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Autore: Ronnie02    23/01/2013    3 recensioni
«“Tu sei troppo incosciente di quello che sei”, rispose il ragazzo.
Per lui era speciale in qualsiasi cosa facesse, ma per il resto del mondo era ancora di più.
Era diversa… diversa da chiunque in qualsiasi mondo andasse.
Era unica nella sua specie.»
Come si comporterebbe Jared se qualcosa dovesse fargli cambiare tutte le sue opinioni, tutte le sue convinzioni? Amando così tanto avere il controllo della situazione, cosa farebbe se questa gli sfuggisse via?
E Tomo, con Vicky, come possono proteggere il frutto del loro amore, sapendo che non potrà mai essere quello che credevano?
E Shannon... Shannon, che ama la vita e tutte le sue sfaccettature, come aiuterà il fratello a credere a ciò che sta capitando a tutti loro?
Spero di avervi incuriositi :)
Genere: Avventura, Fantasy, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Tomo Miličević, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Salve Echelon! Come va? 
Come ho detto nelle risposte delle recensioni che mi sono arrivate, mi scuso se la storia è un pò intricata, ma è stata pensata più come originale, per poi l'aggiunta dei nostri amati Mars. Ed è nella categoria "Mistero" per un motivo, quindi mi dispiace se questi capitoli possono risultare noiosi o incomprensibili, ma vedrete che alla fine tuuuuuutto sarà più chiaro.
Detto questo vi lascio alla lettura. :)




Chapter 3. Stranger In A Strange Land

 




Quello che lei aveva sempre chiamato rifugio era decisamente cambiato in questi ultimi anni. Non ci andava da parecchio ed era assurdo credere di essere di nuovo lì.
Quando si era trasferita aveva rinunciato a tutto, ma evidentemente la sua natura non era d’accordo... mannaggia alla sua natura!
“Questo è un bentornata a casa, sai?”, l’avvisò Edmund sorridendole come faceva un tempo. Oh, Signore Santo salvami!, disse lei mentalmente.
“Sarà un bentornata a casa quando toccherò il suolo di Los Angeles, Edmund. Non cominciare...”, disse cercando di non sembrare fredda come però si sentiva. “E poi non dovrebbe essere una riunione sulla mia futura morte?”.
“Smettila di farmi immaginare te morta, non lo sopporto”, sbuffò lui, mentre lei sorrideva. Le piaceva stuzzicarlo e quello era il suo modo preferito. Macabro, ma decisamente efficace. Infatti qualche ciocca dei suoi capelli si colorò di arancione. Lui la guardò male e scosse la testa, come se fosse deluso. “Quei capelli ti manderanno alla rovina”.
“Sei solo geloso perché a te servono le tinte e a me no”, fece la linguaccia Ash, toccandosi i suoi capelli, sempre più arancioni fuoco.
“Sì, certo… comunque sì, è una riunione importante, per quello è stata invitata anche Sorrow. Ma appena finiamo si festeggia il tuo ritorno”, l’informò il ragazzo, mentre lei fece una smorfia e i suoi capelli tornavano biondicci.
“Un ritorno di qualche ora… al massimo qualche giorno”, disse lei, mentre Edmund faceva il broncio. “Mi dispiace, ma voglio tornare a casa mia”.
“Non riuscirò mai a capire questa tua ossessione. Qui hai tutto e puoi essere te stessa, senza paura di essere scoperta”, sussurrò lui, allargando le braccia come per mostrare ciò che diceva.
Era vero, tutto attorno a lei rispecchiava il suo vero essere, ma non le importava di sembrare sempre sotto chiave. Quello non era il luogo in cui voleva vivere.
“Troppi ricordi, Edmund. Ormai non gioco più da anni”, sorrise lei amaramente, tornando alla metafora di prima dei giochetti. Giochetti su cui lei aveva studiato per metà della sua esistenza e su cui aveva lavorato per qualche mese. Giochetti che le avevano portato lontano persone di cui lei aveva un bisogno estremo.
“Lì sei una straniera... non sei come loro”, le disse arrivando alla porta del rifugio, dove con la solita combinazione aprì la porta fin troppo facilmente.
