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Autore: Aleena    23/01/2013    1 recensioni
Shasta, un drow dalle grandi ambizioni, intesse una relazione proibita con Kania che lo porterà davanti al giudizio della sua Dea. La sua condanna all'eterno dolore, però, si trasforma nell'occasione di potere e di libertà che per tutta la vita aveva, inconsapevolmente, atteso.
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1a Classificata al contest "Imprisonment: because there isn't only happiness in our life" indetto da Visbs e Tallu_chan sul forum di EFP.
Genere: Angst, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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II - DESIDERI

 
 
  Il respiro di Kania s’era andato placando man mano, sfumando lentamente dall’agitazione alla quiete serena che precede il sonno; quasi distrattamente aveva allungato un braccio e ora il pesante calore di quella sua pelle pallida riluceva sullo scuro sterno di Shasta, simile ad un serpente albino pronto a stringerlo mortalmente. Non sarebbe stato così, lo sapeva: quello era un semplice gesto d’affetto, niente più dell’espressione dell’attaccamento di Kania verso di lui; e, per quanto lo infastidisse la morsa gentile con cui l’uomo1 l’avvolgeva, lo jaluk2 aveva preso l’abitudine di lasciarlo fare. C’erano voluti interi cicli perché Shasta permettesse a Kania di dividere con lui il letto dopo il sesso, tempo durante il quale il ragazzo umano aveva riposato dapprima nella cuccetta di paglia e stracci sulla quale era cresciuto, poi in fondo al giaciglio dello jaluk: qualcosa che Shasta ancora faticava a comprendere, assieme a quella sorta di attaccamento morboso alla sua persona.
C’erano notti in cui Kania lo stringeva forte, altre in cui il suo viso si allungava sul piccolo cuscino riempito di muschio come in cerca della bocca di Shasta, del bacio velenoso dello jaluk: restava immobile, quasi in attesa, e spesso il suo volto chiaro e infantile scendeva ancora, accontentandosi dell’incavo del suo collo; altre volte Shasta apriva gli occhi e Kania si allungava, cercando di strappare un briciolo di qualcosa dal volto dello jaluk, che reagiva scansandolo e cacciandolo a terra con una spinta. Kania non si ribellava, non l’aveva mai fatto: era un cucciolo docile, pronto ad obbedire ad ogni desiderio Shasta esprimesse, e questo era quello che eccitava di più lo jaluk, il pensiero che così doveva sentirsi una femmina quando chiamava nel suo talamo un maschio – la sensazione di controllo, di potere, il servilismo che per tutta la vita uno jaluk non faceva altro che sognare di poter provare e che Kania donava a lui ogni giorno. Qualcosa di proibito, una trasgressione alle regole della società: quel ragazzino umano, troppo ingenuo per essere definito adulto e troppo insignificante per essere notato, era la cosa più preziosa che Shasta avesse mai avuto: un assaggio della vita privilegiata di una femmina, la dimostrazione che lui non era un maschio come tutti gli altri.
