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Autore: Glory Of Selene    21/01/2013    2 recensioni
Peter Pan è la piaga di Capitan Uncino. Il pirata lo odia, tutti i suoi desideri sono ormai finalizzati nella distruzione del suo nemico: non può continuare così.
Capitan Uncino sa di non poter vincere Peter Pan finchè lui sarà rimasto un bambino, e sa di non poter vivere finché non avrà vinto Peter Pan; l'unica soluzione è quella di farlo crescere. Una volta cresciuto, Peter non potrebbe più rimanere sull'Isola Che Non C'è, e Capitan Uncino vincerebbe...
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Peter si era sbagliato: il buio che era arrivato a ghermirlo non era incoscienza, no. Era stato sempre dolorosamente cosciente mentre una voragine nera gli si apriva sotto le ginocchia e veniva risucchiato giù, giù, sempre più giù, senza possibilità di fermarsi, dritto verso l’abisso più oscuro.
Peter era un bambino allegro e spavaldo, abituato ad essere capo, e a combattere giocando; Peter non aveva mai conosciuto la paura, la paura vera. E questo, perché non era mai caduto.
Aveva sempre volato. Era sempre stato abituato a volare; il ricordo della prima volta che l’aveva fatto si sfumava insieme a quello della canzone sommessa di una calda voce femminile, ed entrambi sembravano appartenere ad un’altra vita. Non era mai caduto, si faceva beffe della gravità, lui, come se fosse stata un altro dei pirati che tentavano dalla mattina alla sera di tirarlo giù e riportarlo con i piedi per terra, l’unico luogo nel quale lui poteva essere vulnerabile. La sensazione delle sue dita adunche strette attorno al suo stomaco, dunque, gli era del tutto nuova, e lui la trovò terribile. Era terribile il vuoto che sentiva nella pancia, un vuoto che non poteva combattere per quanto si ostinasse a muovere gambe e braccia, un vuoto che l’avrebbe costretto a urlare, e urlare, e urlare per sempre, perché era tutto ciò che aveva per contrastare il terrore – se solo la voce non avesse deciso di abbandonarlo così slealmente!
Sì, per prima, arrivava la gravità; e per secondo, naturalmente, il dolore.
Quel dolore che non l’aveva certo abbandonato, continuava a mordere rabbioso, afferrandogli il corpo e rimodellandolo secondo il suo sadico volere. Peter si sentiva una bambola di pezza: per un certo tempo, non riuscì nemmeno più a capire dove finisse il suo corpo e dove iniziasse quel nulla che lo stava svuotando e riempiendo insieme, si sentiva maneggiato come un pezzo d’argilla ma non altrettanto malleabile. Il suo corpo veniva forzato, rotto, e riassemblato insieme, se avesse avuto voce Peter avrebbe gridato come mai nella vita. E invece, la sua caduta era silenziosa, come anche le sue lacrime.
Non seppe dire per quanto tempo le fauci delle tenebre lo tennero prigioniero del loro grembo oscuro; ad un certo punto, si convinse persino che quella tortura sarebbe durata per sempre, e che fosse quello il piano di vendetta di Capitan Uncino.
La prima cosa che giunse invece, fu il sollievo, perché inspiegabilmente il dolore scomparve, di botto.
Poi, venne la sensazione ormai dimenticata del terreno sotto le gambe.
E, infine, lo stupore.
Peter respirò.
L’aria riprese a gonfiargli i polmoni, e a lui sembrò di essere nato un’altra volta, con l’unica differenza di essere stato cosciente durante tutti i terribili attimi della formazione del suo corpo.
Lentamente, tutti i suoi sensi si risvegliarono come da uno stato di torpore; iniziò con il percepire qualcosa di duro piazzato dietro la schiena – suppose che fosse un muro.
Dopo, gli si stapparono le orecchie, e allora fu davvero tremendo. Venne investito da un’enorme quantità di rumori, ruggiti di mostri sconosciuti, e tante voci, miliardi di voci incomprensibili, si sovrapponevano e si confondevano, e si divertivano a giocare con la sua testa confusa.
Spaventato, Peter decise di aprire finalmente gli occhi. La luce lo aggredì immediatamente, non riusciva a mettere a fuoco le immagini, li richiuse subito e si rannicchiò su se stesso.
Le voci non volevano smettere di tormentarlo.