“Lo sono ovunque io vada, Edmund. Per questo mi cerca: sarò sempre una straniera in terra straniera”, rispose lei seguendolo. Entrò nel piccolo corridoio e si sentì totalmente a disagio. “Questo posto mi metteva e continuerà a mettermi i brividi”.
Lui lasciò perdere la prima affermazione, sapeva che in verità aveva ragione, e sorrise alla seconda.
Si guardò attorno e si ritenne a casa, una casa che lei non avrebbe mai ritenuto tale, al contrario suo.
Il pavimento era in legno, completamente rimesso a nuovo, mentre le pareti erano ridotte maluccio a causa dei lunghissimi anni di vita. Attaccate ad esse c’erano, come sempre, dei quadri di persone famose, che molti chiamavano eroi.
Ash aveva sempre odiato quei quadri. Lei era stata molto più eroica di chiunque appeso a quella parete eppure tutti la ricordavano come la vigliacca che l’aveva abbandonata. Bugie, solo bugie. Lei sola sapeva tutta la verità. Lei sola l’aveva vissuta quella verità. Tanto da non riuscire a pronunciare più il suo nome…
“Edmund!”, sentii una voce maschile, anziana, andarle incontro. Erano ormai alla fine del corridoio e davanti a loro una porta si aprì, lasciando intravedere un salotto dall’aspetto antico, in quanto a mobili, ma ben ristrutturato. Quel posto aveva fatto progressi dall’ultima volta in cui Ash ci aveva messo piede!
“Seamus, che piacere rivederti”, sorrise Edmund entrando nel salotto, dove erano sedute davanti a lui quattro persone. L’uomo che aveva salutato era in piedi, di fianco alla porta, con i suoi capelli bianchi e il suo completo impeccabile. Sulle tre poltrone invece erano seduti in fila Sorrow, Zoe, Joel.
“Lei è Ash, non è così?”, chiese una delle due donne sulle poltrone. Doveva essere per forza Zoe, visto che Ash conosceva già Sorrow.
“In carne e ossa… per ora. Non è così, Connor?”, sorrise malefica Sorrow, credendo di essere simpatica. Ah ah ah… non lo sei!, la guardò male  Ash.
“Sorrow, non siamo qui per fare battutine”, l’ammonì Joel. Ash non lo conosceva, al contrario di tutti gli altri a quanto pare. Era un uomo sui quarant’anni, ma li dimostrava molto di più di Jared Leto, per quello che aveva constatato il giorno prima. Aveva i capelli neri, con la pelle abbronzata come se fosse appena tornato da una giornata sotto il sole cocente di Los Angeles, e gli occhi marroni.
Non era nulla di particolare, ma era comunque un bell’uomo.
“Esatto; in effetti siamo qui per il contrario”, disse Seamus, avvicinandosi a lei e toccandole il braccio, gentilmente, come se la volesse invitare a mettersi al centro della stanza per presentarla a tutti. Ma prontamente Ash rifiutò il tocco e si allontanò di scatto.
La tua pelle è liscia… e profumata.
“Deve nascondersi. Anche solo per qualche giorno”, disse Joel, facendo finta di nulla e guardandola negli occhi, che lei abbassò immediatamente.
Occhi di ghiaccio, i tuoi. Al confronto i miei sembrano così impuri…
“Qui di certo non può arrivare. Le guardie sono presenti a tutte le entrate esistenti”, avvisò loro Zoe, mentre Ash pensava a quando erano arrivati.
“Guardie?”, chiese confusa, guardando dietro di sé.
“Sono invisibili, o almeno lo sono finchè la persona che li ha commissionati li rende visibili a chiunque”, rispose Sorrow, sempre con il suo sorrisino da so-tutto-io che Ash avrebbe volentieri preso a sberle. “Credevi davvero che ora si poteva entrare all’ Esis così facilmente?”.
Esisera il vero nome del rifugio. Ovviamente da ‘resistance’, visto che ormai la Resistenza era davvero qualcosa di segreto. Chi ne faceva parte decideva di portare con sé oltre al peso della responsabilità anche quello del segreto.
