Ore 11.15, orario locale
Camera di Isabella Harmful e George Hamilton.
Apro gli occhi, quando sento il sole che colpisce le mie
palpebre.
-Quinn! Sei sveglia!- sento una voce profonda, ma preoccupata, che mi sveglia.
Una mano dal tocco delicato mi sfiora la fronte, per poi passare alla guancia.
Strizzo le palpebre e poi, lentamente le apro, abituando i miei occhi alla
luce: davanti a me vedo un paio di occhi neri, come la pece.
-Quinn?- domanda qualcuno, la stessa voce di prima.
Mi tocco la fronte, dove è appena passata la sua mano, con quel tocco così
leggero e delicato che mi ha fatto sentire una bambola.
-Buongiorno- sussurro appena, mettendomi a sedere e sistemando i cuscini dietro
alla mia schiena.
Guardo il ragazzo, che sta seduto sul bordo del mio letto: ha gli occhi marroni
molto molto scuri, no, forse sono neri; i capelli sono tagliati come quelli
degli attori che si vedono sugli enormi cartelloni di Hollywood; le labbra sono
tagliate da una cicatrice bianca, deve essere molto vecchia.
Lui, tutto sommato è carino, e potrebbe avere cinque o forse sei anni in più di
me.
-Quinn …- inizia lui. Mi sembra abbastanza preoccupato.
-Chi sei? – domanda solamente. Non lo conosco, quindi perché è nella mia camera
d’albergo?
Il ragazzo si alza e tira un pugno sul tavolo di legno scuro, sul quale è
poggiato il televisore. Chiudo gli occhi spaventata. Senza degnarmi di uno
sguardo, si precipita all’entrata della camera e apre la porta.
-SEI STATA TU! SI E’ COMPLETAMENTE DIMENTICATA DI ME!- urla, contro qualcuno,
che entra nella stanza, sbattendo la porta.
-Non era mai andato male! Non è la prima volta che lo faccio!- esclama Olympia.
-Quinn, sai chi sei? Dove sei?- mi domanda lei; io annuisco, spaventata: -Sono
Quinn Evelyn Farrell, abito ad Albertville, ma sono qui a Budapest per
convincere te, Olympia, ad aiutarmi a sconfiggere Privela, la regina delle
Druidresse, che ha stretto un patto con Lucifero-
-Non ti ricordi di me?- mi chiede il ragazzo e io sono costretta a scuotere la
testa.
-Sei molto importante nella mia vita?-
Lui, semplicemente, afferra il cappotto dall’appendiabiti ed esce, sbattendo la
porta. Serro gli occhi ancora una volta, sobbalzando sul materasso.
-Non lo ricordi proprio per niente?- mi domanda Olympia, e io sono costretta,
di nuovo, a scuotere la testa a destra e a sinistra.
-Chi è?-
-No, ora non è importante, bambina mia- mi dice lei, sfiorandomi la guancia con
il dorso della mano: -Forse è meglio se ti metti a dormire un pochino.
Devi tornare in forze-
Non so in forze per cosa, però l’idea mi alletta, così, quando Olympia chiude i
pesanti tendaggi con un colpo della mano, mi sistemo di nuovo in posizione
orizzontale, e sento chiudere la porta dolcemente, prima che il silenzio più
profondo mi penetri nei timpani. L’unico suono in quella stanza è il mio
respiro, che lentamente si fa più leggero e a intervalli sempre più regolari,
fino a cullarmi in un sonno completamente privo di sogni. O almeno questo è
quello che credo.
-Hai i baffi di cioccolata!-
esclama lui, posando il suo indice sul mio naso, che si arriccia
involontariamente.
-Non prendermi in giro!- dico io, scoppiando a ridere e afferrandogli la mano
che ancora sta per aria.
I suoi occhi, azzurri, azzurri come il cielo di settembre, o il lago Eire
d’estate.