Rimase così, contro il muro, le braccia strette intorno al proprio petto e gli occhi strizzati, quasi tremanti, per una quantità indefinita di minuti. Solo quando anche l’ultimo frenetico battito del suo cuore si fu calmato, Peter si impose di riprovare a sollevare le palpebre.
Fu una cosa molto graduale, e non fulminea come lo era stata la prima volta. La luce si insinuò nel suo sguardo con una bruciante dolcezza e, sebbene avesse dovuto aspettare un po’ prima di mettere a fuoco le sagome che gli schizzavano caotiche davanti agli occhi, quando lo fece ogni cosa gli apparve nitida e chiara.
Persone – grandi –, erano loro a parlare, a trapanargli il cervello, a passargli accanto senza neanche degnarlo di uno sguardo, a correre da una parte all’altra come se ne andasse della loro stessa vita.
Marciapiede. Questa parola gli trillò in un angolo del cervello, suggeritagli da una vocina provvidenziale, e lui la colse subito, a definire il posto sul quale era crollato. Era seduto su un marciapiede.
Il Mondo Oltre l’Isola Che Non C’è, pensò, piccato. Uncino l’aveva solamente spedito lontano dall’Isola, di sicuro per avere il tempo di compiere le sue malvagie scorrerie da pirata. Come se quello fosse bastato a fermarlo! Appena avesse trovato Trilly, si sarebbe levato in volo e sarebbe tornato all’istante sull’Isola.
«Mamma, guarda!». Un bambino, poco più piccolo di lui. Lo indicava, tirando insistentemente la gonna di una delle tante donne che non l’avevano neanche notato. «Un folletto di Babbo Natale!»
La donna si esibì in un sorriso tirato, lanciando a Peter uno sguardo di malcelato timore e disgusto, e sospinse poi via il bimbo. «Quello non è un folletto, tesoro. È solo qualcuno che è stato meno fortunato di noi, d’accordo?»
Entrambi scomparvero in un attimo nella folla, ma il piccolo aveva continuato a guardarlo finché aveva potuto.
«Certo che non sono un folletto.» borbottava intanto Peter tra sé. «Che idea assurda. I folletti hanno tutto un altro aspet...» s'interruppe di colpo. C'era qualcosa che non andava.
Il cuore prese a battergli all'impazzata. Perché la sua voce era così bassa?
Istintivamente, abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Erano mani grandi, mani da uomo, mani che non conosceva.
«No…!» esclamò, prima di tapparsi subito la bocca, non voleva sentire quella voce che lo spaventava, ma neanche il tocco di quelle mani che sapeva non essere le sue, così si ritrovò appiattito al muro, gli occhi sbarrati, terrorizzato da se stesso.
Uno specchio, pensava. Ho bisogno di uno specchio.
Si alzò, tremante, in piedi. Fosse stato un bambino come tutti gli altri si sarebbe trovato spiazzato dall’improvvisa altezza, ma lui era abituato a guardare il mondo dall’alto e, sconvolto com’era, non ci fece caso.
Un negozio di vestiti, dall’altra parte della strada; attraverso la vetrina riusciva a vedere molti specchi all’interno.
Si tuffò nel fiume di persone senza passare un solo attimo a pensare lucidamente, e a spintoni riuscì a scendere dal marciapiede. Le macchine sterzavano e suonavano, ma lui non le vide né sentì, raggiunse il negozio e si precipitò dentro. Una bestia ferita e spaventata. Ecco come si sentiva, incapace di pensare, preda della paura. Non umano. Non Peter, assolutamente.
Trovò quello che cercava appena entrato. Si fermò, terrorizzato da quello che avrebbe potuto vedere, si mise davanti alla superficie riflettente con lentezza. Per ultimi, alzò gli occhi.
Quando si vide riflesso, il suo cuore perse un battito, e gli si restrinse in petto, fino a diventare un sassolino terribilmente doloroso incastonato nel centro del suo torace.
Il volto di Peter era coperto di barba; una barba irta e rossiccia, arrivava fino al collo ed era dello stesso colore dei capelli – un po’ più scuro di quello a cui era abituato – che ora, lunghi, gli accarezzavano le spalle e la schiena. Due spalle larghe, troppo, mostruosamente larghe.
Peter chiuse gli occhi. Non voleva vedere oltre.
Sentì una mano che gli si posava sul braccio.
«Signore, posso aiut…»
«Lasciami stare!» gridò lui.