E lei ci era finita senza nemmeno volerlo. Tanto un segreto in più rispetto agli altri non faceva così differenza.
“Sorrow”, la riprese sottovoce Zoe, ma tanto ormai Ash aveva capito che come sempre quella donna l’avrebbe fatta dannare.
“Forte”, si limitò a rispondere. “Comunque se Sorrow è qui vuol dire che è capitata qualche sfiga… ovvero?”.
“L’asilo in cui lavoro è stato preso di mira, come potevi prevedere”, cominciò a parlare Seamus, mentre dentro di lei si squarciava la sua parte più umana. Quell’asilo era la sua casa e quei bambini erano la sua famiglia… almeno Devon se n’era già andato.
“Non hanno lasciato vittime, cercavano solo te in fondo, quindi hanno risparmiato tutti. Sappiamo solo che hanno terrorizzato il personale, nel modo peggiore che esista. E si fanno vedere ogni giorno, verso pomeriggio, per cercarti”, continuò Joel, cercando di  farle entrare nella testa un concetto fondamentale: tu non tornerai mai più laggiù.
“Non posso permettere che tu continui ad andare a lavorare in quel posto, Ash”, cominciò a dire Edmund, girandosi e provando ad avvicinarsi a lei.
Non posso permettere che tu rubi il mio prestigio, ragazzina.
“Smettila! Non resterò rinchiusa qui per l’eternità: vi do una dannata settimana e poi, costi quel che costi, tornerò a casa. Che mi venga pure a prendere!”, urlò, andando a sbattere contro il muro dietro di lei, mentre Zoe la guardava compassionevole. Ma a lei non serviva la pietà!
“Sei diventata tutta scema ora?! E come credi di vincere se nemmeno sai tenere a bada i tuoi capelli! Sono anni che non ti alleni!”, le rispose a tono Edmund, prendendole una ciocca tendente al viola.
“Allora allenami. Ma ti do solo una settimana, altro non posso fare”, tolse la sua ciocca dalle mani del ragazzo e incrociando le braccia. “Io. Tornerò. A. Casa”.
“Tu sei a casa, ficcatelo in testa”, le gridò Sorrow, sfinita dalla lite.
“Fanculo”, sussurrò Ash, viola di rabbia, voltandosi e camminando verso il corridoio. Edmund provò a fermarla, ma lei lo spinse via. “Non seguirmi… spia!”.
E uscì dal rifugio.
 
“Devon!”, sorrise Tomo prendendo in braccio suo figlio, sano e salvo in quel posto che continuava a dargli i brividi.
“E’ stato bravissimo oggi. Un po’ timido, ma alla fine è stato davvero un ometto”, gli assicurò Natalie mentre guardava Devon con gli occhi dolci, controllandosi però sempre attorno. “De verdad, mi amor? Pero ahora tienes que volver a tu casa, cariño”.
“Non capisco cosa dici, ma di sicuro hai un’intonazione della voce troppo dolce”, ridacchiò Tomo, mentre suo figlio, un po’ addormentato, lo stringeva sul collo. Cominciò a coccolarlo sulla schiena e quello sorrise, anche se aveva il ciuccio in bocca.
“Mi piace parlare in spagnolo con i miei alunni. Capiscono tutto dal modo che hai di parlare e  poco importa se non sanno cosa voglia dire”, disse lei, camminando verso l’uscita per farsi seguire. Tutti i genitori erano ormai  tornati a casa con i propri bambini e mancava solo lui. Non aveva fretta di tornarsene al suo appartamento, ma aveva paura che il piccolo potesse non riuscire a fare lo stesso.
“Mentre con gli adulti sei obbligata a farti capire”, concluse il croato, mentre lei annuiva.
“Già, una vera rottura”, rispose lei, come a chiudere la conversazione. Tomo prese l’invito volentieri e uscì dall’edificio, per andare verso la macchina, parcheggiata lì davanti.
“Lo porterò domani alla stessa ora, okay?”, l’avviso lui, mentre lei annuiva, per poi tornare dentro verso le sue classi ormai vuote e silenziose.
Tomo sospirò e andò verso la sua macchina, aprendola da lontano con la chiave elettrica e facendo illuminare i fari. Quando arrivò, aprì la portiera e mise il bambino seduto bene sul suo sedile e gli allacciò la cintura.