Quegli stessi occhi che ora sono rossi sono come l’inferno: -Voglio il tuo
cuore-
La sua voce è diventata profonda, e sembra provenire dal punto più basso della
terra, forse è qualcosa di ultraterreno.
Mi alzo di scatto dalla sedia di plastica bianca dello Starbucks di
Albertville, intorno a noi, le persone continuano a mangiare, ridere, scherzare
e bere cioccolata come se niente fosse.
-Lo hai avuto- dico semplicemente, prima di guardarmi il petto, nel quale c’è
un enorme buco che mi lascia intravedere la
vetrata dietro le mie spalle.
-Ora lo ho avuto- dice lui, scoppiando in una rumorosa risata rauca e feroce,
che sembra quasi un ringhio.
Mi metto a sedere urlando, con la fronte imperlata di
sudore. Il ragazzo di prima sta seduto nell’angolo più lontano dal letto che
comprenda, però, una visuale perfetta fino a me.
-Un brutto sogno?- mi domanda seriamente. Annuisco, impaurita, ricordando
quello che ha fatto al mio risveglio.
- Mi dispiace averti spaventata, prima. Comunque non è importante se non ti
ricordi di me, Quinn-; alzo le spalle per non sembrare scortese nei suoi
confronti.
-Forse lo è, invece- sussurro io, abbassando lo sguardo e prendendo a torturare
un solitario filo che è sfuggito alla cucitrice della sarta.
-E’ meglio così. Hai voluto dimenticarmi per un motivo ben preciso- dice lui,
semplicemente, senza rancore. Atono, come un automa.
-Quale?- chiedo io, alzando gli occhi per incontrare i suoi, che sono
illuminati dall’unico spiraglio di luce che filtra dalle tende.
Prima che lui possa rispondere alla mia domanda, la porta si apre ed entra
Olympia, con una tazza di caffè in mano, e guardando male il ragazzo, del quale
ancora ignoro il nome.
Ore 16.30,
Hall del Best Western Hungaria.
-Sì, Jack, sta tranquillo- dico io, al mio apprensivo
fratello, che mi sta facendo il terzo grado sulla mia salute.
-No, non sto tranquillo. Non se mi hai appena detto che ti hanno fritto il
cervello e ti sei dimenticata di Albus!- esclama lui, e silenziosamente prego
perché questa conversazione finisca presto. D’accordo, ho dimenticato questo
“Albus”, il ragazzo con gli occhi neri, ma che male c’è? Non sembra esserci
stato nessun cambiamento importante nell’universo. O almeno nessuno che io
possa vedere.
-Fammi parlare con lui, per favore, Linny- mi chiede implorante.
-Sai che quando fai così mi viene voglia di prenderti a schiaffi, vero?- gli
domando io, cercando Albus nella marmaglia di gente che affolla la hall
dell’hotel. Finalmente lo noto, seduto tranquillamente, incurante dei turisti
che gli lanciano occhiate, ma soprattutto incurante delle occhiate delle belle
turiste asiatiche che attendono la chiave della loro camera.
- Albus … Jack vorrebbe parlare con te- quasi sussurro, forse per non farmi
sentire, per non disturbare la sua lettura. Purtroppo, però, si volta come un
cane che è stato fino ad ora a cuccia e ora è sull’attenti, in cerca della sua
preda.
Gli passo il mio telefono e lo vedo chiudere il libro.
Non riesco a sentire quello che dice Jack, a causa del chiasso degli asiatici,
ovviamente, sento quello che dice Albus.
-No, no. Hai ragione. Certo, ci ho pensato io. No, ma figurati. No, non c’è
bisogno di scusarsi; non è colpa tua- un profondo sospiro, e i suoi occhi che
cercano i miei, che schivi si abbassano sul pavimento coperto dalla moquette.
-Già, sarebbe piaciuto anche me- dice infine, e lo spio dal ciuffo di capelli
che mi ricade davanti al viso: abbassa il volto verso il pavimento e sposta il
peso da un piede all’altro.