Shasta era stato ben consapevole dei rischi e abbastanza attento da evitarli: aveva ricavato, in una delle tante case isolate che c’erano nei quartieri periferici, una piccola stanza nella quale Kania aveva consumato gran parte della sua breve vita - votata all’attesa del rientro del suo padrone - e nella quale s’era rifugiato, silenzioso come un’ombra, quando altri jaluk o schiavi s’erano aggirati nei paraggi. Attento a non consumare più razioni di quante gliene fossero dovute, lo jaluk aveva diviso metà della sua mezza porzione col ragazzino, elargendogliela come un dono che il giovane umano riceveva con gratitudine quasi patetica. Aveva insegnato alla creatura spaventata che Kania era stato ad evitare le grotte oscure fuori da quella casa silenziosa, dicendogli che la sicurezza era lì, nell’abbraccio caritatevole del suo unico padrone – un abbraccio ben più duro di quello che gli stava riservano ora il ragazzo umano, ma sicuramente più efficace: aveva salvato la pelle ad entrambi, finora, e ne andava fiero. Seguendo il filo di quell’idea dal sapore dolce, lo jaluk sorrise al pensiero dell’inganno che, con successo, aveva perpetrato all’insaputa della sua intera genia, aprendo il viso scuro ad una smorfia che era nel contempo di soddisfazione ferina e gioia violenta: un misto di emozioni che erano vicino all’esaltazione, al desiderio. Senza pensarci, Shasta aveva sollevato una mano al volto, lasciando che le sue dita scivolassero dapprima fra i fili argentei che erano i suoi capelli quindi in quelli corvini di Kania, in una carezza che non aveva nulla di dolce ma che, anzi, era carica dell’eco di quel sorriso e di una nota di possesso.
«Mio signore?» la voce di Kania si era alzata, fievole come se provenisse dall’angolo più remoto dei suoi sogni. Senza aprire gli occhi il giovane si fece più vicino, facendo aderire il petto al braccio sinistro di Shasta, che non smise di passargli le dita fra i capelli. Si, è senza dubbio un bell’animaletto, pensò con soddisfazione.
«Dormi.» Ribatté secco lo jaluk, enfatizzando la nota conclusiva insita in quell’unica parola. Lasciami accarezzare questi bei fili troppo simili alla mia pelle, vibrava l’eco della frase non detta, lascia che le mie mani danzino dove vogliono.
Kania non replicò, ma il suo viso si alzò verso l’alto, le labbra che cercavano un contatto al quale non erano mai state abituate, qualcosa che doveva venirgli dal suo sangue umano. Improvvisamente Shasta sentì il calore montare dal collo, risalendo in spirali verso le tempie: una sensazione sgradevole, il segnale dell’ira che minacciava di sopraffarlo. Odiava quando Kania cominciava a pretendere qualcosa – gli ricordava quando il suo servo era ancora bambino e lo guardava con quegli occhi troppo carichi di innocenza, uno sguardo che non era mutato negli anni.
Repentino, Shasta sollevò il busto in un gesto talmente improvviso e inaspettato da spaventare Kania che, ancora intontito dal sonno, si ritrovò con la testa poggiata in grembo allo jaluk.
«Togliti. Vattene di sotto!» sibilò Shasta in una nota bassa, greve e carica di minaccia. Kania non attese oltre e lo jaluk rimase a guardare il suo corpo giovane e nudo scomparire oltre l’orlo ligneo dell’uscio. Solo allora si accorse di quanto fosse fresca la notte del sottosuolo.
 