Devon aveva smesso di restare nel dormiveglia e ora lo fissava con gli occhi sbarrati, ma non impauriti, con il ciuccio in bocca. Era come se lo guardasse per dirgli ‘ancora non hai capito che succede lì dentro?’.
“Tu sai che sta capitando, vero? Scommetto anche che Nat ti ha detto tutto in quel suo spagnolo per cui Shannon darebbe di matto”, scherzò suo padre, ridacchiando. Ma Devon continuava a fissarlo. “Ehy, ometto… davvero smettila, piccolo”.
E mentre suo padre si alzava e stava per chiudere la portiera, Devon alzò il braccino, facendo movimenti strani con le mani. Ma, agguantato in un palmo, aveva qualcosa di strambo.
Si riavvicinò a suo figlio, che giocherellava facendo versetti divertiti per poi spostare ancora una volta lo sguardo sul padre, sempre come se cercasse di fargli capire qualcosa.
Devon guardò Tomo muovere la testa come a capire che aveva in mano, così glielo consegno senza fare nulla, solo allungando la mano e aprirla.
“Che hai preso, biricchino?”, sorrise Tomo, prendendo dalle mani del figlio quello che sembrava un pezzo di plastica, forse preso da qualche gioco rotto.
Aveva i contorni irregolari sulla parte destra, come se fosse stato tagliato varie volte prima di romperlo, mentre al centro c’era una strana solcatura. Era inciso.
Era un simbolo strano: era una specie di treccia composta da tre diversi fili di fuoco di tre diversi colori, ovvero viola, nero e indaco, che formavano la lettera A, scritta però in greco. Ai lati della treccia erano incisi anche due rose blu.
“E questo da dove arriva?”, si chiese da solo rigirandosi tra le mani quel pezzo di plastica più volte, cercando di riconoscere quel simbolo. Ma nulla, il suo cervello non sembrava collaborare. “E che diavolo ci fa in un asilo?”.
Devon ad un tratto cominciò a battere le mani, impaziente, e piagnucolare, come a fargli capire che voleva andarsene da lì.
“Sì, tesoro, adesso andiamo a casa”, disse alla fine mettendosi in tasca la plastica e chiudendo la portiera del bimbo, per poi sedersi al posto di guida.
Fece entrare la chiave nella toppa del volante e il motore partì di colpo. Mise in moto e uscì dal parcheggio, anche se prima di svoltare vide nel finestrino che qualcuno entrava nel cortile dell’asilo.
Aveva dei vestiti neri e un cappello bianco. Di nuovo.
“Ma che cazzo succede?”, pensò ad alta voce, mentre man mano che si allontanavano Devon sembrava tranquillizzarsi, e sulla sua faccia compariva un sorriso sincero.
Dopo poco si addormentò di nuovo.
 
“Tesoro, non credi che dovresti prenderti una pausa?”, chiese Vicki a suo marito, fuori dallo studio insonorizzato, aprendo di un poco la porta. Ma Tomo non stava suonando nulla: aveva la chitarra in mano, certo, ma aveva i viso fisso sul computer che aveva portato lì dentro.
“No”, rispose soltanto, quasi staccato.
Lei si stupì della risposta, non era da Tomo essere così frettoloso, e si fece avanti nella stanza, senza che nessuno le disse nulla. Senza far rumore si avvicinò al marito con un sorriso e andò dietro di lui.
La pagina che stava osservando presentata mille e mille simboli, sia religiosi e non, come anche la Triade.
“Avete bisogno di idee per il prossimo album? Credevo che aveste già deciso il nuovo simbolo”, commentò lei tutt’un tratto, facendo spaventare il croato.
“Che stai facendo?”, gracchiò Tomo, chiudendo subito la pagina e mettendo il pezzo di plastica trovato da Devon in un cassetto, prima che lei individuasse solo la sua presenza.
“Sto cercando di stare un po’ con mio marito, ma se vuoi me ne vado!”, s’arrabbiò Vicki, incrociando le braccia e facendo il muso.