Già sentiva le lacrime lottare finalmente per scendere e dare sfogo alla sua disperazione. Venne scosso dal primo singhiozzo, si coprì il volto con una mano e scappò via. Tutto quello che voleva fare era correre. Correre, scappare via da se stesso. Corse per un tempo indefinito, togliendo di mezzo chiunque si fosse messo sulla sua strada, senza pensare a nient’altro se non alla corsa. E poi, sfinito, si rese finalmente conto che non c’era modo di scappare dal proprio corpo, e si lasciò cadere su una panchina, ai limitari di un grazioso parchetto.
Era diventato grande. Era cresciuto. Sì, il suo incubo peggiore si era avverato, era cresciuto. E questo poteva significare solo una cosa.
Che non avrebbe mai più potuto tornare sull’Isola Che Non C’è.
Il suo pianto non fu lento e delicato, ma fu uno scoppio improvviso. I singhiozzi partirono subito così, con violenza a scuotergli il corpo, e lui tremava, e non riusciva a trattenere le lacrime che gli scivolavano tra le dita.
I grandi piangevano nello stesso modo dei bambini.
«Ehi!»
La voce lo interruppe proprio nel bel mezzo del suo sfogo. Si impose di calmarsi, almeno un po’, e dopo qualche istante alzò gli occhi rossi e gonfi sulla ragazza che aveva parlato.
«Cosa vuoi?» chiese.
Era graziosa, notò. I corti capelli biondi le incorniciavano un viso leggermente rotondo, sul quale spiccavano vivaci un paio di occhi castani. Il suo sorriso era largo e solare, e a quanto pareva non riusciva a nascondere l’imbarazzo, dato il rossore evidente che le imporporava le guance.
«Scusami se ti ho disturbato, davvero. È che… ti ho visto, prima, al negozio. Mi sei sembrato… così disperato e io…»
Peter si stupì.
«Grazie». Era stato un gesto gentile.
Rimasero qualche attimo a studiarsi reciprocamente, in silenzio, poi lei tese una mano. «Comunque, io mi chiamo Meredict.»
Lui rimase a guardarla, un po’ perplesso, senza sapere bene che cosa avrebbe dovuto farci con quella mano. Pensò allo sputo, ma di colpo non gli parve più un’idea geniale come gli era sempre sembrata. Così disse semplicemente: «Io Peter.»
Il sorriso di lei si allargò e decise di sedersi.
«Non ti hanno preso?»
«Preso?» chiese, aggrottando la fronte.
«Beh, la compagnia teatrale. È per questo che indossi abiti di scena, no?»
In quell’esatto momento Peter si accorse di aver ancora addosso il vestito verde che usava di solito, in condizioni indecenti, tutto sbrindellato, e si sentì un completo idiota ad andarsene in giro conciato in quel modo, con tanto di cappello con piuma e babbucce a punta.
Arrossì fino alla radice dei capelli e tentò di discolparsi. «No, no, io non… cioè, questi sono i miei… erano i miei… insomma…»
Meredict rise. «Ehi, tranquillo! Non volevo metterti a disagio. Era solo una domanda». Il sorriso le si spense lentamente, mentre tornava ad osservarlo. Ogni suo pensiero attraversava limpido il marrone liquido dei suoi occhi e Peter, che era sempre stato molto bravo a leggere le espressioni degli altri, vide curiosità, attrazione, che man mano vincevano una naturale diffidenza. E una singolare dolcezza, una dolcezza – si rese d’un tratto conto – che poteva appartenere solo ad un viso femminile.
Una fitta al cuore, un ricordo. Ma di cosa?
«Hai bisogno d’aiuto, Peter?» domandò alla fine. C’era una certa cautela nel suo tono di voce.
Lui si calmò del tutto e tentò di ragionare. «…Dove siamo?»
L’espressione di lei si fece tra l’incredulo e il divertito. «A Londra! Dove pensavi che fossimo?»
Londra.
Un altro ricordo, fulmineo. Due occhi azzurri, grandi, e dolci, sì, dolci, di quella dolcezza femminile che tanto l’aveva colpito in Meredict.
Bastarono.
Balzò in piedi. «Wendy.» mormorava.
«Scusa?»
«Wendy. La conosci? L’hai vista per caso?»
La ragazza lo osservava senza capire. «Ma… Wendy chi?»