  La campana del risveglio lo trovò seduto sul materasso troppo duro, intento a stilare un inventario mentale. Non aveva dormito molto durante quel turno di riposo, come in nessuno dei precedenti: la sua razza non necessitava del sonno tanto quanto quella umana – il fatto che gli uomini sprecassero buona parte della loro troppo breve vita dormendo gli sembrava assurdo, contro natura – e Shasta, in particolare, odiava dormire più di quanto gli fosse indispensabile. Dunque scattò in piedi, allungandosi ad afferrare la casacca col marchio della Casata in cui serviva e il piwafwi3, che s’avvolse sulle spalle all’ultimo, mentre l’uscio si chiudeva. Doveva tornare indietro prima che qualcuno notasse la sua assenza o la sua camera vuota, il letto intatto. Essere in anticipo sugli altri lo confortava: nella parte più infantile della mente credeva che questo suo zelo estremo potesse salvarlo da punizioni o inconvenienti come quello che, sedici anni prima, aveva portato Kania nella sua vita. Niente più punizioni, niente più distrazioni si ripeteva, strisciando attraverso il silenzio immobile e afoso della stretta grotta dal soffitto basso che separava il quartiere abbandonato in cui aveva rinchiuso Kania – una zona ancora all’interno del perimetro delle mura cittadine, sebbene abbastanza periferica da essere scarsamente presidiata - dalla grande caverna in cui sorgeva Che´el Phish, la capitale, coi suoi vicoli e le sue leggi. Coprendosi il petto con un gesto istintivo, Shasta attraversò gli stretti e bui percorsi velocemente, come faceva da duecento anni a quella parte, all’incirca da quando era stato in grado di badare a sé stesso abbastanza da poter essere allontanato dalla casa di sua madre. Fuori dalle vie, laddove i palazzi d’ossidiana e marmo diradavano, la luce rossa dei fiumi di fuoco che scorrevano nei loro letti a decine di metri sotto la terra irradiava un bagliore tenue che permetteva agli Schiavi di Via di muoversi agilmente, svolgendo i loro compiti senza dover troppo sforzare la vista. Di quella luce fioca e intermittente Shasta non aveva bisogno, anzi: i suoi occhi erano fin troppo sensibili a quella luminosità, la sua pelle scura stranamente refrattaria al calore opprimente ed eterno che avvolgeva in spirali la città concentrandosi nel suo centro: il grande Tempio della Dea, un luogo in cui non gli era permesso entrare. I suoi compiti si limitavano alla sorveglianza delle basse mura che circondavano la residenza della Matrona Capofamiglia, una delle sei che reggeva il governo di Che´el Phish, tanto potente che perfino i suoi accoliti maschi avevano l’onore di poter esibire il simbolo della sua illustre casata.
I turni di guardia erano stabiliti a seconda del gradi militare e della parentela con la Capofamiglia: un Generale doveva alla guardia in media un decimo rispetto ad un soldato semplice, ossia tre giri di clessidra rossa ogni due turni di astro - il che voleva dire che a Shasta toccava restare ad osservare il disco solare comparire due volte all’interno del grande foro circolare posto molti metri sopra di loro, al centro della cupola rocciosa che era il tetto di Che´el Phish. Gran parte di questi turni erano votati al silenzio: uno jaluk doveva chinare il capo al passaggio di una femmina e prodigarsi in inchini se questa era una Matrona, un’erede o una Sacerdotessa, gradi che il vestiario indicava; nel tempo restante Shasta osservava gli schiavi girare le grandi clessidre sopraelevate che scandivano il tempo in quel mondo privo di giorni e notti, pensando al sapore che avrebbe avuto la pelle di Kania al loro prossimo incontro, all’odore greve dell’orgasmo che rimaneva a volte per ore nella stanza spoglia, aleggiando come un miasma nell’aria immobile e torrida. Spesso, quando questi pensieri lo tormentavano più del calore – o quando il tempo da dedicarvi era molto – Shasta ripercorreva col pensiero le strette vie verso la casa desolata con il desiderio in corpo, salvo poi avventarsi sul ragazzo umano con tutta la foga e la passione represse, cosa che aumentava solo l’impazienza per la fine del turno; e mentre nella sua testa si alternavano ricordi e desideri, fuori il suo volto era atteggiato a gelida compostezza: non dava a vedere nulla che non volesse espressamente far trapelare.
Talvolta capitava che Dresden dividesse il turno di guardia con lui – cosa che gli provocava una distrazione, mutando l’oggetto dei suoi pensieri -, più spesso era affiancato solo dai bracieri decorativi. Dunque non fu per lui una sorpresa il non trovare alcun ilythiiri4 ad attenderlo o ciondolante lungo le strade in lastroni: dopotutto era il terzo turno, quello appena successivo l’inizio dei riti nel Tempio. La folla di femmine, guardie e mercanti non si sarebbe fatta attendere troppo ma, con un poco di fortuna, Shasta l’avrebbe evitata: la sua postazione, quel giorno, era ragionevolmente lontana dalle vie maggiormente frequentate, lungo un tratto di perimetro che confinava con la parete ovest della grotta. Disponendosi all’attesa, Shasta distese il busto e poggiò le mani sulle impugnature dei due kris ancorati dalla cinta ai fianchi, allungò lo sguardo verso il soffitto e si perse nei suoi sogni.
Non vide Dresden che, correndo a perdifiato, superò l’angolo alla sua destra e scomparve nel tunnel dal quale Shasta era sbucato.
 