Tomo si calmò un momento e le sorrise. Quanto l’amava… l’adorava quando era gelosa, anche solo di un computer.
“No, vieni qui”, disse il croato alzandosi dalla sedia e abbracciandola stretta, mentre lei si lasciava stringere, prendendo in mano la maglietta del marito, come per non lasciarlo scappare.
“Sei così distante da quando ho cominciato a lavorare… soprattutto in questo ultimo periodo con Devon all’asilo”, gli spiegò Vicki, tenendoselo stretto ancora di più.
“Perché tu sei presa da tutte quelle foto. Voglio dire, sono contento, ma non vedo l’ora che tu finisca quel lavoro per rilassarti un po’”, la fece dondolare Tomo, dandole un bacio sui capelli scuri. “In più quel dannato asilo mi mette i brividi da quando Ash è andata via”.
“Ash Connor, la ragazza a cui ho affidato mio figlio, è andata via?!”, si prese un infarto Vicki, staccandosi veloce da Tomo, preoccupata.
“Sì, oggi l’ha tenuto una certa Natalie… brava, parla sempre in spagnolo con i bimbi…”, cercò di calmarla il marito, riabbracciandola.
“Oh, bene… allora di che ti preoccupi?”, chiese la donna, sorridendo e accettando volentieri il contatto che tanto le era mancato.
“Quando siamo andati lì a iscriverlo era tutto pieno di colori, bambini che ridevano, Ash che li faceva giocare e quella segretaria sempre sorridente… ora sembra tutto spento, i bambini sono sempre a dormire quando porto o prendo Devon, Ash non c’è, Natalie sembra costantemente all’erta e quella donna ha gli occhi perennemente sgranati dalla paura, con anche un livido su uno zigomo…”, spiegò tutto Tomo, allontanandola un po’ e guardandola negli occhi. “Devon, il giorno dopo che Ash Connor l’ha tenuto con lei era così felice di tornare, ti ricordi?”.
“Certo, borbottava allegro come quando viene da voi tre”, sorrise la donna, spaventata un pochino dal racconto del croato.
“Bè, appena siamo arrivati a smesso di sorridere, si è appiccicato a me, stringendomi come se fossi la sua unica salvezza e quando l’ho passato a Natalie ha cominciato a piangere… aveva paura”, sussurrò l’uomo e un po’ si sentì stupido. Okay, le cose non quadravano, ma era totalmente assurda come situazione…
“Paura che il giorno prima non ha mai dimostrato”, si fermò a ragionare Vicki, pensando a tutte le nuove informazioni ricevute. “E ora che stavi cercando?”.
“Quando stamattina l’ho portato all’asilo, Natalie mi ha detto di essere puntuale, ma sembrava una sorta di avvertimento”, disse Tomo prendendo dalla tasca il pezzo di plastica inciso e passandolo a sua moglie, chiedendosi se fosse una buona idea. “Quando sono tornato aveva  fretta di lasciarci andare a casa e, mentre sistemavo Devon, l’ho visto giocare con questo”.
A… ma a di cosa?”, si chiese Vicki pensierosa, studiando il pezzo di plastica e guardandolo a fondo, toccando anche le solcature dell’incisione.
“Non ne ho idea… non ci capisco più niente. Shannon dice che non ci devo pensare, ma è tutto troppo strano”, commentò Tomo.
“Domani andremo tutti. Voglio vedere che succede e mi piacerebbe sapere l’opinione anche di quei due. Jared in primis, ha fiuto per queste cose”, sorrise Vicki, per poi mettere il pezzo di plastica sulla scrivania dove prima Tomo stava fissando il computer. Lui annuì, completamente d’accordo. “Ma intanto godiamoci la serata”.
Vicki sorrise malandrina, prendendo la sua maglietta ancora più stretta fra le dita.
Quella stanza era insonorizzata, Devon dormiva beato e loro avevano bisogno di rilassarsi. Sì, certo, rilassarsi
“Oh, facciamo le cattive bambine?”, disse Tomo ridendo, prendendo il volto di sua moglie con le mani, dolcemente, e dandole un bacio tenero, senza pretese.
