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Autore: London is life    20/01/2013    2 recensioni
Vanessa ha 17 anni, vive con la madre Sue in un piccolo paese nel'nord d'Italia. Ha avuto un' infanzia meravigliosa, piena di amici e giocattoli, poi qualcosa all'interno della famiglia si sciolse, i suoi genitori continuavano a litigare suo padre non era più quello di una volta, e sua madre incominciò a frequentare altri uomini. Ora, vivono da sole, lontane da quei litigi, e da quelle insicurezze. Loro tra silenzi e risate sono riuscite ad andare avanti, malgrado l'assenza del padre continuasse a tormentare entrambe. Chi di fosse stata la colpa, nessuno lo sapeva, ma qualunque cose fosse successo, la famiglia era rovinata. Vanessa, ogni giorno va a scuola, con la stessa forza con cui affronta tutti i giorni. Affronta quella classe di estranei, i professori, le ore infinite che sembrano non passare mai, e quelle materie così noiose. Tira avanti perché sa, che quando tornerà a casa li ascolterà... una due tre volte non ha importanza, le loro voci la fanno andare avanti, e non potrà ringraziarli mai abbastanza. vanessa estranea perfino a se stessa ha un sogno. Il suo sogno è un aggettivo semplice: perfezione. Il suo sogno si chiama One Direction.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Louis Tomlinson, Niall Horan, Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Finalmente ero arrivata. Ero a Londra. Mi guardai un po’ intorno incredula, poi dallo zaino tirai fuori il biglietto, con il numero e la via della nuova casa di papà. Presi le valigie e mi diressi fuori dal aeroporto. Ero smarrita. Era la prima volta, che viaggiavo in aereo,  e per di più ero sola. Sola in questa grande città.  E allora chiamo il primo taxi, e mi faccio portare in giro.  Giriamo  la città diverse volte. Poi è ora di scendere. Peccato.

Big Ben. Ore 12.30. Sebbene  fossero i primi mesi di marzo,  il sole quella mattina sembrava splendere più del solito, e non si vedevano nuvole al orizzonte. Strano, pensai, alla fine anche in una città famosa per la sue piogge, può uscire il sole, magari fosse così per le persone. E ora da che parte dovevo andare?

Non feci in tempo a tirare fuori la cartina, che venni quasi investita da una folla di ragazze che correvano verso Piccadilly Circus. Non ci misi molto a capire. Loro.
Come una marionetta guidata da fili invisibili, mi gettai tra la folla; era come se le mie gambe sapessero già da che parte andare, dovevo solo seguirle. Mi feci spazio tra la folla e finalmente li vidi, loro, in mezzo alla folla, loro con i quei sorrisi intenti a firmare autografi. In fretta e furia cercai una penna, un’agenda. Niente. Neanche un insignificante foglio di carta.
Una foto. Cercai il telefono, ma tra uno spintone e l’altro mi finì a terra, dovetti sacrificare i miei pantaloni nuovi, così mi misi a cercarlo.  Venni calpestata almeno tre volte, alcune delle ragazze mi erano cadute sopra e avevo qualcosa di appiccicoso infilato sotto la scarpa.
Persa la speranza, sentì qualcosa di caldo sfiorarmi la mano.
“Stavi cercando questo?.”
Avrei potuto riconoscere quella voce tra mille.
“ Harry… “ sussurrai.

“Signorina, signorina insomma si svegli.”
Aprì gli occhi. Facce che mi guardavano con fare interrogativo.
“Signorina l’aereo è atterrato, la preghiamo di scendere.” mi disse una seconda volta l’hostess.
La guardai una seconda volta, mezza addormentata. Apri immediatamente lo zaino. Il telefono era lì, senza nessun graffio.  Pantaloni puliti. Mi sfiorai la mano.
E fu allora che, a malincuore, mi resi conto che era stato solo un sogno.
Ma un sogno perfetto.