-Ciao, Jack- chiude la conversazione lui, restituendomi anche il telefono, più
cupo di prima.
Mi chiedo se sorrida mai, questo ragazzo.
Sembra sempre così serio e senza
felicità.
-Io torno in camera. Ho bisogno di una doccia- mi dice, dirigendosi verso gli
ascensori; lo seguo, perché nessuno mi può piantare in asso così. Non sono una
qualunque, io.
-Hai già prenotato i biglietti?- gli domando io, sentendo il “din” e le porte
dell’ascensore aprirsi. Lasciamo uscire una coppia di anziani, lui con il
treppiedi, e lei che cerca di non ingobbirsi ancora di più. Entriamo in sintonia
e Albus schiaccia il numero del nostro piano.
Finalmente mi risponde: -Purtroppo il primo volo diretto disponibile è la
settimana prossima. Dovremmo rientrare per il 14-
-E intanto, cosa facciamo?- chiedo distrattamente, arricciandomi una ciocca di
capelli sull’indice.
-Beh, Budapest è una splendida città da visitare. Sempre che … sì, beh,
insomma. Ti vada di venire in giro con me-
-Prima di questa cosa ci conoscevamo. Mi fidavo di te. Altrimenti non ti avrei
chiesto di accompagnarmi in questo viaggio infernale- affermo, guardandolo.
Lo vedo sorridere per la prima volta; è uno di quei sorrisi accompagnati ad una
specie di sospiro, come se avessi detto qualcosa di buffo, ma prima che io
possa chiedergli qualsiasi chiarimento, lui mi dice: -Non me lo hai chiesto tu.
Mi sono offerto io di accompagnarti-
-Perché ho voluto dimenticarmi di te, Albus?- chiedo distrattamente; non mi
rendo nemmeno conto di averlo detto ad alta voce, fino a che lui prende fiato
per rispondermi, ma le porte di quell’aggeggio si aprono lasciando entrare una
famigliola felice, composta da marito, moglie, due bambini della stessa età
delle mie due sorelle e un fagotto in carrozzina.
Io e Albus siamo ai lati opposti dell’ascensore, e ancora una volta, la mia
domanda è rimasta irrisolta.
Pochi minuti dopo il rientro in camera
Non
c'è nulla, in quella camera d'albergo anonima che mi aiuti a
ricordare quello che ho dimenticato; quello che ho voluto dimenticare,
a quanto pare. Mi alzo dal letto, mentre sento il getto d'acqua rompere
il silenzio che si è creato, da quando la porta del bagno si
è chiusa alle spalle di Albus. Mi guardo in giro, avvicinandomi
alla mia valigia e scruto tra i vestiti che ho portato: non trovo nulla
di utile. La cosa più interessante è il libro che ho
acquistato a Cleveland: Dracula.
Lo sfoglio un po’, inspirando profondamente il dolce aroma
delle pagine nuove, che non sono mai state sfogliate da nessuno, se non forse
dai franchi viaggiatori che erano entrati in quella libreria; l’occhio capita
sulla frase del cacciatore Van Helsing: “Il riso è un re e va e viene quando e
come gli pare. Lui non chiede a nessuno, lui non sceglie il momento più
adatto”. Ricordo di aver letto questa frase mentre ero in aereo, sveglia dopo
l’incontro con una leggera turbolenza sopra Londra.
-Signore e signori passeggeri, vi preghiamo di restare
seduti ai vostri posti. Riscontriamo una leggera turbolenza dovuta ad una
nevicata di forte intensità sulla città di Londra -
Mi chiedo come possa essere Londra imbiancata e mi rendo tristemente conto di
non essere mai uscita da Albertville. Veramente, che cosa c’è dopo quel paesino
dove tutti conoscono tutti, vicino al lago Eire, dove tutti gli adolescenti
maschi vorrebbero finire sotto le mie stesse lenzuola e dove le ragazze
smaniano per essere notate dalla sottoscritta?