*

 
  Quello che seguì fu così confuso che Shasta dovette sforzarsi non poco per ricostruirlo, sebbene lo schema generale degli eventi gli fosse noto.
Erano trascorsi meno di due giri della piccola, veloce clessidra dalla sabbia arancione quando un manipolo di soldati era sbucato dal tunnel alla sua destra, trascinandosi dietro due figure avvolte in stracci insanguinati. Dei prigionieri, aveva pensato Shasta, due idioti che hanno tentato la fuga. Non era infrequente che succedesse, anzi: c’era sempre qualche temerario che credeva di poter lasciare il sottosuolo e che finiva, nel migliore dei casi, a vagare nel buio assoluto dell’Underdark, attraverso cunicoli sempre più stretti in direzione della belva che l’avrebbe divorato, del crepaccio che l’avrebbe risucchiato o degli stenti che l’avrebbero spento. Una fine misericordiosa, giudicava Shasta, molto migliore di quella che sarebbe toccata ai due nel Tempio. Sacrificati. Dati in pasto alla dea, in eterno. Shasta alzò quasi impercettibilmente le spalle, riflettendo che non erano fatti che lo interessassero: peggio per loro, se l’erano voluta.
«Parli ancora con te stesso, Venorsh?» disse una voce bassa e cristallina alla destra di Shasta, che ne avrebbe potuto riconoscere il tono canzonatorio e vagamente annoiato ovunque.
«Da quando in qua mi chiami per cognome, Dresden?» domandò lo jaluk a mezza bocca, non abbandonando la posa contegnosa che gl’era richiesta neppure per voltarsi ad osservare l’amico appena giunto, silenziosamente com’era suo modo, al suo fianco. Dresden era più giovane di lui di una decina d’anni e suo parente ala lontana. Erano cresciuti insieme e, quando l’ambizione bruciava un po’ di più, Shasta sognava di sostituirlo a Kania, un giorno. Che vittoria sarebbe stata allora: sottomettere un maschio della sua stessa genia l’avrebbe fatto sentire importante come una Matrona.
«C’è chi dice che sia piacevole cambiare.» osservò Dresden con calma, tornando a respirare ad un ritmo regolare. Aveva gli abiti macchiati di sangue, notò Shasta, e i capelli bianchi che fuggivano dalla treccia morbida in cui doveva averli acconciati quella mattina.
«Già. E chi pensa che parlare da soli non sia sintomo di pazzia.» osservò Shasta con un ironia appena enfatizzata, badando a tenere il tono di voce basso. Se qualche superiore li avesse trovati lì, a chiacchierare come giovani femmine, li avrebbe di certo fatti frustare.
«Quest’affermazione non va molto a tuo vantaggio, amico mio» osservò Dresden con sagacia, atteggiando il volto ad un’espressione mista di divertimento e compiacimento che fece fremere un nervo nel collo dell’altro maschio.
«Solo perché sei troppo stupido per capire. Questo è un turno di guardia.» obietto Shasta, mantenendo un contegno che dentro di se cominciava a sgretolarsi. Dresden era troppo a suo agio, troppo sicuro: e quel sorrisetto non piaceva per nulla allo jaluk: significava vittoria. E Dresden era troppo ambizioso.
«Lo so.»
«Dunque perché te ne resti lì? I Generali…» disse Shasta, lanciando un’occhiata veloce d’intorno, quasi si aspettasse che un superiore uscisse da dietro un angolo per riprendere la sua insubordinazione. Che sia questo quello che vuole? Sfruttare la mia vergogna a suo vantaggio? Pensa davvero di potermi far riprendere? Che io sia così stupido da farmi cogliere impreparato? A quanto pareva, doveva crederlo davvero.
«I Generali sono in consiglio con le matrone di Casa Sansiss. Ne avranno per un bel po’, temo… i prigionieri fuggiti, li hai visti?» domandò l’altro, retorico, e Shasta annui impercettibilmente, lanciando un’occhiata fugace verso il nero, deserto ingresso della grotta «Fanno parte di un gruppo di nove che ha creato scompiglio per disperdersi nei tunnel. Tre di loro sono rimasti indietro o hanno sbagliato grotta, non so, fatto sta che si sono infilati in uno dei vecchi quartieri dormitorio. Io ero di turno e credimi, amico mio, qualcuno mi maledirà questa sera quando troverà la porta della sua non più bella casetta abbattuta. Due dei prigionieri li abbiamo presi vivi, altri due hanno voluto dare battaglia. Quelli che hai visto sono diretti all’interrogatorio.» Concluse Dresden. Il ghigno si era fatto più pronunciato e ora lo guardava direttamente in volto, un gesto considerato di sfida fra gli ilythiiri. Spiazzato, Shasta impiegò un secondo di troppo per rendersi conto di quello che Dresden aveva appena detto. Quattro schiavi, non tre! Quattro, nel quartiere residenziale, oltre il tunnel, nelle case!
Il cuore perse un colpo, la maschera d’indifferenza si infranse per un secondo appena. Nell’attimo che occorse a Shasta per riprendere fiato, Dresden gli era già addosso e l’aveva colpito con forza alla nuca, togliendogli la ragione e riempiendo il suo mondo di nero oblio.

 


1 Maschio appartenente alla razza umana. Ho inserito questa nota, forse inutile, per sottolineare la differenza fra maschio, termine generico che sta ad indicare solamente il sesso del personaggio, e uomo, che si riferisce ad un adulto maschio di razza umana. 
2 In lingua drowish, maschio appartenente alla razza drow. L’equivalente femminile è “jalil”.
3 La maggior parte dei drow indossa un mantello magico schermante chiamato “piwafwi”, solitamente fatto in pelle di rettile.
4 “drow” in lingua drowish. 

  
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