Mi ero già fatta riconoscere, non male come inizio. Pensai.
E allora, ancora con i pensieri fissi in quel sogno, andai a recuperare i bagagli, e salì sul primo autobus, diretto in centro.  Dopo pochi minuti arrivai, e ora non mi restava altro che trovare la via. Quella mattina papà era al lavoro, e non sarebbe rientrato prima delle 3 del pomeriggio. Ci eravamo già accordati su tutto, sarei andata a casa, la chiave era sotto lo zerbino, avrei scongelato la pizza, e mi sarei arrangiata. Già mi immaginavo il frigo pieno di surgelati, o addirittura vuoto. Mio padre e il cibo non andavano certo a braccetto.
 Ma Londra era così grande, e io così piccola. Ok, forse sto esagerando un po’, ma orientarsi era praticamente impossibile. Gente che correva da tutte le parti, taxi ovunque, signori in giacca e cravatta che si precipitavano alla metro, gente che assaliva i negozi. E intanto tra me e me pensavo, ma questi inglesi neanche al ora di pranzo stanno fermi?
Mentre passavo davanti ad HMV, vidi seduta sul muretto una ragazza, i suoi capelli biondi le scendevano lisci sulla schiena, ad ogni persona che passava, lei alzava il capo e sorrideva, aveva un grazioso cappello e un vestitino a fiori. Mi sedetti vicino a lei.
“ Ciao…” le dissi.
Ma a quanto pare non mi aveva sentita. E allora mi sedetti davanti a lei.
“ Ciao, scusa se ti disturbo, ma sono appena arrivata.” Le dissi. Finalmente si accorse di me, perché si tolse le cuffie dalle orecchie.
“ Sto cercando Oxford city, mi potresti aiutare?” le chiesi sorridendo.
Lei mi sorrise a sua volta, mi prese sotto braccio e iniziò a trascinarmi via.
“ E così sei una turista.” Disse senza mai smettere di sorridere.
“ Io sono Sybille, piacere.” Disse fermandosi e porgendomi la mano.
“Vanessa.” Sussurrai.
“Solo vanessa?” mi chiese.
“ Vanessa Barker”
“ Ma quindi hai origini inglesi.”
“ Solo per parte di mio padre, e il tuo cognome?” Le chiesi, mentre cercavo di starle dietro, era incredibile quanto correva.
“ Quando verrà il momento te lo dirò.” Ci fermammo davanti a un bar, ero esausta, da quanto stavamo camminando? Guardai, Sybille tirare fuori dalla borsa un penna e scrivere qualcosa su un foglietto.
“ Questo è il mio numero, spero di rivederti presto, ciao amica.” Mi porse il biglietto. Ci salutammo. E dopo averla ringraziata almeno un centinaio di volte, entrai in casa di mio padre.
Non sapevo bene cosa aspettarmi, era la prima volta dopo tanto tempo, così presi la chiave da sotto lo zerbino, e entrai.
Incredibile quanto la casa fosse enorme. Rimasi qualche minuto interdetta davanti alla porta a osservare tutto, a catturare ogni minimo particolare. Ogni cosa in quella casa mi ricordava papà, ogni mobile, ogni oggetto, se pur insignificante.  Come avevo previsto il frigo era completamente vuoto, solo qualche uova, un limone. Tirai fuori la pizza da scongelare, appoggiai le valigie e mi diressi al piano di sopra. Diedi un’occhiata al bagno, passai davanti alla camera di papà, e poi al suo studio, fino ad arrivare a un’altra camera in fondo al corridoio.
Aprì delicatamente la porta, ed entrai.
Sul letto c’era un piccolo pacchetto e una lettera. Tipico di papà. Pensai. Anche quando ero piccola comunicavamo tramite lettere o disegni. Mi sedetti sul letto e incomincia a leggere.

Ciao tesoro,
come vedi la passione per scrivere lettere non mi è passata. E ora mentre scrivo nel mio studio ti immagino, mentre leggi questa lettera, immagino la mia bambina che è cresciuta, i suoi capelli ora saranno più lunghi, le sue passioni saranno cambiate, il suo carattere sarà diverso, ma il suo sorriso sarà sempre lo stesso. Quel sorriso che ogni sera quando tornavo a casa, non vedevo l’ora di vedere, quel sorriso che mi è mancato in questi anni lontani. Anni che son diventati mesi, mesi che son diventati giorni, e ora sono minuti. Minuti. Quelli che ci separano. Perché ora sei qui. Non puoi capire quanto sia stato doloroso per me andare avanti senza di te. Sapere che non ti sarei stato accanto nei tuoi giorni più difficili, nei giorni in cui piove, nei tuoi giorni più importanti. Sapere tutto questo mi faceva male. Soffrivo dentro. Scusa ancora, per il frigo vuoto, ma se non ricordo male dovrebbe esserci qualcosa da mangiare. Ah dimenticavo, oltre alla lettera, lo vedi quel disegno nella busta? Te lo ricordi, me lo disegnasti il giorno in cui mi trasferì a Londra. Da allora lo porto sempre con me; per avere una parte di te in me.
Non vedo l’ora di abbracciarti.
                                                     Ti bacio il tuo papà.”

Maledetto papà. Era riuscito a farmi piangere. Rigirai tra le mani la lettera, e la lessi così tante volte fino ad impararla a memoria.
Poi scartai il pacchetto. Sorrisi guardando quel maglione orribile che mi aveva regalato. Non si poteva guardare, ma sapevo che era un regalo fatto con il cuore. Me lo infilai. Come ero buffa. Sembravo un uovo di pasqua.
Non feci in tempo a iniziare a svuotare le valigie, che suonarono alla porta. Papà.
Corsi subito giù dalle scale, mi sistemai i capelli, sbirciai fuori dalla finestra. Strano la macchina non c’era. Sistemai un po’ tutto e poi finalmente andai ad aprire.
“ Ciao..” mi disse.
Ma questa volte ne ero sicura, non era un sogno.
 
 
 
 
 
 

  
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