Mi ritrovo a pensare a Frankie: lei è italiana, ha avuto il coraggio di mettere
un oceano di distanza tra lei e la sua famiglia, i suoi amici, magari anche il
suo fidanzato, per poter coronare il suo sogno di passare un anno nella Grande
America. Sorrido.
Per quello forse, eravamo sempre state in disaccordo: perché lei ha avuto il
coraggio di fare quello che io nemmeno tra un’era avrei fatto; o forse perché
avevo notato sin dal primo di giorno di lezione che ci provava palesemente con
il mio ragazzo.
Sfioro il punto il cui la mano di Will mi ha colpita, ora non c’è nessun segno:
nessuna cicatrice o Dio sa cosa. Il dolore è solo mentale. Era tutto così
perfetto, prima. Forse, però, la colpa non è di Francesca. Forse è solo colpa
mia e di Will.
Chiudo gli occhi e li riapro, accarezzando la copertina del
libro. Sento dei colpi secchi alla porta: sono un po’ preoccupata riguardo
all’andare ad aprire; io non ho chiamato il servizio in camera, e suppongo
nemmeno Albus, visto e considerato che non abbiamo ancora deciso dove cenare.
Altri colpi. Il bibliotecario è ancora sotto il getto caldo e confortevole
dell’acqua dell’albergo, perciò raccolgo un po’ di coraggio e domando:-Chi è?-
-Quinn, sono Olimpya, puoi aprire, per favore?-
Ah, già. Olympia. Sì, giusto. Apro la porta e vedo che dietro di lei c’è
nientemeno che il Re dei Morti.
-Quinn- dice, abbassando la testa in segno di rispetto.
Vorrei sorridere, perché questo gesto è qualcosa che si faceva qualcosa come
nel milleottocento. Sono certa che Mr. Darcy l’avrebbe fatto.
-Ade- affermo, lasciando entrambi entrare nella stanza.
-Dov’è Albus?- chiede Olympia, rompendo il silenzio che si è venuto a creare.
Indico la porta del bagno e lei annuisce due volte.
-Abbiamo scoperto … - inizia, prima di essere interrotta da uno schiarimento di
voce di Ade.
-Lui ha scoperto – rettifica e sento gli angoli della bocca che si alzano.
-Come farti tornare la memoria- termina la divinità, puntando su di me i suoi
occhi oceano.
-Perfetto. Quando cominciamo?- domano impaziente, staccandomi dall’anta
dell’armadio alla quale mi ero appoggiata.
La porta del bagno si apre silenziosamente, ma mi rendo immediatamente conto
dell’arrivo di Albus perché Olympia lo fissa un po’ stralunata e Ade assume un
comportamento infastidito.
Mi volto e vorrei non averlo mai fatto.
Lui indossa solo un paio di pantaloni blu da ginnastica, i capelli sono ancora
scompigliati a causa dello shampoo subìto da poco e per via dell’asciugamano
che è appoggiato sulla sua spalla. Da lì, non posso fare a meno che guardare il
suo petto nudo: con la maglietta non si direbbe mai che fa palestra; fatto sta
che ha gli addominali scolpiti e nonostante le spalle non troppo larghe stile
nuotatore ha un fisico asciutto e scolpito.
Mi rendo conto che lo sto ossessivamente fissando quando Olympia si schiarisce
la voce e ripete quello che ha detto a me; la sua risposta a sorpresa è uguale
alla mia: -Perfetto. Quando cominciamo?-
Ade prende in mano la situazione, in un modo talmente fastidioso che mi viene
voglia di mandarlo al diavolo: -Non si tratta di schioccare le dita. Dovete
volerlo entrambi- continua poi, puntando i suoi occhi su di me; sento anche lo
sguardo di Albus sulla mia nuca. Vorrei girarmi e dirgli che il non sapere mi
sta logorando dentro.
-Io ci sto- sento Albus dire; ora spetta tutto a me.
Ore 18.45, orario locale
Camera di Isabella Harmful e George Hamilton.