Peter non stette ad ascoltare, si guardò intorno invece, forse riusciva a ricordarsi dove abitava. Anche se aveva fatto sempre la strada in volo, scendendo dal cielo, accidenti a lui…
«Potrei chiedere a Trilly, ma chissà dov’è finita… dannatissima fata! E poi, no, no, non mi riconoscerebbe mai in questo stato…» borbottava.
«Ma ti senti bene?» domandava intanto l’altra.
«Grazie mille, Meredict! Devo andare da Wendy adesso!» esclamò in sua direzione, e poi corse subito via, lontano dalla panchina, perso nella sua vitale e febbricitante ricerca.
La ragazza rimase così, paralizzata sulla panchina, sbigottita. «…Prego.» rispose molto tempo dopo. E quando decise di alzarsi, lo fece scuotendo la testa. «Peter… e Wendy… singolare.» mormorò, con un mezzo sorriso sulle labbra.

Peter impiegò tutto il giorno a trovare la casa che cercava. Girò a vuoto e in tondo fino a farsi venire le vesciche ai piedi, e anche se la maggior parte della gente tendeva ad evitarlo schifata trovò qualche anima buona disposta ad aiutarlo, ed arrancando, in qualche modo, quando il cielo era già buio da un pezzo, arrivò fino alla soglia di una casa che non vedeva più da moltissimo tempo.
Per l’esattezza, da quando Wendy aveva fatto la sua scelta, preferendo quella vita all’Isola Che Non C’è.
Mentre suonava il citofono – il nome, Darling, gli era rimasto impresso a fuoco nel cervello. – gli venne in mente che lui, invece, non aveva avuto possibilità di scelta. Si costrinse ad ingoiare le lacrime mentre attendeva.
«Sì?»
Peter osservò stranito il citofono. La voce era di certo di donna, ma così distorta e meccanica non riusciva a distinguerla e a capire di chi fosse.
«Wendy?» domandò, titubante.
«Sei un suo amico dell’università?»
…Università? E cosa diavolo era? «Sì.»
«Beh, Wendy non è qui! È a casa sua adesso.»
A Peter crollò il mondo addosso. Da quando Wendy aveva una casa?
«Ah. È che… non mi ricordo… bene il nuovo indirizzo.» balbettò alla bell’è meglio.
«Ma chi sei?»
Colto alla sprovvista da una domanda così diretta e sospettosa, non riuscì ad inventarsi nulla di abbastanza arguto, e tutto ciò che fu in grado di farfugliare fu un “Peter” molto flebile e assai poco convinto.
La voce scomparve per qualche attimo; probabilmente per accertarsi che Wendy avesse effettivamente parlato di un certo “Peter” nella cerchia dei suoi amici.
«Peter! Ragazzo, ma sei tu!»
Tutto quel che lui provò fu meraviglia per la fortuna che stava avendo. Solo un minuto, e stava nuovamente vagando per le vie buie dei quartieri londinesi, armato soltanto di  un nome e di un numero. Verso mezzanotte circa crollò sfinito su una panchina ai lati della strada. Non aveva idea di dove si trovasse e non aveva idea di come fare a trasformare le informazioni che aveva avuto in qualcosa di concreto. Si addormentò di colpo, quasi senza accorgersene, ancora tormentato dal tarlo della preoccupazione di cos’avrebbe fatto che non avesse trovato Wendy. La disperazione rimaneva a bada solo perché si era trovato qualcosa da fare che potesse distrarlo.

Durante il sonno sognò il se stesso bambino, che lo derideva ferocemente.

La luce lo svegliò troppo presto. Per un secondo, solo per un secondo sperò che fosse stato tutto un incubo, ma la realtà gli si piazzò davanti troppo presto e troppo duramente perché lui potesse continuare a lungo con la sua farsa.
Si alzò a fatica. Si sentiva terribilmente dolorante e abbattuto; ma prima ancora di tutte le considerazioni riguardo alla sua sventura, gli saltarono in testa quel nome, e quel numero.
L’avrebbe trovata, ad ogni costo.
Mosse qualche passo in direzione della strada, e alzò lo sguardo su un cartello, una targa a dir la verità, che spuntava in bella vista dall’altro lato della via. Quando lesse ciò che c’era scritto, e che non aveva potuto vedere la notte scorsa, quasi gli cedettero le gambe.
Trovata.