“Stai zitto, grizzly di colore!”, lo prese in giro la donna ridendo, per poi continuare il bacio, che Tomo riprese volentieri.
La prese per la vita e se la strinse forte addosso, per poi tirarla su di peso e metterla a sedere sulla scrivania. Lei gli circondò il corpo, sia con le braccia sul collo che le gambe attorno ai fianchi, impedendogli una vita d’uscita.
Non che lui volesse scappare, anzi…
Da tutti era considerato il Dio degli Echelon, il Santo Patrono dei Leto che li calmava e li teneva a bada… bè, non era pienamente vero. Se si parlava di divertirsi, Tomo raramente si tirava indietro e questo è stato uno dei motivi per cui i Leto l’avevano accettato.
Come in ogni tradizione che si rispetti, tutti gli angioletti hanno la coda di diavolo. E in quel momento non si rese conto di quanto la cosa potesse essere vera…
Vicki scese con le mani, lasciando il suo collo e andando sulla maglietta, che stropicciò tanto quel che bastava per far sorridere Tomo e staccarselo un secondo per togliergliela.
 Ok, molte persone avrebbero potuto dire che il fisico di Tomo non era eccellente come quello di Jared, o Shannon; lui stesso si copriva sempre anche quando i suoi compagni si vestivano con magliette slargate che non erano nemmeno più magliette. Ma lei non aveva mai visto niente di più bello.
Niente di più suo.
Era fiera di quello che era suo marito, anche fisicamente, e mai si sarebbe lasciata influenzare. Neppure lei era una modella: era bassina, semplici occhi e semplici capelli corti sempre portati in una piccola coda di cavallo con la stessa frangia. Non aveva un fisico eccellente o gambe da panico… era solo Vicki. E lui l’amava.
Questo per lei era tutto ciò che contava. Nient’altro.
A reclamarla dai suoi pensieri fu la mano di Tomo, che navigava malandrina sotto la sua maglietta, facendole un po’ di solletico. Sorrise e lasciò il petto del marito, per aiutarlo a disfarsi pure di quella, mentre lui mi baciava allegramente il collo.
Mannaggia a lui, stavo già dando di matto.
Quando le parti superiori del loro vestiario furono eliminate, quindi anche il reggiseno della donna che Tomo aveva accuratamente sganciato in poco tempo, Vicki cominciò a lavorare sulla cintura dei pantaloni del marito.
Slacciò in fretta anche quella e, afferrando anche i boxer, liberò in fretta le gambe del marito. “Ehy, piano”, l’ammonì lui sorridendole mentre giocherellava con i suoi pantaloncini, spostandola dalla scrivania.
Lei gli prese la mano e se lo riavvicinò, baciandolo mentre indietreggiava. Quando sentì la stoffa del divano sui suoi polpacci lo spinse di nuovo verso di lei e caddero sui cuscini morbidi su cui Tomo di solito sedeva per creare musica.
“Uh, interessante”, giocherellò Tomo con i capelli scompigliati della moglie per poi sorriderle. Lei alzò un sopracciglio, sicura che prima o poi lui avrebbe finito di fare tutto il tenero. “Mamma mia che antipatica”.
“Ah sì?”, disse lei, per poi spingerlo via. “Fanculo Milicevic”.
“No, perdonami dai!”, sorride lui facendole il solletico, andando sempre più in basso con le mani, toccando l’intimo della donna e, in pochi secondi, stracciarlo via. “Così va meglio… e Devon ha bisogno di compagnia, sai?”.
“Sei un fottuto cretino, Tomo!”, sorrise lei, baciandolo e continuando a giocare.
 
La batteria non voleva funzionare come voleva. E che cazzo!
“Christine, ti prego, non complicarmi l’esistenza”, la pregò Shannon, chiamandola per nome come se fosse una figlia, mentre questa continuava a dare problemi.
Prima il pedale rotto, e va bene.
Poi i piatti smollati, e Shannon cominciava innervosirsi.
Poi le bacchette scomparse, e lì non ci vide più.
“Sto impazzendo”, ridacchiò Shannon, capendo che non era colpa di Christine, povera batteria inanimata. Si accasciò sulla gran cassa e cominciò a battere il piede, senza cercare davvero un ritmo.