-Stai insinuando che io non sia in grado di fare il mio lavoro?- mi risponde lui, contrariato; scuoto la testa, per evitare di mandarlo su tutte le furie: il Re dei Morti incazzato non deve essere un bello spettacolo per nessuno; non so perché ma immagino le luci che si accedono e si spengono per via della sua ira, e le finestre che si aprono, rivelando uno scenario apocalittico.
D’accordo, forse sono un po’ esagerata. Scuoto la testa per scacciare i pensieri e mi concentro. A detta di Ade tutto quello che devo fare è focalizzare un particolare di Albus che mi ha colpito in questo poco tempo passato dall’incantesimo andato a monte di Olympia e trasportarlo in un contesto passato.
Facile a dirsi, molto più complicato a farsi.
-Ti puoi anche sedere, sai. Non c’è bisogno che tu stia in piedi come una statua- mi dice poi la divinità: non che mi fidi molto di lui, ma stare lì, al centro di quel cerchio composto da sale e candele mi fa sentire estremamente stupida.
Mi siedo alla bell’e meglio, guardandomi intorno: con l’aiuto di un po’ di magia di Olympia abbiamo fatto sparire il letto per qualche ora, giusto per avere un po’ di spazio per poter, a detta di Ade “lavorare come se fossimo persone e non topi in gabbia”.
-Sei pronta?- mi domanda lui, dopo aver fatto un altro paio di giri intorno al cerchio formato da candele che fluttuano a pochi centimetri da terra e di sale.
Alzo le spalle: -Non penso di esserne sicura. E se non dovesse funzionare?- d’accordo, ammetto che mi sono sempre mostrata spavalda nei confronti di Ade, perché volevo dimostrare di essere migliore di lui e che non ero solo una marionetta nelle sue mani; ma forse è arrivato il momento di “dire la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità, lo giuro”. Perché sto veramente pensando al terrore che provo alla sola idea di non ricordare più nulla della mia vita: come un reset completo. Un reset, che, però, ho scelto io senza nemmeno ricordare il perché.
Sono persa nei miei pensieri mentre Ade mi poggia le mani sulle spalle: -C’è qualcosa in te, Quinn. Qualcosa che non riguarda soltanto quello che farai per l’umanità intera; c’è una luce in te. Un barlume di forza che … non hai proprio idea. Di quello che puoi fare[1]-
Mi osserva, con quei suoi occhi blu: blu perché non vedono mai la luce; blu perché l’unico barlume di speranza che hanno avuto nella loro immortale vita è stato quello di incontrare gli occhi di Persefone; blu, perché soltanto i suoi occhi sono di quel colore così profondo e segreto.
Abbasso lo sguardo, perché tutte quelle onde oceaniche che invadono il mio campo visivo mi fanno vergognare di me stessa: di comportarmi come una bambina, e di avere solo diciotto anni e guardare alla vita come se fosse una strada in discesa.
Nell’attimo di un pensiero, le fiamme lo avvolgono e lo riportano al regno dei Morti.
Alzo lo sguardo, dopo un tempo che mi sembra interminabile, alla finestra, godendomi il panorama che viene dipinto dalle gocce d’acqua che cadono senza sosta dal cielo plumbeo.
Chiudo gli occhi per focalizzare meglio quelli di Albus, così neri che quasi fanno male.
Note:
[1]: Citazione da "The Hunger Games"
Quindi, ragazzi.
No, non mi sono dimenticata di voi, non potrei mai farlo. :3
Mi manca tantissimo avere un sacco sacco di tempo libero per portare avanti la mia storia,
alla quale ormai mi sono affezionata troppo.
Però, non disperatevi, perché il prossimo capitolo sarà un capitolo KABOOM.
Non voglio fare spoiler.
Vi dovete tenere la curiosità.
Detto questo...
Alla prossima,
ovvero a febbraio.
Intanto mi impegnerò per scrivere i capitoli ogni volta che ho un momento libero.
Kisses,
Kristah.