«Oh…» mormorò. «Grazie…»
Un ultimo sforzo. Un’ultima corsa. Aveva un numero da cercare.

Il campanello suonò nel momento esatto in cui stava per sedersi e mangiare. Wendy osservò con un dispiacere quasi struggente la colazione calda che si era preparata con tanto amore, e per un attimo meditò di lasciar perdere la porta. Non aspettava visite.
Però avrebbe potuto essere qualcosa di urgente.
Con un sospiro, pensò che sarebbe stato peggio se si fosse già seduta e fosse stata costretta a rialzarsi, e con il miglior sorriso di circostanza che riuscì a trovare attraversò la sala da pranzo e strinse il pomello nella mano. Due sole mandate, prima di socchiudere e gettare un’occhiata all’esterno.
C’era un uomo fuori dalla porta, abiti a brandelli e barba e capelli lunghi e incolti, occhiaie scure sotto gli occhi e un aspetto a dir poco sporco e malandato. Quasi distrutto.
Wendy lanciò un urlo istintivo e si affrettò a chiudere la porta.
Lo sconosciuto la bloccò con un piede. «No, ti prego!»
Lei cominciò a farsi prendere dal panico. Non sarebbe uscita bene da un confronto di forza contro uno come lui. «Vattene! Giuro che chiamo la polizia! La chiamo!» sbraitò.
«Wendy, ti scongiuro!»
Venne bloccata dai suoi occhi. Erano grandi, atterriti, spaventati. Erano di un bel colore, castano chiaro, si adattavano straordinariamente bene al rosso ramato dei suoi capelli. E sembravano in preda al panico, almeno quanto i suoi.
«Ma chi… chi sei?»
«Sono Peter.» rispose, in un soffio.
Per un attimo, lei non capì. «Peter…?» Poi, i suoi occhi. Spalancò la porta, con foga, colta dalla gioia e dallo stupore. «Peter! Oh, Peter, credevo di non rivederti mai più!» gli gettò le braccia al collo, e lo strinse forte a sé. Era cambiato, le sue spalle erano larghe e muscolose, non erano quelle del ragazzino agile e scattante che era stato, ed era diventato molto più alto di lei. Si fermò, quando realizzò. Sciolse l’abbraccio, e lo guardò negli occhi, impaurita. «…Peter. Ma tu…»
Gli occhi di lui si riempirono di lacrime mentre annuiva. Alzò una mano tremante a coprirsi il volto, e si lasciò invadere da quel dolore bruciante e profondo, che davanti a lei sapeva di non poter nascondere.




Ciò che dice l'Autore

Finalmente il secondo capitolo è giunto! Rullo di tamburi, festa grande, la sottoscritta è riuscita a combinare qualcosa!!
xDD Dunque. Grazie davvero a tutti quelli che hanno voluto leggere anche questo secondo chap, come prima cosa! Qui si scopre in che modo l'incantesimo della sirena ha operato su Peter, le sue reazioni, la sua nuova scoperta. La scena di Wendy che apre la porta e lo riconosce a fatica è quella che ha dato origine a tutta la storia, è ovviamente la mia preferita e ci sono davvero affezionata (a parte il fatto che io li trovo tenerissimi!). Non è affatto facile trattare psicologicamente un personaggio che si ritrova a passare da bambino a uomo nel giro di pochi minuti, ma farò del mio meglio - spero di non essermi ficcata in qualcosa di troppo grande e complicato, come scrivendo mi capita piuttosto spesso. -
Ho una piccola nota tecnica da fare: è ovvio che, se noi prendiamo il primo film della Disney come esempio, non è cronologicamente possibile che Wendy abbia l'età di un'universitaria ai giorni nostri (infatti il seguito che ha fatto la Disney è ambientato durante il corso della Seconda Guerra Mondiale, nella quale Wendy è già una donna e madre di due figli.) Purtroppo io non sono una brava storica quando si tratta di storie, e non ho voluto ficcarmi in ambientazioni che poi non sarei stata in grado di gestire per quanto riguarda i costumi, ma anche le cose stupide come gli oggetti quotidiani. Ho scelto la soluzione più comoda, pur sapendo bene che era scorretto; spero che nessuno di voi me ne voglia per il mio errore temporale.
Detto questo, concludo dicendo che spero che vi sia piaciuto e che abbiate voglia di farmi sapere che cosa ne pensate.
Bacioni!
Glory.




  
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