“Fratello, fai una pausa o ti scoppia la testa”, entrò Jared nel Lab, con un bicchiere di Starbucks e un sorriso sulle labbra.
Labbra visibili. Mento visibile. Niente barba. Capelli tagliati.
“Ti hanno preso di nuovo per uno spot di Hugo Boss?”, chiese Shannon, scioccato. Erano mesi che avevano deciso di provare a far crescere la barba, al contrario di Tomo che aveva deciso di rimanere con il suo stile.
“No, ma lo sai che dopo un po’ mi stufo”, sorrise il fratello buttandosi su uno dei divanetti del Lab, bevendo dal classico bicchierone bianco e verde.
“Però non ti eri mai fatto due capigliature uguali…”, disse il batterista, alzandosi dalla sua Christine e andando a ispezionare la testa di Jared.
“Infatti non è uguale”, specificò il cantante, appena notò il fratello girargli intorno.
“Wo oh!”, esultò Shannon. “Sei tornato vent’enne?”.
“No, ho visto un tipo e volevo vedere come mi stava”, disse toccandosi la nuca con la mano. Rasato; aveva i capelli un po’ rasati alla fine della testa.
Non si notava molto, ma era una bella idea e sembrava di sicuro molto più giovane, come sempre.
“E magari questo nuovo ringiovanimento è dato da una ragazza bionda e blu con gambe da urlo che ti scoperesti volentieri?”, sorrise Shannon, toccandosi la barba. Avrebbe dovuto farci qualcosa anche lui…
Non ora, ci avrebbe pensato all’uscita del disco, quando avrebbe dovuto presentarsi al mondo come batterista e non come scimmia.
“Chi?”, fece il finto tonto Jared, continuando a bere.
“Se ciao fratello!”, ridacchiò Shannon, saltando oltre il divano, per poi stendersi comodamente a fianco del cantante e appoggiare i piedi sulle sue gambe, sorridendogli.
“Togli i tuoi arti o giuro che li faccio a pezzi”, minacciò il fratello guardandolo truce.
“E poi che fai? Li porti ad Ash Connor come trofeo?”, lo prese in giro Shannon facendola linguaccia.
“No, all’obitorio con il resto del cadavere, stronzo!”, gli disse sposandogli i piedi e facendolo sedere.
“Che antipatico…”, sorrise Shannon. “E comunque che nome è Ash? A me piace di più la versione lunga, Ashley… no?”.
“Ha detto che non si chiama Ashley, ma proprio Ash”, commentò il cantante. “Chi la capisce è bravo”.
“Mi ricorda quello dei Pokemon. Si chiamava Ash, giusto?”, scherzò il batterista. “Magari è andata via perché i suoi Pokemon dovevano affrontare la finale del Torneo!”.
“Ma quanto sei cretino”, rise Jared finendo il suo caffè. “Però non è  strano? Che se ne sia andata proprio il giorno dopo il nostro arrivo?”.
“Magari non ti voleva più vedere”, fece lo sbruffone.
“Dio se sei un coglione!”, s’offese Jared, per poi andare a provare qualche nuova canzone nella cabina del canto.
Shannon si mise sdraiato di nuovo, ridendo ancora un po’. Però, dopo che Jared ebbe finito di cantare la prima canzone e attaccò con la seconda, gli venne un dubbio.
Seriamente… com’era possibile che di punto in bianco una ragazza decida di andarsene in ferie per un paio di giorni senza avvisare? E per quale motivo?
 


...
Note dell'autrice:
dai, che prima o poi tutti i nodi vengono al pettine, piccolo Shannon indagatore (??). 
Abbiamo anche un piccolo momento Tomo//Vicki, per la mia felicità (li adoro troppo quei due, sono i miei Zeus//Era al confronto degli antichi greci.... ok lasciatemi perdere, oggi non ci sono proprio xD)
Va be, spero che vi sia piaciuto e ....recensiteeeeeeeeeeeeeeee. Mi farebbe piacere, sul serio, sapere cosa ne pensiate. E ringrazio tutte le lettrici, o chi ha messo la storia tra preferite o seguite. GRAZIE
Ronnie02
   
 
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